Storia dell'allattamento e delle sue controversie - Lucy sulla cultura
articolo

Benedetta Fallucchi

Storia dell’allattamento e delle sue controversie

Il latte materno simboleggia molto più di ciò che è. Nel corso della storia umana si è ammantato di significati diversi, che ancora oggi condizionano la vita delle donne.

Candido, niveo, distillato di purezza. È sufficiente pronunciare latte materno per far sciogliere l’immaginario nei molteplici rivoli che compongono l’archetipo: il latte è nutrimento primo ed essenziale, lo ritroviamo in moltissimi e variegati miti in quanto nettare di vita, liquido dai poteri magici; è oggetto materiale ma anche simbolico; è vettore di una trasformazione che desessualizza il corpo femminile mentre lo sottopone a un obbligo di cura costante: dunque è elemento di accudimento ma anche di costrizione, intorno a esso si combattono guerre culturali e commerciali, ci si scontra sull’idea di donna e madre (termini, talvolta, ancora inscindibili). 

Il latte, sostanza interamente generata dal corpo femminile e in grado di sostentare un bambino per diverso tempo dopo la nascita, ha da sempre suscitato curiosità e ammirazione, ammantandosi di caratteri divini. A partire dalle varie incarnazioni della Grande Madre: un idolo benevolo dai marcati tratti femminili che oggi sarebbe oggetto di pesante body shaming – fianchi larghi, glutei abbondanti, seno opulento e cadente – e che, come ricordava Jung, porta con sé significati ambivalenti poiché simboleggia la vita, ma anche la morte, il processo di rinascita, la trasformazione. Il culto della Grande Madre era presente già nelle società preistoriche ed è sopravvissuto nel tempo, trasmutandosi. Per gli Egizi l’allattamento al seno era sacro, e si trovano frequenti rappresentazioni di Horus allattato dalla madre Iside. Per i Greci, la Via Lattea nasce da uno schizzo di latte fuoriuscito dal seno di Era che, con il suo atto amorevole, rende immortale il figlio illegittimo di Zeus, Ercole. Per non dare tutto il merito alla donna, Aristotele elaborò una teoria che vedeva il latte materno come il risultato della “cottura” delle secrezioni ematiche femminili grazie al fondamentale intervento della fecondazione maschile. Roma ha inizio con Romolo e Remo allattati da una lupa. Anche il Cristianesimo celebra la diade madre-neonato che sugge il latte: la Virgo lactans è un topos onnipresente nell’arte sacra almeno dal VI secolo d.C. fino al 1400, periodo di una vera e propria fioritura, e oltre: sarà poi il Concilio di Trento a decretarne il tramonto perché una simile raffigurazione cominciò a essere ritenuta sconcia e sconveniente.  

Secoli dopo, Papa Francesco sana la ferita di una Chiesa che guarda all’allattamento solo con occhio sessuofobico, riannodando il legame spezzato tra maternità e sacro: Bergoglio più volte si è soffermato sulla naturale positività del gesto di allattare, e nel gennaio del 2020, durante l’omelia per il battesimo presso la Basilica di San Pietro, ha rivolto alle madri presenti l’invito a prendersi cura del bambino persino lì, in quello spazio: “Se il tuo bambino piange e si lamenta, forse è perché ha troppo caldo: togliete qualcosa; o perché ha fame: allattalo, qui, sì, sempre in pace”. 

L’attitudine censoria non è stata una prerogativa esclusiva della religione cattolica dal momento che l’allattamento si pone in relazione dialettica con un tema più ampio: quello della percezione e rappresentazione del corpo delle donne. Non sorprende dunque che, quando nel 1758 lo scienziato Linneo propose di passare al termine mammalia per raggruppare alcune specie tra cui quella umana, la reazione fu di sdegno per via dell’allusione vagamente erotica alle mammelle con cui vengono allattati i piccoli – stessa sorte che toccò poi anche alla sua classificazione delle piante in base agli organi di riproduzione. 

