Giordano Meacci
Un omaggio assieme spensierato e dolente a David Lynch, la cui scomparsa, forse, non potrà mai essere definitiva: il suo lavoro, infatti, riporta alla mente momenti di bellezza assoluti ed eterni.
La stanza è quella di un albergo e l’albergo è il Samarkand Hotel; lo stesso in cui è morto Jimi Hendrix: ma noi tre non lo sappiamo. È l’estate del 1990, quindi l’ultima del decennio che ci ha visti attraversare la strada più o meno obbligata e spersa delle elementari delle medie e del liceo fino alle vette gemelle della maturità (Cataldo e io); e dei primi due esami universitari (Manfredi).
E così siamo momentaneamente divisi, per scelta distratta, in due camere d’albergo, a Londra, nell’agosto più incerto e però pieno di futuro delle nostre vite. Ora che mi guardo da Qui è come se, inavvertito ma presente, lo spettro inquietante della giovinezza fosse a mezz’aria, dietro le finestre di questa camera del Samarkand che avrebbe potuto pure essere (questo non lo sapremo mai) la stessa in cui il cavaliere elettrico di Little Wing e il riscrittore di All Along The Watchtower ha detto addio ai suoi ventisette anni, quale che sia stata la sua estrema fine, rendendosi conto, con i versi del poeta, degli anni a venire come uno spreco di fiato, o forse spaventàndosi, chissà ― quello che è più o meno certo è che in questo momento, quasi trentacinque anni fa, Cataldo e io siamo in camera, ognuno alle prese con la quotidianità dei bagagli in viaggio, la televisione accesa. Si affaccia Manfredi sulla soglia e entra: è un’ora dubbia e crepuscolare in cui forse non abbiamo ancora deciso dove andare (e ora mi dico che sembra un distico che trascrive approssimativamente le scalmàne sospese dei diciott’anni): e però ecco: all’improvviso, dalla televisione (piccola, sospesa anche lei su un trespolo di legno, ad avere la giusta immaginazione la si potrebbe vedere alzarsi e volare via attraverso la finestra aperta, uscire a cercare la notte in arrivo e guardare Londra dal cielo come un minuscolo, improbabile ufo che ìmiti un qualche peterpan dei robot, o, verosimilmente, degli elettrodomestici) ― ecco, all’improvviso, dalla televisione: le immagini scandite, la luce che martella e inchioda a sbalzi e a salti ogni inquadratura, come fossero varchi di luce che, all’improvviso, mi mostrano i paesaggi della mia privatissima infanzia fondendoli con le montagne, e le vette gemelle, del NordAmerica sognato; i boschi delle favole si trasformano in visi, le acque del fiume e la cascata e il lago sono lampi di luce che incorniciano la fotografia di una ragazza bionda e sorridente; poi un ristorante sulla strada, e gli alberi nella nebbia, come gli esseri umani fossero scomparsi lasciando solo una lontana, sperduta traccia di quello che erano stati o avrebbero potuto essere. E la musica― La musica mi costringe a capire che quello che stiamo vedendo è un’opera di qualcuno che conosco: e che àmo. Capisco dalla musica e da quell’alternarsi di frammenti che quello che la televisione inglese del Samarkand mi sta annunciando, mercuriale e fino a un attimo prima inadatta al volo, è la prossima messa in onda della serie Twin Peaks. Di David Lynch. L’autore di Velluto blu, di The Elephant Man e, di lì a poco, ma in quella sera di trentacinque anni fa lo sappiamo già anche se non c’è stato ancora detto, di Cuore selvaggio. Che uscirà tra pochi giorni negli Stati Uniti.
La musica di Angelo Badalamenti sembra un battito di cuore. Ma poi ti accorgi che è il rumore di una macchina che tiene in vita qualcuno in coma. Una macchina che ha capito che non è necessario limitarsi a un bip referenziale, ci si può permettere di dedicare una musica privata a chi è sospeso tra un universo e gli altri. E quando l’orchestra allarga e allaga la stanza, la musica arriva fino a me, fino a noi, trasformata dal lungo viaggio che ha dovuto fare. La stessa distanza delle prime stelle, dei Quasar più antichi e lovecraftiani, fino a Qui.
