Sulla storia delle chat delle influencer hanno tutti torto - Lucy sulla cultura
articolo

Irene Graziosi

Sulla storia delle chat delle influencer hanno tutti torto

01 Novembre 2025

Chi usa metodi violenti contro gli altri, chi pubblica le chat di privati cittadini, chi commenta godendo del fallimento altrui, chi ha eletto a paladini della giustizia singoli individui pensandoli senza macchia.

Ieri, venerdì 31 ottobre, il «Fatto Quotidiano» ha pubblicato un articolo dal titolo “Le sorelle di chat: gli insulti-influencer a Murgia, Sala & Co.”

Nel pezzo sono riportati alcuni stralci di chat di gruppo (e non) di persone piuttosto popolari sui social, estrapolate dai telefoni di due di queste ultime, accusate di stalking e diffamazione, ancora in attesa di eventuale processo. Sono frasi molto violente contro giornalisti e giornaliste, figure istituzionali, scrittrici e intellettuali, gruppi etnici e religiosi. Ciò che stride, al di là del contenuto delle chat, è che da anni le persone coinvolte si spendono sui propri social a favore di grandi battaglie: femminismo, antirazzismo, anticolonialismo e via dicendo; al punto da identificarsi con queste battaglie agli occhi del pubblico e dell’industria culturale e mediatica.

Dopo l’uscita del pezzo, i loro profili si sono riempiti, ora dopo ora, dei commenti degli utenti. Li ho letti meccanicamente, sovrappensiero, e la maggior parte è una variazione sul tema del: Ma come, dicevate di essere così e invece siete colà. Eppure, oltre al prevedibile accanimento ammantato di stupore (più o meno sincero, in molti casi retorico) nei loro confronti, si intravede soprattutto qualcosa d’altro: la conferma di un sospetto più della sorpresa di una scoperta. Chi credeva davvero che queste persone incarnassero con immacolata virtù i valori che andavano professando? Saremo mica così scemi da pensare che le persone siano in buona fede nel 2025. 

Alcuni naturalmente traggono da questa storia una certa soddisfazione, un non troppo sottile godimento per il fallimento altrui. Era da tanto che si aspettava questo momento, che si era qui a tamburellare le dita sulla cassa dell’orologio. Altri ostentano un’indignazione che suona un poco affettata e commentano su instagram sotto i post di attiviste instagram che è inconcepibile che si sia è potuto gettare nel fango movimenti e valori così alti e nobili divulgati su instagram.

Tutte le shitstorm si assomigliano tra loro, lo sappiamo dal 2013, da Justin Sacco: i commentatori si dividono in macro categorie che alla fine danno vita alla stessa recita che prescinde dalla pietra dello scandalo. 

Leggevo, leggevo, leggevo e non c’era nulla che mi stupisse davvero. Poi a un tratto mi sono soffermata su un commento un po’ diverso dagli altri. Non spargeva odio, non insultava: si chiedeva sinceramente – o almeno così sembrava – come mai i partecipanti alla chat fossero stati così poco rispettosi e se non credevano a ciò che dicevano. L’utente non si raccapezzava. È stato curioso, perché improvvisamente questo commento così ingenuo mi è sembrata l’unica cosa sensata e onesta della giornata. Perché le persone non credono più in quello che dicono? Quando è successa questa cosa? È successa tutta insieme o un poco alla volta? E quand’è che abbiamo smesso di pensare che fosse un’assurdità, una follia, non essere coerenti con le proprie convinzioni?

