Su "Joker: Folie à Deux" hanno tutti ragione, gli entusiasti e i detrattori - Lucy
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Matteo De Giuli

Su “Joker: Folie à Deux” hanno tutti ragione, gli entusiasti e i detrattori

05 Settembre 2024

Il nuovo film di Todd Phillips sa essere allo stesso tempo coraggioso, ripetitivo, originale e autoreferenziale.

Una cosa che detesto quando vado al cinema in compagnia è ritrovarmi con qualcuno che, finito il film, freme dalla voglia di commentare. Ti è piaciuto? Bellissimo. Che delusione. Preferivo l’esordio. Ma io voglio stare zitto, voglio ripensarci, capire meglio come sedimenta, voglio cambiare idea il giorno dopo. Venezia, ovviamente, da questo punto di vista è un incubo.

Sarà colpa dell’ebbrezza della visione in anteprima, o il fatto che ti ritrovi circondato di professionisti dell’industria, di appassionati, di critici esperti e di critici amatoriali, in ogni caso di conoscitori, molti dei quali devono poi andare subito a scrivere del film, registrare un reel, intervistare qualcuno o venir intervistati; sono lì per produrre opinioni, insomma, e così anche tu. Non si scappa dalla macchina.

La prima proiezione di Joker: Folie à Deux, presentato in concorso, è strapiena, arrivo in ritardo, prendo un posto scomodo, laterale, sono sotto lo schermo. Ho appena finito di vedere Diva Futura, il biopic su Riccardo Schicchi, atipico magnate del porno italiano, un film da cui mi aspettavo molto e che però mi è parso didascalico e compilativo, troppo lungo, scontato. Si spengono le luci, partono gli annunci antipirateria, due ragazzi si siedono all’ultimo secondo accanto a me, li sento bisbigliare “Diva Futura miglior film italiano della Mostra fin qui”. Strabuzzo gli occhi. Ma come migliore film italiano? Cosa dicono? Come si può anche solo pensarlo? O forse… Hanno ragione loro? Sono io che non l’ho capito? Ero troppo stanco? Era troppo presto, avevo troppo sonno? Devo rivedermi Diva Futura oggi pomeriggio? Per fortuna inizia Folie à Deux

“Folie à Deux è una variazione sul tema, un film autoreferenziale, un elaboratissimo omaggio al primo, la versione musicarello di quello”.

Due ore dopo, quando si riaccendono le luci in sala, sul film di Todd Phillips non ho dubbi: bocciato. L’idea alla base di Folie à Deux è incoerente e sublime, e cioè partire da un film psicologico sulla natura della violenza nella nostra società, come era stato il primo Joker, e provare a cambiare completamente sapore, metterci dentro Lady Gaga e girare una specie di musical con inserti cantati – tra crooner e Broadway: Frank Sinatra, Sammy Davis Jr, Tony Bennett – che il più delle volte rimangono esterni al racconto, confinati in scene sognate o immaginate dai protagonisti del film.

Un’idea stravagante e ambiziosa, forse troppo, e dopo la proiezione penso che l’azzardo non abbia funzionato. Più che un cambiamento di genere, Folie à Deux si riduce piuttosto a una mera variazione sul tema, e quindi a un film autoreferenziale, un elaboratissimo omaggio al primo, la versione musicarello di quello – con una trama che, però, questa volta è esile come una promessa non mantenuta.

Il Joker del 2019 vinse il Leone d’oro, due Oscar, due Golden Globe e due BAFTA, un bottino inarrivabile per gran parte dei cinecomics, e infatti Joker non era un cinecomics, come è stato chiarito dopo lunghissime discussioni, ma un’opera insolita, un thriller sociale che prendeva sì spunto dall’universo dei supereroi ma che andava poi in una direzione completamente diversa. Joker, forse è ozioso ribadirlo, è un personaggio della DC Comics, l’arci-nemico di Batman, ma Phillips, invece di fare un film coerente con i personaggi e la storia del fumetto DC, aveva scelto di prendere in prestito solo pochi elementi di quell’universo per farne tutt’altro. Chi si aspettava di assistere alla origin story di un super-cattivo si ritrovava così a vedere un film sulla violenza e l’emarginazione che faceva esplicito omaggio ai lavori di Scorsese, Taxi Driver e Re per una notte su tutti, di cui rielaborava le atmosfere e l’animo dei protagonisti, ritagliando persino un cameo per Robert De Niro, protagonista di entrambi.

Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) è un uomo emarginato, depresso, vessato sul lavoro. Affetto da sindrome pseudobulbare, in situazioni di stress esplode in risate sgraziate e incontenibili. Vive a Gotham City con la madre, vorrebbe fare il comico ma non ha talento. Una notte subisce un’aggressione per strada, e quello è il punto di non ritorno: uccide cinque persone.

Da qui parte Folie à Deux. Arthur ora è rinchiuso in un istituto di correzione, ridotto in uno stato fisico pietoso, emaciato e medicato fino alla sottomissione grazie a un quotidiano cocktail di psicofarmaci. La questione da sciogliere è se la sua salute mentale gli permetta di affrontare un processo, e che tipo di accuse possano venirgli rivolte: era capace di intendere e di volere durante gli omicidi? È uno psicotico, ha un disturbo della personalità, o è solo un feroce criminale, e tutto il resto è una elaborata recita? In altre parole, Arthur può rispondere delle azioni del Joker, frutto violento della sua mente scissa, o va in qualche modo perdonato? In un corso di musicoterapia a cui gli è concesso di partecipare per buona condotta, in attesa del processo, Arthur incontra Harleen Quinzel (Lady Gaga), un’altra paziente psichiatrica. Si innamorano istantaneamente. Lei lo spinge a smettere di prendere le pillole e lo convince a riabbracciare il proprio lato oscuro, rimasto troppo a lungo sedato dopo l’arresto. Iniziano a sognare un futuro criminale di coppia.

Su “Joker: Folie à Deux” hanno tutti ragione, gli entusiasti e i detrattori -

Il primo film era stato accusato di essere una celebrazione incel: in un’epoca in cui assistiamo sempre più spesso a violenze perpetrata da uomini bianchi emarginati e soli, era davvero il caso di fare un film che sembrava invitare all’empatia nei confronti di un uomo bianco emarginato e solo che uccide cinque persone? Folie à Deux si presta molto di meno a questo tipo di dubbi. La trama è ridotta all’essenziale. Perché c’è meno tempo, prima di tutto: ogni dieci minuti, qualcuno deve mettersi a cantare Stevie Wonder o i Bee Gees. E bisogna così accettare le incongruenze e le grossolanità, le piccole falle logiche della narrazione. In generale, poi, Phillips pare questa volta meno interessato a raccontare l’angoscia sociale, le radici del male. Anche le questioni di salute mentale – e il conflitto tra approccio repressivo e terapeutico – vengono articolate in maniera quantomeno approssimativa – la malattia mentale di Harleen Quinzel, per esempio, è talmente acciarpata da sembrare accessoria. Le ambientazioni sono tediose poi, perché, come fossimo nella demo di un videogioco, sono praticamente solo due: l’istituto di correzione e l’aula del tribunale. L’effetto è quello di un film claustrofobico e ripetitivo.

Usciti dalla sala, dopo due ore disorientanti, mentre io mi impegnavo a evitare qualsiasi forma di interazione sociale, Irene Moro, la nostra producer, si è avvicinata a Stefano Disegni (fumettista) e Michele Anselmi (critico cinematografico), che erano lì accanto a noi, per chieder loro un breve video da pubblicare sul canale Instagram di Lucy (come detto, non si scappa). A Disegni il film non era piaciuto nemmeno un po’, ha trovato insopportabili la cerimoniosità delle canzoni e ha trovato il personaggio di Joker rielaborato qui in una chiave asettica, rassicurante, meno interessante e meno profonda del primo. Meno pericolosa, anche. Ho pensato che avesse ragione. Ad Anselmi il film era piaciuto, è interessante e bello, ci ha detto, per il modo in cui usa la musica in una maniera nuova, diversa dal solito, per il gioco di citazioni che crea con i musical canonici, stravolgendoli. 

