Gabriel Seroussi
Come tutte le grandi narrazioni dell'eroe, anche il gangsta rap si fonda su miti e archetipi ricorrenti. Tra questi il più interessante, perché lega erotismo e sacralità, è quello della madre.
Uno degli argomenti più dibattuti in antropologia riguarda i miti, come questi siano stati elaborati e come a loro volta contribuiscano a modellare la società. Non a caso, “il mito è un ingrediente indispensabile di ogni cultura”, diceva il padre dell’etnografia moderna Bronisław Malinowski. Nel corso del secondo Novecento, gli Stati Uniti sono stati un vero e proprio case study in questo ambito. Infatti, a differenza dei cittadini europei, gli statunitensi, dai “padri fondatori” in poi, hanno dovuto inventare una propria mitologia, che indirizzasse il pensiero e giustificasse l’azione. Questa mitologia, data la giovane età dello stato americano, non poteva essere orientata al passato, ma doveva rivolgersi al futuro. È in tale direzione che molti ricercatori hanno interpretato, per esempio, il ruolo assunto dai fumetti dagli anni Trenta del Novecento in poi. Le storie per immagini della DC Comics o della Marvel, nella loro semplicità, potevano essere lette come delle parabole, in grado di illustrare un insegnamento morale e di strutturare un pantheon valoriale. Ad oggi, è possibile osservare la formazione di nuovi archetipi, legati al successo di culture, prima subalterne e circoscritte, e ora rilevanti a livello globale. Il rap, ossia il genere musicale più influente dell’ultimo trentennio, è effettivamente portatore di una sua mitologia, molto ben definita. Questa, nata innanzitutto per interpretare i bisogni della comunità Nera in America, tratteggia modelli culturali in cui oggi si identificano milioni di persone in tutto il mondo. Uno dei topoi più diffusi in tale narrativa è quello della madre-santa, una figura accogliente e compassionevole che, travalicando la dimensione terrena, diviene oggetto di devozione con caratteristiche simili a quelle che la fede cristiana assegna alla Vergine Maria. Da Dear Mama di 2Pac a Hey Mama di Kanye West, passando per esempi italiani come Amor de mi vida dei Sottotono e Amore di Mamma di Simba La Rue: la lista di brani dedicati alla figura materna è pressoché infinita. Per non parlare poi di alcune formule fisse, a cui più volte i rapper ricorrono come fossero dei mantra: dal più materialista “comprare la casa alla mamma”, al più psicologico “non amo nessuno quanto mia madre”. Non ci sono generi musicali che danno altrettanta centralità a questa figura, che diviene nel rap allegoria di una donna ideale. Ma, c’è da chiedersi, perché, in un genere apparentemente così machista come il rap, gli artisti raccontino ossessivamente quanto amino la mamma?
È opportuno, innanzitutto, fare delle distinzioni. Il rap non è un genere monolitico, c’è chi, addirittura, avanza l’idea che forse non si possa più nemmeno definire un “genere”. Un po’ come nel rock, all’interno della famiglia del rap convivono produzioni musicali diversissime, che tra loro ormai hanno in comune solo dei lontani antenati. Tra i diversi rami dell’albero genealogico del rap, ce n’è uno in particolare più fitto degli altri, quello del gangsta rap. Questo sotto-genere è contemporaneamente il più controverso e quello di maggior successo della sua storia. Più che elencare tutte le caratteristiche di quest’ultimo, è importante sapere che molti elementi che oggi consideriamo come appartenenti al genere, nascono solo nella seconda metà degli anni Ottanta, con l’ascesa commerciale della cultura gangsta, e non rappresentano il genere musicale nel suo insieme. A partire da questa fase storica si afferma un nuovo universo narrativo, molto più crudo nelle tematiche e nichilista nello spirito. Infatti, come argomenta il filosofo Cornel West, le radici della gang culture vanno ricercati nel profondo senso di depressione psicologica e sociale che si diffonde nell’America nera negli anni Ottanta, dopo la decapitazione dei movimenti politici del decennio precedente. A differenza di altri rami della famiglia del rap, quello gangsta non ha alcuna ambizione trasformativa della società, è più un racconto documentaristico e in prima persona del ghetto e, insieme, un mezzo per arricchirsi e uscirne il prima possibile. Questo nuovo paradigma, profondamente individualista, che costringe a pensare se stessi in termini imprenditoriali e capitalistici, si nutre anche, inevitabilmente, di comportamenti machisti, utili a sopravvivere e a ottenere i propri obiettivi personali nella società patriarcale.
