Lorenzo Gramatica
Il film di McElwee, fuori concorso a Venezia, è una commovente riflessione sulla memoria, sul mestiere di regista e sull’essere genitori a partire dalla morte di suo figlio Adrian.
Fino a tre giorni fa, non avevo passato più di due ore lontano da mio figlio, nato a giugno. Se prima la prospettiva di passare del tempo da solo a guardare film mi pareva eccitante o quantomeno desiderabile, ora mi assale una lieve angoscia: e se mi stessi perdendo momenti fondamentali della sua crescita? Un nuovo gorgoglio, un vocalizzo più elaborato, un mutamento nella routine del sonno, un tentativo più determinato di star dritto con la schiena. Quei giorni non torneranno più, te lo dicono con espressione affranta tutti i genitori che ci sono già passati; è un attimo, crescono così in fretta che ti dimentichi quando erano così piccoli. (Lo fanno forse anche per caricarti di un odioso fardello di rimpianti?).
Per colmare la distanza, la mia compagna ogni giorno mi invia foto e video del bambino. E in effetti, a guardarli – forse vittima delle mie stesse suggestioni auto-colpevolizzanti da padre degenere che ha barattato la responsabilità genitoriale con qualche tramezzino al tonno e una manciata di film – mio figlio mi sembra davvero cambiato: interagisce di più, forse? Sbaglio o non è mai stato così tanto in ginocchio, nel tentativo di sollevarsi? Sbagli, sbagli, mi rassicura la mia compagna, ma al contempo assicurandomi che il bambino ha un sonno inquieto perché sente la mia mancanza, lo dice anche l’ostetrica!
Guardo questi video e ritrovo una versione di mio figlio che riconosco solo in parte, come fosse il personaggio di una mia fantasia malinconica e ansiosa. Lo schermo mi restituisce la gioia del suo risveglio, un’interazione sorridente, un movimento che sembra assecondare il ritmo di una canzone. Non la stanchezza che è preludio al pianto, la fatica di essere così piccoli ed esposti a tanti e nuovi stimoli, una improvvisa e inconsolabile disperazione. Ma viene così a mancare il senso di un rapporto che è tale anche e soprattutto per i momenti di noia, di stanchezza, di frustrazione e per le impercettibili scoperte che solo la vicinanza prolungata possono garantire. Una vicinanza che prescinde dalle immagini e che le immagini, riguardate a distanza di tempo, non possono restituire davvero.
Per Ross McElwee, originale e innovativo documentarista americano con quasi cinquant’anni di carriera alle spalle, la macchina da presa coincide con lo sguardo, e non è un modo di dire o una frase a effetto: il suo cinema è una messa in gioco della propria vita e di quella della sua famiglia, non come mera riproduzione di un autobiografismo pacchiano e fine a se stesso ma come “metodo” per raccontare storie e realtà più ampie; nel tentativo, i due piani si sovrappongono spesso e strade impreviste si aprono perché la vita impone le sue esigenze. Per questo i film di Ross McElwee insegnano, prima di tutto a lui che li realizza, l’esercizio della pazienza, dell’improvvisazione e la consapevolezza che l’imprevisto è più che una possibilità in questo tipo di cinema che non cerca di imbrigliare la realtà, ma si offre ad essa come una superficie porosa. McElwee si è formato all’MIT, alla scuola di Leacock, pioniere del Cinema Vérité, e nel corso del tempo, pur tenendo ben presente quel modello, lo ha trasgredito fino a crearsi una propria, riconoscibile grammatica da documentarista: tono informale, uno spiccato senso dell’umorismo e la già ricordata capacità di raccontare sé stesso senza narcisismi. In questo, il suo vero maestro è stato un altro grande documentarista, anche lui all’MIT, Ed Pincus, che lo ha incoraggiato a usare con grande libertà il voiceover in anni in cui non era scontato farlo e in contrasto con i dettami del Cinema Vérité. Quello di McElwee è caldo e informale, come improvvisato, con ripetizioni e giri di frase colloquiali.