Yeats l’ha scritto nell’ottobre del 1916 per tutte e per tutti noi, “I have looked upon those brilliant creatures, / And now my heart is sore”. “Ho ammirato quelle creature splendenti / e ora è triste il mio cuore”, nell’italiano di Ariodante Marianni. E confonde i tempi, il passato s’affaccia sul presente e lo riscrive quanto lo riscrive il futuro in cui i cigni selvatici a Coole se ne andranno vìa. Ma: il momento perfetto in cui le creature splendenti l’hanno innamorato, incidendogli il cuore di luce, resterà per sempre lì, in quella scrittura magnifica, e preziosa, che assomiglia a tutt’i versi che portiamo con noi; a tutte le parole e le scene che sono parte di quello che siamo, o crediamo (come tutte e tutti) di essere. E la tristezza del cuore non è nostalgia – che è un errore della percezione, nel presente eterno che ci accade – è il ritratto di un’emozione precisa che ci ha avvolti in un preciso momento nel tempo. Del resto, sore, pieno com’è delle spine doloranti del suo significato (forse le pensa dolenti, in questa lingua in cui ne ridefiniamo il suono), è consapevole di avere dentro di sé l’anagramma rosso e luminoso di rose: dipende solo da come si guarda la musica che ci descrive.
“La musica di Angelo Badalamenti sembra un battito di cuore. Ma poi ti accorgi che è il rumore di una macchina che tiene in vita qualcuno in coma. Una macchina che ha capito che non è necessario limitarsi a un bip referenziale, ci si può permettere di dedicare una musica privata a chi è sospeso tra un universo e gli altri”.
E infatti ora la musica cade dal cielo blu-infinito (che è proprio una categoria cromatica in sé) fotografato da Frederick Elmes, è il coro iniziale che prepara la voce di Bobby Vinton, lei indossava velluto blu, più blu del velluto era la notte, e intanto lo sguardo di David Lynch scivola dall’alto verso il basso sul recinto accogliente e appuntito della staccionata bianca, il rosso frusciante e vellutato delle rose. E mi rendo conto, prima dell’arrivo del rosso del camion dei pompieri, del buonuomo salutante, che blu-infinito bianco-recinto e rosso-rose, di là dalla traccia filiforme dei gambi, presenta il rossobiancoeblù della bandiera degli Stati Uniti.
Lo sto reimmaginando adesso, Velluto blu, fissando i riflessi di luce sul cellophane che avvolge il dvd. Il velluto a pieghe dello sfondo, il biancore abbacinante di Isabella Rossellini, gli occhi a guardare il mondo oltre l’angolo basso dell’inquadratura; poi l’ammirazione triangolare di Kyle MacLachlan, poco più che venticinquenne (e quindi già vecchio, per versi), che la tiene sospesa tra le braccia della sua vita passata già oltrepassata.
È quel momento in cui la passione è svaporata in un preciso istante incandescente; e si trasforma in quella tristezza del cuore di cui parla Yeats, probabilmente. Quello che invece è certo è che io sono Qui, nel novembre del 2004, Blue Velvet già maggiorenne. Qui. Ad aspettare l’alba silenziosa dei miei trentatré anni, crocifisso all’insonnia come tutti gli innamorati non più corrisposti, in una casa vuota e, da qualche mese, non più condivisa. Anzi: vuota perché non più condivisa.
Guardo il dvd e mi rivedo, mentalmente, l’inizio di Velluto blu cercandovi dentro una spiegazione, una giustificazione alla presenza incongrua di quell’oggetto. Io ho solo vhs, fino a questo momento della mia vita. Un vecchio – già adesso – videoregistratore; e una collezione di videocassette di cui fatico a vedere la metamorfosi digitale.
E però. Poche ore fa. Dopo una cena piena di parole. La sera prima del mio compleanno. Quando ho riaccompagnato la mia compagna fino a pochi mesi prima nella casa dei genitori che, in questo preciso momento del tempo, la òspita. Lei, passata la mezzanotte, mi ha dato il suo regalo di compleanno. Un pacchetto involto nel blu da cui è apparsa, dopo lo strappo, la copertina del dvd di Blue Velvet. Il mio primo dvd. Senza poterlo vedere; visto che non ho un lettore.