“Il rap, ossia il genere musicale più influente dell’ultimo trentennio, è effettivamente portatore di una sua mitologia, molto ben definita”.
Inteso come una continua esibizione di virilità, si sviluppa quindi nel rap una sorta di “machismo performativo”: gli artisti assumono una postura stereotipata di maschio violento, cinico e insensibile. In un meccanismo perverso, che si lega a dinamiche insite all’industria dell’intrattenimento americana, questo stereotipo ottiene un enorme successo nel pubblico bianco generalista, che ritrova nei rapper esattamente ciò che si aspetta in un uomo nero. Ogni forma di mascolinità, o in questo caso di iper-mascolinità, si riferisce infatti a dei costrutti che la società patriarcale vorrebbe ritrovare nel genere maschile e al bisogno di molti maschi di aderire a tali modelli prescritti per essere accettati dalla società stessa. Non si può non sottolineare come questa identità maschile nera, che nel rap trova la sua espressione, sia strettamente legata alla percezione razzializzata che la società americana (bianca) ha degli uomini neri. La mascolinità espressa nel rap ha il suo antenato nella cosiddetta “cool pose”. Ovvero quell’atteggiamento duro, impavido e freddo emotivamente adottato da una parte di uomini neri come meccanismo di difesa per affrontare l’oppressione razziale negli Stati Uniti. Sviluppatasi a metà del XX secolo, la “cool pose” si sarebbe diffusa nella comunità nera come reazione all’esclusione dai rituali maschili codificati degli uomini bianchi e della nascente borghesia nera. Sia la mascolinità legata al rap che la “cool pose” immortalano un maschio nero archetipico, in cui violenza e misoginia non solo sono lodate, ma anche utilizzate per convalidare la propria esperienza di maschio afroamericano. È infatti una conseguenza diretta di questa narrazione riconoscere l’autenticità dell’esperienza di essere uomini neri in America solo a coloro che a questa stessa aderiscono. Da qui nasce, per esempio, l’esasperazione nel rap del concetto di “realness”, ossia della necessità di essere fedeli a sé stessi e alla propria identità razziale e urbana, creando una piena corrispondenza tra sé stessi e ciò che si esprime nei testi delle canzoni. Quando il rap diventa un fenomeno globale, e perciò commerciale, questo atteggiamento iper-mascolino si diffonde anche in contesti lontani da quello afro-americano. Tale archetipo si fa dunque interprete di un bisogno di modelli maschili in cui identificarsi per moltissimi giovani uomini in tutto il mondo.