Lo scorso anno si è tenuta a Venezia la mostraBreast“: questo il titolo, senza arzigogoli e perifrasi, per una rassegna di opere che hanno a oggetto il seno, porzione anatomica controversa, all’intersezione tra emancipazione e retorica sulla maternità (vengono subito in mente le femministe che bruciano i reggiseni, le performer a petto nudo, e, di recente, l’esibizione in topless della cantante Rebecca Baby, proprio per protesta contro alcuni uomini che l’avevano palpeggiata mentre si avvicinava al palco). Nell’allestimento, racconta la curatrice Carolina Pasti, si trova un riferimento ai maestri rinascimentali e all’iconografia della Virgo lactans: nella prima stanza è infatti in mostra la Madonna di Bernardino del Signoraccio di fine Quattrocento, anche se il gesto sacrale dell’allattamento viene messo in un confronto/contrasto ironico con un’altra opera presente nella stessa sala, la fotografia Untitled #205 di Cindy Sherman. Qui si vede una figura femminile che, pur ricalcando un’altra celebre immagine muliebre (quella della Fornarina di Raffaello), rappresenta un’apoteosi di grottesco e di svelamento dell’artificio: sul busto è applicata una protesi che riproduce un seno assai più prosperoso dell’originale e un ventre prominente per via della gravidanza. Il gioco ribalta l’immagine composta della Fornarina, inducendo chi guarda a ragionare sulla stratificazione di significati del corpo femminile. Per un certo periodo, spiega Pasti, il seno scompare dalla storia dell’arte per tornare con la modernità e con modalità più provocatorie; in Breast troviamo opere di Marcel Duchamp, Sherrie Levine, Louise Bourgeois, Masami Teraoka, Robert Mapplethorpe. Per parlare di allattamento, e in particolare di allattamento in pubblico, Pasti ha scelto di inserire la fotografia per la campagna Benetton del 1989 scattata da Oliviero Toscani in cui si vede una donna di colore che allatta un bambino bianco: “Mi interessava denunciare il persistere di una sorta di tabù rispetto a questo atto, che comunque non è sempre ben visto anche nelle società occidentali, perché magari c’è sì più provocazione oggi, ma rimane sempre un pudore, una resistenza, a mostrare il seno”. 

Vittorio Lingiardi nel suo Corpo, umano dedica un capitolo al seno e, oltre a enumerare anche lui i molti esempi che l’arte ci offre, parla della “nostalgia del luogo insondabile dove materno e sensuale si confondono”. Sulla scorta del grande peso attribuito in psicoanalisi alla relazione del bambino con il latte, Lingiardi ci ammonisce inoltre a non diventare dei fanatici dell’allattamento al seno perché “la nostra relazione con chi ci accudisce è molto più ampia di un seno”. 

“Candido, niveo, distillato di purezza. È sufficiente pronunciare latte materno per far sciogliere l’immaginario nei molteplici rivoli che compongono l’archetipo”.

Il rapido accenno a un’“ortodossia dell’allattamento” tocca un tema delicato e ancora suscettibile di dibattiti, a dimostrazione del fatto che parliamo di una pratica non solo biologica ma anche culturalmente connotata. Lo sanno bene le neo-madri alle prese con i primi giorni di vita di un bambino: loro malgrado, ricevono innumerevoli prescrizioni, fornite con toni perentori, e talvolta in contraddizione tra loro. Il sapere popolare, come la credenza secondo cui bere birra stimola la produzione di latte o quella che vede nel broccolo un potenziale nemico del neonato perché indurrebbe le coliche, si incontra e spesso si scontra con le indicazioni del personale medico e dei pediatri. Ciò che oggi nelle società occidentali diamo per certo non lo è sempre stato, né lo è altrove, dove vigono altre modalità legate a diversi sistemi religiosi, diverse condizioni socio-economiche delle donne, diverse tradizioni. Tutto questo, associato ai progressi della scienza e della tecnologia che offrono alternative al latte materno o dispositivi sempre più sofisticati per estrarre il latte, non può che ingenerare confusione, incertezza, talvolta veri e propri conflitti culturali.