E mentre sono lì a cercare di capire il perché e il come di questo gesto: intanto mi rivedo mentalmente le scene del film, riscrivo le battute senza accorgermene, ripenso all’America che mi ha regalato Lynch nei medî anni Ottanta in cui è arrivato Velluto blu perché potessi vederlo.
Penso alla prima volta che l’ho visto finire; a quella sensazione posticcia e stordita di essere in una vita filtrata dai colori pastello del mondo esterno. Ricordo che pensai, in quel 1987 più o meno del mio ginnasio, che Lynch era riuscito a fare qualcosa di maivisto; e infinito. Aveva riscritto l’arte con l’arte in un modo che non esisteva prima di lui. Poi, negli anni dell’Università, avrei ricordato per anni, per sempre, le discussioni notturne con un manipolo, agguerrito, di amici contestatori, io e Francesca, a ripetere e ripetere fino all’ossessione (i tempi bambini in cui ci si accanisce in monologhi accorati – e accurati, rigorosamente – per giorni e notte intere: tempi che durano tutta la vita in questo modo, peraltro, se si ha a cuore la vita): Lynch è un fondatore, di estetiche. Non un giocoliere divertito di estetiche precedenti. L’unico, in questo momento – gli anni Novanta al loro inizio – che non rimaneggia, estetiche, ne fonda una sua. Un suo universo riconoscibile e cangiante che non esisteva, prima di lui.
Penso al primo varco di luce che mi sono riscritto addosso dopo la mia prima fine di Velluto blu. Sì, perché: cosa fa David Lynch con la provincia americana? S’impossessa delle premesse provinciali del piccolo borgo (come farà prima, o poi, facendo brillare il suo sodalizio con Mark Frost in Twin Peaks): mischia Peyton Place e la Milwaukee di Happy Days, lascia colare il maquillage perbenista degli anni Cinquanta della sua prima memoria esistenziale sulle guance, bellissime, di una disperata Dorothy Vallens. E da quell’idillio contraffatto si genera, sottotraccia ed evidente come un lutto rimosso, la violenza costretta delle cose, la crudeltà fragile e umanissima degl’incubi quando si affacciano per un momento oltre la soglia inascoltata del sonno e sembrano reali perché sono reali.
David Lynch prende Happy Days e da dentro ci fa vedere qualcosa che già sapevamo ma non capivamo come raccontarci. Ci fa scoprire che in realtà Joanie è vittima di un giro di prostituzione adolescenziale; che il bonario Howard Cunningham spaccia droga agli studenti del Liceo frequentato dai suoi figli nel retro della ferramenta. Che Fonzie, nottetempo, picchia i barboni con la sua banda di motociclisti sciroccati e, quando si ricorda dei suoi devastanti trascorsi infantili, violenta le passeggiatrici che incontra. L’irruzione di una realtà sottotraccia, appunto, rimossa e rimessa entro i lìmiti perimetrali di una visione che la ìndica senza giudicarla.
E ora Qui (anni prima o anni dopo: l’alba dei miei trentatré anni ancora non lo sa, né lo intuisce), a chiedermi, con lo spiazzamento di un Fred Madison, che cosa nasconda dentro di sé il regalo di questo mio primo, presente e invedibile, dvd di Velluto blu.
Quale sia la realtà sottotraccia da cui sono escluso. Forse un simbolo. Qualcosa che esiste ma non può più essere guardato? Forse David senza le vocali per firmare alla Lynch il suo ultimo regalo lynchiano con un dentale e ieratico D v d?