Nei suoi film, piccole storie personali, drammi e momenti lievi di intimità, si giustappongono alla Storia, e il processo di lavoro, per nulla nascosto, si svela agli occhi dello spettatore. È quello che accade, tra gli altri, in Sherman’s March (1986), nato come film sulla Guerra Civile americana e sulla campagna militare del generale Sherman negli Stati del Sud e diventato una divagante opera sulla fine di una relazione affettiva e sulla ricerca di una nuova compagna. A voler esagerare, è un “Guerra e Pace” in versione lo-fi, senza magniloquenza e pomposità, e invece affettuoso, colloquiale come una chiacchierata tra amici.
Ross McElwee ha sempre la macchina da presa in mano e i suoi amici, amiche, compagne e figli si sottopongono da sempre, a volte docilmente e con entusiasmo, altre volte con riluttanza o negandogli questa possibilità, all’occhio nero della camera, in una continuità tra i personaggi che conferisce coesione alla sua opera. Con rispetto, McElwee asseconda la volontà dei suoi famigliari: la moglie, dopo In Paraguay, ottiene di non comparire più davanti alla camera – la sua assenza è preludio alla separazione che avverrà qualche anno dopo. La sua compagna attuale, la regista coreana Hyun Kyung Kim, si fa riprendere ma non in volto. Il figlio Adrian, invece, è forse il più assiduo dei suoi sodali e “personaggi”, è una presenza a cui gli spettatori hanno fatto l’abitudine, seguendone la crescita film dopo film.
L’ultimo lavoro di McElwee, Remake, fuori concorso a Venezia, racconta proprio della morte di Adrian, ma è molte altre cose: riflessione sul rapporto con le immagini, sul lavoro di regista, sull’invadenza della macchina da presa e sulle conseguenze che questa esposizione costante ha sulle persone attorno a lui. Soprattutto, è un film sull’essere genitori e sulle incertezze, sugli errori e i fallimenti che derivano da questa condizione. Crescere un figlio e fare cinema – almeno nell’unico modo in cui Ross McElwee può fare cinema – hanno in comune l’occhio cieco nei confronti del futuro: non sai mai cosa potrà accadere e il meglio che puoi fare è cercare di adattarti alle circostanze e alla natura aleatoria della vita. Il film si apre con le immagini del piccolo Adrian che pesca con indosso una maglietta a righe; ha una faccia simpatica e i capelli a caschetto. Chiede al padre se possono liberare alcuni dei crostacei che hanno pescato. Il voiceover di McElwee ci informa della morte del figlio e di fronte a questo volto di bambino che ci guarda sentiamo che la vita non può più scorrere equamente per loro due se non all’interno delle immagini; è una prima stretta al cuore e l’inizio di un percorso di accettazione della morte, che il cinema non può sconfiggere, ma solo ingannare, non senza profonde e dolorose conseguenze per chi cerca nel passato una consolazione al presente impossibile e al futuro negato.
“Guardo questi video e ritrovo una versione di mio figlio che riconosco solo in parte, come fosse il personaggio di una mia fantasia malinconica e ansiosa. Lo schermo mi restituisce la gioia del suo risveglio, un’interazione sorridente, un movimento che sembra assecondare il ritmo di una canzone”.