Annamaria Fantauzzi è docente di Antropologia Medica e culturale presso l’Università di Torino e presidente della onlus Prati-Care che si occupa anche, a livello internazionale, di ethnonurisng, cioè sostegno a bambini e madri in Senegal, Gambia e Kenya: grazie ai suoi studi e all’attività in prima persona può fornire qualche esempio di quanto sia vario il panorama dell’allattamento e la relazione madre-prole, appena uno si affacci fuori dal proprio contesto. 

L’Islam, spiega Fantauzzi, attribuisce un forte valore al latte materno: nel Corano si raccomanda alle madri di allattare i propri figli per due anni, si prescrive la riservatezza e la separazione dagli uomini, e, poiché essere allattati è un diritto del bambino, è considerato ammissibile, se una madre non ha latte a sufficienza, affidare il proprio figlio a un’altra donna. Questa regola porta con sé un aspetto peculiare dell’Islam, la cosiddetta “parentela del latte”, ovvero il legame che unisce bambini non consanguinei ma allattati dalla stessa donna: questi bambini non potranno sposarsi tra loro una volta cresciuti per non incappare nel tabù dell’incesto. È evidente il risvolto problematico di questa limitazione: le donne maghrebine, per il timore che il latte possa essere commercializzato e per il conseguente rischio di violare la parentela di latte in assenza della “tracciabilità”, sono infatti restie a contribuire alle Banche del Latte (i punti di raccolta di latte umano che viene distribuito ai piccoli pazienti che ne abbiano bisogno). 

Fantauzzi conosce molto bene alcune realtà francofone dell’Africa Subsahariana, che visita almeno una volta al mese. In Senegal, spiega, c’è una grande differenza tra città e campagna: “A Dakar, dove lavoro presso un centro universitario per infermieri e ostetriche, il focus di tutto è l’allattamento al seno – e ci sono idee molto precise sul latte materno, sul fatto che solo il seno della madre renda robusti i figli e buoni come individui – ma c’è una discreta apertura a un approccio medicalizzato.  Altrove, per esempio a Casamance, che è il cuore della foresta del Senegal, l’obbedienza alla tradizione è ferrea: il latte deve inderogabilmente venire dalla madre. Lì, in tutti questi anni non mi è capitato neppure una volta di vedere un biberon e neppure un ciuccio! La madre deve essere sempre disponibile, in ogni momento e in ogni luogo, e un bambino arriva a essere allattato fino ai 2 anni, due anni e mezzo”. Nell’Africa Subsahariana la cura dei figli passa esclusivamente per la figura materna, supportata anche dalla cerchia familiare. 

Molte le credenze legate al latte, riguardo al colore, le sue caratteristiche. In alcune comunità africane, secondo una ricerca del 2024, si guarda con diffidenza al colostro, considerato impuro e potenzialmente dannoso per il neonato, e dunque gettato via e sostituito con liquidi alternativi al latte, come miele, acqua calda, infusi di erbe. Questo vale anche per le donne indiane. Altre credenze riguardano la madre: alcuni ritengono che la donna con le mestruazioni non dovrebbe allattare in modo esclusivo, altri che l’eventuale infedeltà durante l’allattamento sia dannosa per il nutrimento del piccolo, oppure che l’allattamento non garantisca sufficiente idratazione; esiste poi il timore che il malocchio colpisca la donna che allatta in un luogo pubblico o il suo bambino… 

Diversi studi antropologici, inoltre, hanno rimarcato gli effetti negativi dell’intreccio di capitalismo, colonialismo e medicalizzazione, che ha causato “la profonda disgregazione e il declino dell’allattamento al seno a metà del XX secolo e continua a influenzare gli sforzi in corso per ripristinarlo e facilitarlo”. Per Fantauzzi, tuttavia, almeno per le realtà africane che conosce, non c’è colonialismo che tenga: “Lì la tradizione vince sempre: il latte materno regna incontrastato e le usanze continuano a tramandarsi – e ciò vale anche pratiche crudeli come la mutilazione genitale, nonostante l’approvazione di leggi che la vietano”. 