La voce di Bobby Vinton che ho nella testa si ripete fino al mattino; mi segue nella casa vuota, poi per le strade dell’Albano Laziale in cui sono provvisoriamente recluso (e che assomiglia sempre di più alla Milwaukee riletta da Lynch, a Twin Peaks; annebbia la sua sonnolenza autunnale in un giro a vuoto delle impressioni). Fino al pomeriggio: quando quattro amici comuni mi portano il lettore dvd. Regalo a cui ha partecipato anche lei, da lontano. Così io mi ritrovo da solo, in una casa vuota, nell’ultimo tramonto dei miei trentatré anni compiuti. Con un lettore dvd e il mio primo dvd, Velluto blu. E la voce di Bobby Vinton ricomincia da Qui, preceduta dal coro; e dalle rose.
Non c’è un modo diverso di rivelare il groppo esploso della propria commozione primitiva, infantile, finalmente liberata; almeno non c’è, nella lingua in cui penso, senza le variazioni minime delle frasi “Sto piangendo” e “Ho pianto”. Forse si può sostituire la prima persona con la quarta: e in questo scambio catartico, uguale ogni volta alla commozione plateale del teatro delle origini e però sempre differente persona per persona (quindi ‘maschera per maschera’), ci si ritrova insieme, paradossalmente, con l’ottimismo strenuo di una ginestra, con la speranza ottusa di un’erba da marciapiede; la luce futura di una vedrai, vedrai recitata alla propria madre delusa.
E allora scriviàmo come ricordiamo quello che è successo. Siamo io e un mio compagno del liceo, lettore attento e illuminato (di cui non faccio il nome solo per ascriverlo, al tempo stesso, alla sorte quirina dei miti e ai recessi intangibili dell’adolescenza); lo stesso che mi ha regalato una definizione perfetta del rigore artistico. Perché durante i suoi solitari con le carte (gioco che non lo appassionava più di tanto, peraltro) s’imponeva un’attenzione e una disciplina severissime dovute al fatto che, se non gli fosse riuscito il solitario, immaginava, costringendosi, “un’astronave aliena avrebbe distrutto la Terra”. Ecco, da allora mi dico: non ti puoi mettere al tavolo da lavoro se non pensi che, scrivendo il rigo sbagliato, distraèndoti dalla bellezza che inventi quando ti lasci cercare, un’astronave aliena spazzerà vìa te e i tuoi cari con un solo gesto dell’immaginazione.
Quindi. Ci siamo resi conto insieme, ridendo e guardandoci mentre le lacrime – semplici, banali e limitate come tutt’i gesti irrefrenabili della biologia che non comportino dolore agli altri – ci attraversavano il viso, s’impastavano alle risate d’imbarazzo e alla memoria che sarebbe rimasta dell’Adagio di Samuel Barber, anche dopo il suo reintrodursi di soppiatto in altri film privi di lacrime. Io e lui, a casa sua, un pomeriggio di primavera, a vedere in videocassetta The Elephant Man. Il film che avrebbe dovuto girare Terrence Malick e che Malick non ha girato perso com’era dietro alle tracce ipnotiche della sua sottile linea rossa. Il film scritto da Christopher De Vore e da Eric Bergren; e poi lynchato ufficialmente già in sceneggiatura perché proprio David Lynch lo potesse abitare. Il film prodotto da Mel Brooks senza firma, per la paura che potesse essere identificato con la sua vita artistica precedente; e con le parodie di Frankenstein, jr o Mezzogiorno e mezzo di fuoco.
Le stelle ci attraversano mentre le rincorriamo, la velocità della luce sul nero ci prende a puntigli e a scie mentre ci insegue; e dallo spazio più antico, o futuro, di sé, la voce di donna che accompagna l’Adagio ci dice che “Mai, oh, mai. Niente morirà mai. L’acqua scorre. Il vento soffia. La nuvola fugge. Il cuore batte”. E dal sole nero a poco a poco inghiottito dalla sua aureola, appare il volto di lei, il fumo si riassorbe in un sogno méliesiano; e poi riappare lei, giovane, immortale nel ricordo e bellissima, per quello che voglia dire essere bellissimi nell’ultimo pensiero di un figlio.
E, mentre i tuoi sogni significanti ti accecano per un secondo; e il tuo animo acrostico ti fa vedere il resto dell’umanità in quelle iniziali, The Elephant Man, ThEM, lui e loro, noi; mentre come sempre ti assenti attento per guardare da fuori le emozioni e intanto esserne posseduto ― “Niente muore”.