L’ultima volta che McElwee era stato alla Mostra del Cinema di Venezia era il 2011, quando aveva presentato il suo Photographic Memory assieme ad Adrian, che del film è protagonista. Durante la conferenza stampa, vediamo Adrian visibilmente a disagio quando gli chiedono se non abbia provato imbarazzo nel riguardarsi sullo schermo. Non è stato semplice, risponde al giornalista. Il padre lo porta con sé per farlo familiarizzare con un mondo, quello del cinema e dell’arte, che lo attrae molto e nel quale si cimenta in modo caotico. Nel tentativo di essere incoraggiante, forse gli arreca danno, dandogli aspettative irrealistiche sulla vita. Adrian è un adolescente nel 2011. Rimprovera il padre per la sua mancanza di talento per gli affari; perché non vuoi fare soldi? Perché fai questi film? Perché, visto che mi riprendi da sempre, non mi hai trasformato in una baby star? Il padre gli chiede – ma lo chiede a se stesso, prima di tutto – “Chi ti ha trasmesso questi valori?”. Il bambino che si concedeva senza ritrosie, come in un gioco affettuoso, all’obiettivo del padre, è diventato un adolescente riottoso, introverso, complicato, che beve spesso troppo e comincia a sperimentare con le droghe. Sarà questa la causa della sua morte. Le dipendenze diventano via via soverchianti: alcool, eroina, Fentanyl, la sostanza che lo porterà alla morte per overdose nel bagno della casa paterna, durante un periodo di sobrietà illusoria. A Venezia il girato di Adrian, che Ross McElwee include in Remake, lo mostrano bere cocktail e shot, papponeggiare sulle barche, con sottofondo di hip hop e montaggio da videoclip. Quando Adrian si riprende, lo fa con il piglio dell’amatore che considera interessante la sua vita per il solo fatto che la sta riprendendo: lui in skate, lui in macchina, lui che scia, lui che beve, lui che si droga. Non c’è nessun interesse per lo spettatore, nessuna volontà di conoscersi meglio attraverso la camera. La distanza dal padre – un padre che è abituato a usare il filtro della camera per riflettere su se stesso e su quello che lo circonda – si percepisce con chiarezza.
I filmati amatoriali girati da Adrian sono una parte fondamentale di Remake. Il padre li interroga, cerca delle risposte. “Guardo questo materiale non tanto per ricordarmi che eri vivo, ma per convincermi che non ci sei più”. Guardando le riprese del figlio, il regista si chiede se averlo sottoposto a una esposizione così costante nel tempo sin dalla giovanissima età non abbia finito per minarne la personalità già fragile. E come è possibile che non si sia accorto della sua inclinazione alle dipendenze, dei suoi disagi profondi, pur avendo la possibilità di rivedere ancora e ancora il materiale con il figlio al montaggio? L’occhio del regista si rivela inefficace, inerme e così è quello del padre. “Ero un padre, ero un regista”. E ora? Ora che è morto, McElwee cos’è? Adrian vive solo nello spazio sospeso del cinema, al punto da essere diventato un personaggio che assomiglia ma non è suo figlio. La necessità di riprendere viene a mancare, e quindi lo sguardo creativo del regista viene sostituito da un atto del guardare rivolto al passato, alla ricerca di una traccia di Adrian.
Come sempre nei film di McElwee, altre trame si dipanano dal tema principale: il tentativo fallimentare del regista di commedie di successo hollywoodiana Steve Carr di realizzare un adattamento di finzione di Sherman’s March – che vede McElwee molto e ragionevolmente scettico –, diventa per per McElwee l’occasione per riflettere sulle concessioni che non ha mai fatto nei confronti del cinema commerciale, incapace di essere altro da se stesso.
Remake è anche un film sulla memoria, sull’impossibilità di correggere il passato. Charleen Swansea, vecchia amica di Ross, insegnante di poesia, amica di Ezra Pound e già mattatrice di Sherman’s March, soffre ora di demenza e la sua memoria sta svanendo. Di fronte all’obiettivo dell’amico si ritrova a ricordare con difficoltà. Guarda la macchina da presa e confessa di averla sempre detestata: invadente, ingombrante, mostruosa. Da quell’oggetto non può venir fuori nulla di buono, dice. Al cinema Ross McElwee ha sacrificato tanto, vi si è dedicato con una abnegazione assoluta. Ed è solo attraverso questo medium ambiguo che McElwee può cercare di elaborare il dolore e l’amore sconfinato che lo lega a suo figlio.
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