È interessante menzionare il caso della Cina, dove, contrariamente al trend generale e a dispetto dello scandalo del latte artificiale contaminato alla melamina scoppiato nel 2008, l’allattamento esclusivo al seno rimane ancora relativamente raro. L’aggressività delle aziende produttrici di latte artificiale, l’industrializzazione e il mutamento degli stili di vita hanno indotto le donne a ricorrere in modo sempre più massiccio al latte artificiale. Il governo cinese si è sforzato per promuovere un ritorno all’allattamento, ma secondo un recente report Unicef il tasso di bambini sotto i sei mesi allattati al seno è solo del 29.2%. 

Anche nelle società occidentali tempi e modi dell’allattamento si sono trasformati nel corso dei secoli. Ad esempio c’è una figura che per lungo tempo ha rivestito un ruolo socialmente rilevante per poi scomparire: la balia. Se ne trovano testimonianze nell’antica Babilonia, più tardi anche presso i Greci e i Romani, così come nella Bibbia. Veniva impiegata o per necessità (alla morte della madre naturale, nel caso di bambini abbandonati), o, soprattutto durante il Rinascimento, per desiderio delle donne delle classi più agiate, le quali si sottraevano a una pratica che era ritenuta antiquata e che interferiva negativamente con la loro posizione sociale e i doveri a essa connessi (non da ultima, c’era l’opinione diffusa che l’allattamento fosse incompatibile con la vita sessuale delle donne e che l’eventuale attività sessuale della madre potesse persino mettere a rischio la salute del bambino). La professione di balia ha rappresentato una possibilità lavorativa per i ceti più umili; tuttavia, non mancavano le critiche alle madri che si rifiutavano di nutrire i propri figli in prima persona e, ad eccezione delle situazioni di privilegio in cui le balie risiedevano presso le famiglie benestanti, la mortalità infantile dei neonati era molto elevata. 

Nel XVIII secolo il filosofo Jean-Jacques Rousseau si mostrò particolarmente severo nell’Emilio, la sua opera sull’educazione. Definì le balie “donne mercenarie” e sostenne la necessità che le madri tornassero ad accudire i propri pargoli per ristabilire la moralità e il benessere della vita domestica, nonché per ridurre il tasso di mortalità. 

Tra il XIX e il XX secolo la figura della balia è andata via via perdendo importanza, in qualche modo sostituita dalle più “igieniche” banche del latte e dal latte artificiale. 

Il latte artificiale costituisce un altro fondamentale capitolo della storia dell’allattamento umano. A differenza di quanto verrebbe spontaneo pensare, la ricerca scientifica e tecnologica per brevettare la giusta bevanda alternativa al latte umano non si colloca nel secondo dopoguerra bensì sul finire del XIX secolo, come ha raccontato al «Time» la storica Jacqueline H. Wolf. In verità, il latte animale e altri composti venivano somministrati ai neonati già da molto tempo, e con esiti spesso nefasti; è però a fine Ottocento che, partendo dal presupposto che il latte umano fosse preferibile a quello proveniente dagli animali, si moltiplicarono gli sforzi per ottenere dei preparati ritenuti soddisfacenti. Si moltiplicarono dunque i prodotti e con essi le campagne per pubblicizzarli. Secondo Wolf, si tratta di un momento cruciale, di svolta: si comincia a ragionare su una diversa gestione del tempo che liberi le donne dalla tirannia dei ritmi dei neonati, difficilmente conciliabili con il mondo industrializzato. Ma questo proposito, per alcuni aspetti meritorio, innesca una sorta di crisi nella produzione del latte materno perché la secrezione di latte è attivata dalla suzione del bambino – non a caso si parla di “allattamento a richiesta” – e mal si adatta a una “routine” imposta.  Tutto ciò ha più a che fare con il processo di emancipazione femminile di quanto non possa apparire a un primo sguardo. Il latte artificiale, o quello delle banche del latte, rappresenta la possibilità che un neonato possa essere accudito da chiunque, mentre, con i metodi “tradizionali”, la donna, che sia la madre naturale oppure no, è la sola figura dedicata alla nutrizione al seno del neonato. 