Gli occhi di lei invadono lo schermo; e il suo sguardo ora è rivolto, splendente, all’ultimo sonno di John Merrick, il primo che gli dia una qualche requie dal dolore e dal male di vivere che ha incontrato. Come si fa a non piangere, se David Lynch ti ha mostrato come puoi essere John Merrick anche tu?
C’è un momento nella storia di David Lynch in cui la sua arte s’incontra con quella di Mark Linkous e di Danger Mouse insieme. Quando scrisse il suo saggio su Strade perdute, David Foster Wallace – due david di genio che s’incontrano – ha parlato della versatilità da “uomo del Rinascimento” di David Lynch, pittore, scrittore, regista, musicista, compositore, autore della “striscia di fumetti settimanale” Il cane più arrabbiato del mondo. Autore, insieme a Badalamenti, di “Industrial Symphony #1, nel cui video, del 1990, appaiono Nicolas Cage, Laura Dern, Julee Cruise, lo ieratico nano di Twin Peaks, alcune majorettes in topless e un cervo scuoiato, e che suona più o meno come suggerisce il titolo”.
La Musica. Uno dei modi, forse il modo che ha Lynch per mettere in sintassi e perciò rendere visibile anche a noi: la visione dei mondi quantistici che gli esplodono dentro (slargandosi nella polifonia relativistica degli universi che intravede): insieme con la resa di quella stessa visione attraverso l’obiettivo prigioniero della cinepresa. Il modo che ha Lynch per permettere ai significanti, precordiali, della musica di dilatare la perfezione mirata delle sue inquadrature in tutte le suggestioni possibili che può permettersi chi decide di guardarle.
Fino al silenzio. Un silenzio gestuale; se è vero com’è vero che leggenda vuole che Dark Night of the Soul, l’album pensato e scritto da Danger Mouse e Sparklehorse (quindi Mark Linkous), è accompagnato da un libretto vero e proprio di foto e di parole; anche orma visibile della presenza luminosa di David Lynch.
Leggenda vuole che, per una controversia con l’etichetta distributrice dell’album, l’uscita della Notte oscura dell’anima sia stata rimandata di un anno; e che però sia stata preceduta dalla nascita di un disco vuoto; un CD-R vuoto pubblicato da Danger Mouse.
Un topo pericoloso, un cavallo luccicante; e poi David Lynch. Un suono morbido che lo allontana dalla lynx che potrebb’essere e che non è. Lynch e Lynkous sembrano comunque, anche per l’amore che mi lega a entrambi, una variazione musicale, una danza di suoni che si proseguono l’uno nell’altro.
Fino a questo silenzio momentaneo che li vede tutt’e due là fuori, adesso, nella Letteratura con cui li ricordiamo.
Del resto, un disco vuoto prelude a un’assenza, visto che Mark Lynkous non vedrà mai uscire Dark Night of The Soul. Sperso nella sua privatissima notte scura dell’anima; in un giardinetto di Knoxville che, ogni volta che ci penso, mi sembra simile se non uguale, appunto, a quello con cui comincia Velluto blu. Quel 6 marzo degli ottantatré anni di Gabriel García Marquez in cui Mark Lynkous ha deciso da sé come salutarsi.
Ho sempre chiesto a me stesso, in quelle giostre di domande senzasenso di cui mi nutro costantemente e mi spiegano, talvolta, quello che penso.
“Quali scene porteresti con te, tra tutt’i film di David Lynch; tra tutto quello che Lynch è per te. E perché?”
Il perché non lo so; e fortunatamente non lo saprò mai. Ma posso azzardare qualche suggestione sul come.
E le immagini – e le parole – arrivano da quello che di solito è considerato il più anomalo e nonlynchiano tra i film di David Lynch. The Straight Story.
Forse, mi dico, sarà la luce di Alvin Straight. I tempi e i modi che, già da quella prima immersione nella sala cinematografica, mi ha riportato in vita i gesti e le pause di mio nonno Adriano. Richard Farnsworth alla sua più grande, estrema, prova d’attore.