I rapper diventano quindi dei thug, ossia dei duri, degli uomini di strada e tutti d’un pezzo. Il thug è caratterizzato da una profonda scissione tra i desideri, sempre materiali, di successo e ricchezza, e l’affettività, ritenuta un orpello inutile, o addirittura, un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi stessi. È infatti un cliché del rap l’idea che sia necessario sopprimere le emozioni per sopravvivere nel mondo ferino della strada. “In order to survive, got to learn to live with regrets” – dice, per esempio, Jay-Z nel brano Regrets. Questo tipo di freddezza trova nel rapporto con le donne il suo apice. Se tra maschi prevale un rapporto fraterno, di supporto e comprensione reciproca, le donne non sono meritevoli di attenzioni che vadano al di là dell’interesse sessuale. Per questo motivo le donne rivestono spesso il ruolo di trofeo, figure oggettificate e ipersessualizzate. Al netto di tantissimi rapper, uomini e donne, che hanno proposto immagini femminili assai valide, non si può negare quanto la misoginia ricopra nel rap, soprattutto in quello mainstream, un ruolo centrale. L’utilizzo continuo di un linguaggio avvilente e denigratorio nei confronti delle donne permea moltissimi brani rap. Oltre al linguaggio degradante, l’oggettivazione delle donne avviene nella rappresentazione che di loro viene fatta nei videoclip, spesso in abiti succinti e pronte a soddisfare le voglie degli uomini che le circondano. L’iper-mascolinità nel rap è dunque un concetto che si definisce anche contro la femminilità. Ciò comporta la subordinazione del desiderio delle donne a quello maschile e la colonizzazione del corpo femminile sotto lo sguardo predatorio degli uomini. La figura ricorrente della “gold digger” è in questo senso emblematica. Letteralmente “cacciatrice di dote”, questa è nella mitologia del rap uno dei personaggi più disprezzabili. La “gold digger” è infatti la donna che cerca di approfittare del successo del rapper maschio per trarne un vantaggio, economico o di prestigio.
All’interno di questo universo narrativo, l’unica figura femminile a cui viene assegnato un valore positivo è quella materna. Con questa si costruisce il solo legame emotivo valido possibile con una persona dell’altro sesso: un rapporto di accudimento e assistenza. Quella della madre è una figura addolorata, che si strugge per il figlio ma che è sempre presente, che tutto accetta di lui anche quando questo la fa soffrire. Emis Killa, uno dei rapper più contestati per le sue dichiarazioni sessiste, dedica il brano Tutto Quello Che Ho a sua madre: “Mamma, è un nome troppo comune per ciò che sei / Accomunerei le stelle ai tuoi occhi in comune ai miei / Tu sei, il mio angelo in questo Inferno / il mio diavolo quando è Inverno / Il mio amore, quello vero, quello raro, quello eterno”. Jake la Furia, nel brano Il sole e la luna, pone l’accento sull’ansia che sua mamma provava quando lui, adolescente, si cacciava nei guai: “Odiavo l’autorità, le parole di papà / Fino a quando il tuo bambino è uscito in piazza / E tu sei uscita pazza / Con l’ansia e le brutte amicizie / Ti ho detto solamente la metà di tutte queste sporcizie / Ma mi hai visto piangere di rabbia e di disperazione / E poi fare un concerto con migliaia di persone, sì /Siamo legati anche se non c’è più il cordone”. Anche rapper che si legano meno all’universo narrativo che abbiamo citato in precedenza, ad esempio Tormento, autore de La Mia Coccinella, una delle canzoni più romantiche della storia del rap italiano, nel brano Amor de mi vida si concentra sulle rinunce che la madre ha fatto per far crescere i suoi figli: “E ripensandoci, in questo tuo dare / Hai dei rimpianti quali son stati i prezzi da pagare / E se di me ora voglio renderti orgogliosa / È perché so che per me hai rinunciato ad ogni cosa”. In Hey Mama, Kanye West racconta, invece, del supporto incondizionato che la madre ha dato alla sua carriera musicale: “Forrest Gump mama said, “Life is like a box of chocolates” / My mama told me, “Go to school, get your doctorate / Something to fall back on, you could profit with” / But still supported me when I did the opposite”. L’ambizione di ogni rapper, alla luce di quanto la madre ha fatto per lui, è quella di risarcirla; da qui nasce, per esempio, il cliché del “comprare la casa alla mamma”. Tale cliché si lega strettamente al sentimento di rivalsa sociale che il rap esprime attraverso l’ostentazione dei risultati economici ottenuti. Molti rapper ci tengono dunque a sottolineare di essersi emancipati da un contesto svantaggiato, sfoggiando le proprie nuove possibilità economiche.
“”All’interno di questo universo narrativo, l’unica figura femminile a cui viene assegnato un valore positivo è quella materna. Con questa si costruisce il solo legame emotivo valido possibile con una persona dell’altro sesso: un rapporto di accudimento e assistenza”.