Vorrà pur dire qualcosa il fatto che abbiamo eletto a paladine della giustizia persone di cui sospettavamo, da qualche parte nel nostro animo, un’ambiguità di fondo. Forse non ci abbiamo creduto nemmeno noi alla bontà ostentata di questo femminismo così retto e privo di dubbi; non era possibile che in noi, persone normali e piene di difetti, albergasse la stessa inscalfibile rettitudine che quel femminismo intersezionale che abbraccia i palestinesi, i neri, le donne, gli animali, i poveri e i disabili voleva imporci. Forse i valori si costruiscono nella pratica e nella possibilità dell’errore, quando di fronte a una scelta difficile e rischiosa ci è richiesto di definire chi siamo; ma quando ci capita di farlo, ormai? Di metterci in gioco fino a quel punto? Come scoprire se siamo davvero coraggiosi, se siamo leali, se siamo disposti a sacrificare qualcosa di caro per un ideale se non mettiamo mai alla prova il valore che quest’ultimo ha per noi? E uno dice Bè menomale che la nostra tempra morale  non viene testata così drammaticamente, e però è anche vero che in questo modo si finisce persuasi di credere a queste parole molto belle, al femminismo, alla libertà, alla giustizia, solo in senso astratto, come se in fondo la nostra topografia morale non fosse altro che il tabellone di gioco di ruolo. 

Un tempo però, nemmeno così lontano, ci si credeva davvero nelle cose che si professavano, o almeno così mi sembra. Per lavoro sto leggendo alcuni scritti di Leone Ginzburg, morto a Regina Coeli nel 1944 per mano dei nazisti. Studiandolo mi hanno colpita molte cose, un’infinità di cose, impossibile elencarle tutte e comunque divagherei. Mi limito a dire che oramai leggere le biografie di persone meritevoli del ‘900 equivale a leggere la mitologia greca o le vite dei santi. Mi sembra che fossero persone senza paura, o che l’avessero superata, perché è solo al di là della paura che si colloca il coraggio.  A un certo punto, in Lessico famigliare, la famiglia Levi si lamenta che nessun componente venga più arrestato per essere antifascista! Ai miei occhi, le gesta dei Ginzburg, dei Levi, dei Foa e via dicendo sono eterne, si ripetono all’infinito in un istante cristallizzato ed eterno come il duello tra Ettore e Achille. 

Però non è così, o meglio, non solo. I Ginzburg, i Levi, i Foa e via dicendo sono esistiti meno cent’anni fa, alcuni di loro sono scomparsi da relativamente poco, non sono eroi greci o semidei, sono persone che indossavano occhiali da vista e fumavano troppe sigarette, i cui discendenti sono ancora qui tra noi, fatti dei nostri stessi atomi. Mi sembra a volte il ‘900 un fiume, che nel suo scorrere impetuoso ha prodotti danni enormi e benefici altrettanto enormi, che ci ha sommersi e portati festosamente alla deriva e di cui oggi rimane questo greto fangoso in cui ci si dibatte provando a convincerci l’un l’altro di nuotare in quella stessa acqua che è oramai scomparsa. Non so come ci si salva da tutto questo, dove si ricomincia, come. Forse con il falò di un enorme fantoccio che rappresenta tutti noi, come in quel bel film inquietante e allegro assieme, quello inglese, The Wicker Man, dove però non sacrifichiamo uno straniero venuto a turbare l’ordine del nostro piccolo mondo, ma noi stessi, che questo piccolo mondo lo abitiamo, in una gioiosa e purificante fiammata che crepita nella notte. 

Gobetti, un altro di questi grandi uomini, diceva: “L’uomo di libri e di scienza cercherà di tenere lontane le tenebre del nuovo medioevo continuando a lavorare come se fosse in un mondo civile”. Ma sono così rari questi uomini e nessuno gli presta quasi mai ascolto, dato che poi alla fine stiamo tutti qui nella nostra fanghiglia a commentare le chat private di gente innocente fino a prova contraria, e fingiamo tutti che sia normale, anzi, ringraziamo chi le ha divulgate, perché quelle lì se lo sono meritato, visto che succede a chi si comporta male? È semplice, si violano i tuoi diritti e tutti finalmente, ora che sei a terra, possono dire davvero quello che pensavano di te, da quando eri benvoluto e pubblicavi i libri con le case editrici un tempo prestigiose perché con le tue story etiche ci sollevavi dalla responsabilità di essere persone decenti. Bel coraggio che ci vuole. 

Irene Graziosi

Irene Graziosi è scrittrice. Il suo ultimo romanzo è Il profilo dell’altra (Edizioni E/O, 2022).

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