“La Musica. Uno dei modi, forse il modo che ha Lynch per mettere in sintassi e perciò rendere visibile anche a noi: la visione dei mondi quantistici che gli esplodono dentro”.
Sarà la musica di Angelo Badalamenti che poi m’ha accompagnato in forma di colonna sonora per gli anni che sono seguiti. Il fatto che il film è la prova visibile di come l’arte non solo possa, ma debba appropriarsi della realtà che la scatena inventandosi un modo suo: che è poi il motivo unico per cui le realtà mutano di forma in memorie; e, quando sono traslate nella forma perfetta che prevedono, in Bellezza. O forse è il peso senzacolpa – una delle benevole fissata in un ghigno irrequieto di statua, il ciglio circolare di un abisso troppo commosso per mettersi a fissarti – del passato ventenne di Alvin Straight. Quando se lo racconta e lo nasconde invadendolo di luce.
Ecco.
In questo film di Lynch apparentemente di là da Lynch. In questo viaggio lento, e però inarrestabile del trattorino rasaerba e del vecchio che lo guida attraverso le pianure interminate degli Stati Uniti.
C’è una scena tra le altre.
Alvin Straight continua nella sua impresa di raggiungere suo fratello Lyle. Una ruota del rasaerba sull’asfalto sfuma nell’inquadratura di Alvin Straight alla guida della sua personalissima carovana in minore. Un’auto lo sorpassa. Il suono di un clacson si dilunga sullo sguardo attento del vecchio, raggiunto dalla cinepresa fino al rumore, inconfondibile, di uno schianto; un colpo sordo di lamiere. Alvin Straight, affannato, si ferma. Scende a fatica dal trattorino, prende i due bastoni che ne aiutano la camminata dal cassone portabagagli, il rimorchio dove tiene, in pratica, tutta la sua vita viaggiante. Il vento, forte, è la musica che lo accompagna e che intanto smuove la calma piatta della pianura di là da lui. Cammina piano fino alla macchina che l’ha sorpassato. Una donna in tailleur cerca di riabbassare il cofano alzato dall’urto; la mascherina è distrutta. Sull’asfalto, ai suoi piedi, dietro di lei, il cadavere del cervo appena abbattuto.
“Posso aiutarla, Signora?” chiede Alvin Straight con la grazia gentile che lo rappresenta.
E Qui, la donna, rossa di capelli al vento, disperata e furiosa insieme, esordisce con un netto “No, lei non mi può aiutare. Nessuno mi può aiutare”. E spiega, mentre l’ira e la furia si alimentano a vicenda fluttuando nell’aria intorno a lei, “ho cercato di guidare con le luci accese. Ho cercato di suonare il clacson. Ho urlato fuori dal finestrino io- io ho tirato giù il vetro e battuto il pugno contro la fiancata! Ho messo i Public Enemy a tutto volume!… Ho pregato San Francesco d’Assisi e anche San Cristoforo, accidenti!”
In tutto questo: Alvin Straight ascolta. E non dice nulla. “Faccio tutto il possibile”, si sbraccia la donna, “eppure quasi ogni settimana mi càpita di investire almeno un cervo… Ne ho ammazzati tredici in sette settimane e guidando su questa strada, Signore…”.
Lei si porta la mano destra ai capelli, sta per piangere. Alvin Straight continua ad ascoltarla senza replicare. “E sono costretta a fare questa strada!” esplode lei in quella che è forse la giustificazione più paradossale della storia del cinema insieme con la preghiera delle cavallette di John Belushi.
“Ogni giorno! Quaranta miglia avanti e indietro per andare al lavoro… Devo andare a lavorare in macchina e devo tornare a casa in macchina…”. Poi, un respiro che sembra un grido, il vento che continua a infierire sui movimenti dei suoi capelli. Lei guarda la pianura desolata di là dalla strada. “Ma da dove vengono?” si chiede. Prima di guaire, letteralmente, come un animale ferito. Muoversi verso il cervo ucciso; chinarsi quasi avesse bisogno di confermarne la fine con una carezza frettolosa sul collo. Poi si alza, mette le mani davanti a sé per proteggersi e prendere una qualche distanza da tutto. “È morto”, ribadisce, sconsolata. Poi, mentre torna verso la macchina, prima di entrare nell’abitacolo. Grida a Alvin Straight “e io àmo i cervi!”