Soprattutto quando la figura paterna è assente fisicamente ed emotivamente, vicenda comune a molti rapper afro-americani e non solo, la madre assume un ruolo centrale nell’esistenza del figlio. La figura materna è quindi diversa dalle altre donne, innanzitutto perché è sempre comprensiva, accogliente, compassionevole, dunque priva di altri interessi che non siano la realizzazione personale del figlio stesso. È una personaggio che si definisce in relazione all’altro, orfano di una identità a sé stante. Questo tipo di rapporto con la mamma rappresenta una moderna concezione di “amore puro”, che si avvicina all’idea cristiana di devozione religiosa. Non è un caso che questa immagine nel cristianesimo sia impersonata dalla Vergine Maria, ossia da una donna svuotata della sua identità sessuale . Il dualismo risiede qui: se tutte le donne sono p*ttane, l’unica donna rispettabile è una santa, Lo spiega, senza girarci attorno, il rapper italo-marocchino Simba La Rue in Amore di mamma: “Ti parlo d’amore, ma quello di mamma / Non parlo di quello di una p*ttana”. Questa unicità del rapporto materno, in opposizione alle altre donne, viene raccontato anche da 2Pac Shakur, nella famosissima Dear Mama: “Ain’t a woman alive that could take my mama’s place”. Lontani da una concezione edipica del rapporto madre-figlio, sembrerebbe che la centralità della figura della madre-santa nel rap abbia le proprie origini nella scissione tra desiderio e affettività di cui si accennava pochi paragrafi fa. Se nell’idea iper-mascolina di molti rapper il desiderio sessuale ha una accezione predatoria, di possesso e di sfogo di una pulsione a cui non si riesce a porre un freno, tale desiderio sarà necessariamente separato da una forma reale di affettività, che prevede un interesse nella scoperta dell’altro diverso da sé, e dunque il riconoscimento della sua identità sessuale.
Al netto delle condizioni storiche, sociali e psicologiche in cui nasce la mitologia legata al rap, è evidente che quest’ultima produca una visione distorta dei rapporti uomo-donna. Verrebbe quindi da chiedersi come mai questi archetipi abbiano un tale successo. Da una parte si potrebbe ipotizzare che la diffusione di questa identità iper-mascolina sia frutto di una mancanza di modelli maschili alternativi validi, in una fase storica in cui l’ordine patriarcale viene finalmente messo in discussione. Soprattutto in contesti sociali più fragili , per molti giovani uomini questa auto-narrazione rappresenta un modo per evitare di mettere in discussione le proprie convinzioni e mantenere uno status quo rassicurante. Questo modello non esiste infatti solo nel rap, ma è diffuso nella società in maniera trasversale. Nel libro Pornografia e revenge porn, di Daniela Della Putta e Alessandro Bassi, i due autori dedicano un interessante capitolo al rap. In questo passaggio viene ipotizzato cosa possa spingere tanti ragazzi ad abbracciare una identità maschile così nociva e come mai la madre ricopra in questo genere musicale una tale importanza: “Probabilmente ciò che turba oltre misura è l’incertezza dei rapporti, la possibilità di non riuscire a realizzare felicemente una relazione che faccia crescere, il timore di un rifiuto, di un abbandono. La madre invece è sempre presente e tollerante in questo passaggio tra l’essere bambino e diventare un adolescente.”
Dall’altra parte, è innegabile che il rap abbia il merito di fornire a tantissimi giovani uomini la possibilità di verbalizzare la loro ricerca di una identità maschile valida, seppur offuscata da modelli conservatori. Questo è infatti un linguaggio accessibile a tutti, che ha dato, e continua a dare, una libertà di espressione senza precedenti a persone provenienti da ogni condizione socio-economica e background razziale-culturale. Per esempio, la figura della madre-santa, che nella mitologia del rap diviene centrale, ha una sua importanza anche in altre culture, che nascono in contesti sociali marginali. Nel documentario Mamma vita mia del 2018, emerge il suo ruolo nell’iconografia del tatuaggio dei detenuti. Il rap diviene dunque uno strumento dialettico per sublimare artisticamente realtà già diffuse nella società, che spesso restano senza voce.