E ho pensato: è vero, ha ragione, anche lui. In effetti le parti cantate sono spesso sporche, abbozzate, interrotte a metà, e appaiono poi nei momenti pensanti e sognanti, negli incubi dei protagonisti. È un modo irrituale e sostanzialmente inedito di affrontare una storia del genere, nonché una trovata brillante per far detonare il personaggio di Joker. I numeri musicali di Folie à Deux non fanno mai avanzare la trama. Sono un racconto interiore, segnano il confine tra l’uomo e il mostro, aiutano cioè il primo a esprimersi attraverso il secondo. Quando parte la musica vuol dire che siamo entrati nella mente omicida di Joker, che però non può uccidere, perché è recluso, e allora si sfoga cantando. E questa discrasia – canzoni d’amore uguale slancio libertario uguale sanguinosa psicosi – lascia addosso un disagio difficile da scrollarsi.

E così, forse anche in omaggio alla scissione mentale del protagonista, ho sentito lo spettro del relativismo attraversarmi di nuovo, e mi sono scisso anche io. 

Folie à Deux è un film coraggioso. Bello, anche. Ripartiamo dalle cose ovvie: Joaquin Phoenix. Ha una presenza sullo schermo catalizzante e commovente, potente e mai farsesca. Smunto, di una magrezza spigolosa e asimmetrica, forse è ancora più bravo qui che nel primo, perché dà un seguito a quella interpretazione che, lo si voglia o no, è diventata iconica, e riesce però a non imitarsi mai – aggiunge anzi nuove sfumature. Poi: Lady Gaga. È vero, il suo, di personaggio, ha pochissimo screen time al di fuori delle parti cantate, e quindi quasi nessuna possibilità di sviluppo, nel racconto. Ma lei riesce lo stesso, con pochissimo, a trasformarlo in una presenza maliziosa e manipolatrice, candidamente disturbante. 

“‘Folie à Deux’ è un film coraggioso. Joaquin Phoenix ha una presenza sullo schermo catalizzante e commovente, potente e mai farsesca”.

Dopo aver scontentato i fan di Batman con un film che con Batman non aveva praticamente nulla a che fare, Phillips ha deciso di voler mettere alla prova anche i fan del suo Joker, che nel frattempo è diventato, a sua volta, un oggetto di culto. Folie à Deux è un film anomalo, pieno di difetti. Ma di sicuro Phillips si è divertito a girarlo. Anche questa volta non ha abbandonato Scorsese: a pensarci bene, sebbene raccontino storie radicalmente diverse, New York, New York, del ’77, era un musical sui generis, un anti-musical come questo, altrettanto malinconico, altrettanto nostalgico (New York, New York è ambientato negli anni Quaranta, questo negli anni Ottanta), altrettanto affettuoso nel citare e storpiare i propri riferimenti di Hollywood e Broadway e ugualmente carico di pessimismo.  

Il film si apre in maniera inaspettata con un bellissimo corto animato in stile Looney Tunes firmato da Sylvain Chomet (Appuntamento a Belleville, L’illusionista): Joker viene mostrato come l’ombra di Peter Pan di Arthur, dispettosa e violenta, che si stacca da lui e crea casini in città. È un segnale: da lì in poi, bisogna essere pronti a tutto.

Matteo De Giuli

Matteo De Giuli è caporedattore di Lucy. Scrittore e autore, ha lavorato per Rai3, Radio3, Il Tascabile Treccani. Ha scritto “Buoni a nulla” (Quanti, Einaudi, 2022) e, con Nicolò Porcelluzzi, “MEDUSA” (Not, NERO editions, 2021).

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