Parte un accordo badalamentianamente western; lei, sempre singhiozzando, ingrana la marcia indietro con grande stridìo di pneumatici, poi accelera evitando il corpo del cervo e corre vìa.
Alvin Straight, sempre in silenzio, la guarda andare vìa. Poi, piano, si avvicina alla carcassa sull’asfalto. Smuove le corna del cervo con uno stivale. Infine resta a valutarne le sorti, in piedi, muovendo la testa e lo sguardo verso il futuro che li aspetta.
Ecco.
Di là da quale sia il loro futuro a ogni visione del film.
Questo cervo di cui vediamo la morte già avvenuta; e sentiamo solo la musica rumorosa, industriale, meccanica della sua fine. Le grida disperate di lei. La grande domanda su da dove vengano, queste creature splendenti e silenziose. Dove possano nascondersi in quell’apparenza piatta e ventosa che, almeno stando a quel che si guarda, sembrerebbe deserta; e priva di vita.
Tredici cervi uccisi in sette settimane. E lei àma, i cervi.
La grammatica fondata da David Lynch che arriva da fuori, e s’invera, in un frammento. Un’incursione segreta che ferma e firma gli universi lynchiani in poco meno di tre minuti.
L’amore e la morte. Le parole e il silenzio. E l’illusione; l’incanto di un mago che fa apparire i cervi perché possano essere uccisi.
Oppure, mi dico.
L’incanto di un mago che si trasforma in cervo sapendo che, apparendo all’improvviso, inaspettatamente, fidando nel gioco di prestigio che diventa lui stesso, rischia di morire ucciso. Anzi: che lo aspetta, forse, l’esperienza estrema della morte.
Ma sa anche che quel momento: che è il lìmite sospeso e fluttuante su cui si gioca tutto – come per l’amore – è il presente eterno che resterà. E che condiziona la scena, le scene che seguono allo schiocco di dita della morte; apparsa come per caso in una delle sue tante forme.
David Lynch, mi dico. Se Umberto Eco alla domanda “in cosa si rivede, in quello che scrive?” scherzava dicendo di ritrovarsi negli avverbi.
Giocando: in quale fuoco luminoso può essere ritrovato (troppo, scrivere ritrovarsi), David Lynch?
E però da Qui in poi, si può solo giocare con le parole a parole. E a frammenti.
Perché Lynch – la sua arte, meglio – è i cigni selvatici di Coole volati via dopo la precisazione spiazzante dei diciannove autunni (tredici cervi in sette settimane), il cervo ucciso precipitato nella sua morte da chissà dove; è Suzie, Jack e Jane, i tre conigli antropomorfi, i Rabbits traslocati poi nell’altro universo sminuzzato di Inland Empire. È la scimmia Jack – la seconda vita onirica del Marcel di Friends – interrogata dal detective Lynch in What Did Jack Do? È il pettirosso finto con l’insetto nel becco che sancisce il lietofine più incredibilmente inquietante della storia del cinema (insieme con il cattivo mai punito della Vita è meravigliosa).
Tutt’i messaggeri innocenti – meglio: ingiudicabili – che arrivano a testimoniare di altrimondi con la loro sola presenza visiva. Tutti gli universi mercuriali, e di passaggio, che l’arte di David Lynch contiene.
Sono gli elementi esterni che creano un iniziale spiazzamento a dare il senso del tempo nel cinema di Lynch. Un senso del tempo spietato, e aereo come la vita vista dall’alto: che ci dà la consapevolezza di essere vivi, appunto, ricordandoci sempre – imponèndocelo – la violenza grottesca di una qualche fine.
Tante fini: tutte le piccole morti che ci addormentano alla fine di ogni crepuscolo, con i loro incantamenti; e le loro finzioni oniriche. Tutto perché ci si confonda in un Teatro di Specchi; per ritrovarci disorientati dentro la fine della fine. Imprigionati, incapaci di un solo ritorno. Come un personaggio di García Márquez che si addormenti, invecchiato e insonne, nella camera ultima della morte.