Nel già citato Amore di mamma di Simba La Rue, il rapper non si limita a raccontare il suo amore per la mamma, ma esprime anche i turbamenti di un giovane uomo che si rapporta a un’immagine maschile violenta, come quella di suo padre: “Papà, mi sa che hai bevuto un po’ troppo / Mamma piange perché ne ha viste troppe / Non dorme finché non rientro la notte / Suo marito che la riempie di botte / Mamma guerriera m’ha donato la forza”. Nello stesso brano c’è anche spazio per un ritornello in cui il rapper, di solito spavaldo e aggressivo, si mostra vulnerabile: “Sono stato male, male, male male, male, male, male, male, male / Senza money, money, money, money /Ho-Ho la testa piena di problem”. In carriere più lunghe di quelle del giovanissimo Simba La Rue, si è anche potuto osservare come alcuni rapper abbiano, nel corso degli anni, decostruito la propria immagine iper-mascolina. È il caso, per esempio, del leggendario Jay-Z, nella cui produzione è possibile tracciare una parabola trasformativa, proprio attraverso il rapporto con sua madre. Nella prima fase della sua carriera, il rapper newyorkese ritraeva la madre nei panni della madre-santa, unico punto di riferimento di una famiglia mono-genitoriale: “Mama raised me, pop, I miss you / God, help me forgive him, I got some issues” (Blueprint, 2001). Lo stesso anno, la signora Carter è stata anche protagonista di uno dei momenti più “invasivi” di una madre nella storia del genere. Fu lei, infatti, a porre fine al celebre dissing tra il figlio e il rapper Nas, quando costrinse Jay-Z a scusarsi in diretta radiofonica con il suo avversario per aver pubblicato il violentissimo freestyle Super Ugly. Qualche anno più tardi, nel brano autobiografico December 4th (2004), la voce della madre del rapper intermezza le strofe del figlio, narrando le tappe più importanti della sua vita. La figura materna torna ad essere centrale in 4.44 del 2017, l’ultimo disco pubblicato da Jay-Z. In Smile, il rapper racconta per la prima volta dell’omosessualità di sua madre: “Mama had four kids, but she’s a lesbian / Had to pretend so long that she’s a thespian. Had to hide in the closet, so she medicate / Society shame and the pain was too much to take.” Intervistato da David Letterman nel 2018, l’icona di Brooklyn ha spiegato di aver scritto Smile il giorno dopo che la madre avesse fatto coming out con lui. Per il rapper, riconoscere a sua madre una identità femminile sessuata, al di là del suo essere madre, è stata la chiave per aprirsi ad un rapporto differente con le donne. In un altro dialogo, questa volta con l’allora direttore del «The New York Times» Dean Baquet, Jay-Z ha raccontato di aver frequentato un terapeuta per diversi anni e di come la terapia lo avesse aiutato a riconsiderare il suo percorso di vita fino a quel momento: “Mi sono reso conto che, essendo cresciuto in un certo tipo di quartiere, ho per anni soppresso tutte le mie emozioni, per non mostrare le mie vulnerabilità. Anche nel rapporto con le donne, io spegnevo le emozioni, per questo non riuscivo a connettermi con loro.”
Verrebbe da chiedersi se il rap sia la causa o una possibile soluzione alla diffusione di un modello iper-mascolino. Probabilmente, nessuna delle due, o, forse, è entrambe le cose. Il rap è insieme una forma espressiva straordinaria, capace di accendere un faro su problematiche complesse e radicate nella società, ma è anche un prodotto commerciale, che inevitabilmente contribuisce a ri-produrre stereotipi dannosi e reazionari.
Gabriel Seroussi
Gabriel Seroussi è autore e giornalista. Si occupa di rap, cultura black, società americana. Collabora con diverse riviste ed è fondatore e direttore di oltreoceano.eu.
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