Storia dell’allattamento e delle sue controversie -

A partire dai primi anni Duemila, l’OMS ha raccomandato l’allattamento esclusivo al seno, almeno per i primi sei mesi di vita del neonato. Le conclusioni dell’Oms relative alla durata ottimale dell’allattamento sono divenute progressivamente un caposaldo per i sistemi sanitari statali, anche se l’applicazione varia da Paese a Paese. Negli Stati Uniti, ad esempio, il progressivo abbandono del formula milk in favore delle raccomandazioni Oms ha generato, a partire dagli anni Novanta, un boom dei tiralatte, al punto che, raccontava un articolo del «New Yorker» di qualche anno fa, la politica Sarah Palin descriveva se stessa nell’atto continuo di passare tra il blackberry e il tiralatte. Il tiralatte costituisce una maniera tutto sommato comoda per aderire al mantra “breast is best” ma è una soluzione che elude almeno altre due questioni, ovvero il quasi inesistente congedo di maternità concesso alle lavoratrici americane, e il tema del legame madre-figlio che si crea nell’atto complessivo dell’allattamento, non solo attraverso il latte in sé. 

Questo nuovo “canone” porta con sé nuove problematiche sociali. Nei paesi a reddito più elevato si rivela infatti la paradossale inversione di quanto accadeva in passato con il ricorso alla balia: se allora l’allattamento al seno era praticato maggiormente dalle donne di ceti sociali medio-bassi, oggi si verifica l’opposto: le donne con status socioeconomico più elevato e livello di istruzione più alto sono più propense ad allattare rispetto alle donne che vivono in contesti disagiati e con un livello di istruzione più basso.  Anche in Italia i tassi di allattamento esclusivo al seno vedono uno scarto considerevole tra Nord e Sud, e uno sguardo più attento mostra che, persino nelle situazioni di maggiore benessere socioeconomico, non mancano le criticità. Lo racconta Martina Riina, antropologa e pedagogista, in una ricerca etnografica che mette a confronto proprio due realtà italiane molto diverse. Da un lato un contesto di marginalità: Palermo, Borgo Vecchio, e le giovani madri (tra i 14 e i 20 anni) che Riina conosce in virtù del lavoro con un’associazione; dall’altro, una città come Novara, che pure frequenta e conosce per ragioni professionali. Se le ragazze di Palermo, che sono state bambine non allattate, non prendono proprio in considerazione l’idea di allattare i figli – fatto che per di più le espone ai giudizi negativi del personale medico – le madri novaresi, per quanto più desiderose di aderire ai dettami dell’Oms e più “avvantaggiate” anche in termini di welfare, difficilmente riescono ad arrivare ai fatidici sei mesi di allattamento. A dimostrazione, dice Riina, che “bisogna guardare più alle società in cui viviamo che non a cosa fanno le madri”. Emerge dalla ricerca infatti che l’imperativo dell’allattamento al seno – i cui benefici fisiologici non sono in discussione – rischia di essere l’ennesimo comandamento da seguire per molte donne, pena l’inadeguatezza. Come già ricordava Lingiardi, bisognerebbe evitare di scaricare, solo sulla madre, e solo su questo atto, l’intero significato dell’accudimento. Inoltre, sarebbe bene tenere conto delle esigenze individuali in base ai contesti di riferimento, nonché dei servizi offerti davvero a sostegno delle neo-madri. 

Perché anche dietro alla retorica odierna della naturalità dell’allattamento al seno può annidarsi l’insidioso discorso su cosa è naturale e cosa non lo è: e, dunque, in definitiva, l’ulteriore censura per le donne che deviano da tale discorso. 

Benedetta Fallucchi

Benedetta Fallucchi è giornalista, scrittrice e lavora nella sede di corrispondenza romana del maggiore tra i quotidiani giapponesi. Il suo primo libro è L’oro è giallo (Hacca, 2023).

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