Lynch ci mostra, da quando ha cominciato a vedere per noi con noi, che esistono spiragli tra gli universi. E questi spiragli sono corridoi – più che luoghi da cui Lynch ha attinto le sue visioni – arredati con le visioni di Lynch. Lynch è il passaggio tra la veglia e il sonno quando le parvenze oniriche penetrano nella realtà sveglia e la afferrano tirandola verso di loro.
Quando i sogni sono incubi trasportati di qua; e quindi spersi loro, gl’incubi: sperduti loro per non sapere dove stanno andando.
Perché Lynch non è l’uomo che si sveglia spaesato e si chiede “dove sono?”. Lynch è l’uomo che si addormenta tranquillo e si ritrova in un luogo che conosce: ma non sa più lui chi è.
Da una vita mi dico che Velluto blu, The Elephant Man, Cuore selvaggio, Twin Peaks: con molta probabilità – e in tutt’i significati che quest’affermazione prevede (e pretende) – sono parti della mia immaginazione.
E allora, visto che ogni frase può essere interpretata. Lo faccio. Lo scrivo.
“Sarà la musica di Angelo Badalamenti che poi m’ha accompagnato in forma di colonna sonora per gli anni che sono seguiti. Il fatto che il film è la prova visibile di come l’arte non solo possa, ma debba appropriarsi della realtà che la scatena”.
Mentre penso – l’ho detto; l’ho anche scritto, una volta: quindi Qui lo ribadisco – che la puntata 8 della terza stagione di Twin Peaks è (ma non chiedetemi perché; posso solo dare suggestioni sul come), insieme con The Tree of Life di Malick, il modo che l’arte contemporanea (per quello che vuol dire) ha per interrogarsi su sé stessa mentre accade ―
Scrivo la domanda. “Davvero è morto David Lynch?”. Anzi.
“È davvero morto, David Lynch?”
Il Grande Mago di Missoula in Montana.
(Ecco. Se penso ai grandi maghi del cinema mi vengono in mente Fellini e Lynch: peraltro tutt’e due nati il 20 di gennaio, i genî di gennaio; e se non mi sbaglio è proprio la Tradizione ebraica a dire che i giusti spesso muoiono a ridosso della data del loro compleanno; il che spiegherebbe anche lo scherzo diffratto di Lynch di rubarsi qualche giorno per non ripetersi. Penso anche a Welles, che era di maggio come la grande canzone omonima. A Terry Gilliam. Penso che a giocare coi suoni di Fellini Lynch e Welles viene Flew, ‘volò’; e penso: da un lato, che ai maghi non s’addice il passato remoto ma il presente eterno delle leggende e delle fiabe, proprio perché, anche quando si rivolgono al passato delle nebbie più antiche, lo trasformano in un presente riportato in vita dal racconto, appunto; e, dall’altro lato, che lasciare fuori Gilliam e tutti gli altri maghi e maghe del cinema categorizza un artista che è di là dalle categorie. Per cui se proprio vogliamo parlare dei voli dei maghi e delle maghe trascriviamo quei versi di Saba che fanno: «Intorno a una grandezza solitaria / non volano gli uccelli, né quei vaghi / gli fanno, accanto, il nido. Altro non odi / che il silenzio, non vedi altro che l’aria», e li trascriviamo a memoria, perché in questo gennaio triste come il cuore di William Butler Yeats non trovo più i libri di Saba, anche quest’assenza è una più acuta presenza, da poeta a poeta; ma sono sicuro che Saba non me ne vorrà. Dopotutto questo è un blues, non ci si può dimenticare delle improvvisazioni).
David Lynch non è morto. Guardate bene. Ha visto un sipario rosso, di velluto, ha superato la tenda di velluto rosso e s’è ritrovato per un momento sul palco, da solo. S’è avventurato dietro le quinte e ora sta cercando di ritrovare la strada.
“Tornerò, ci dev’essere un modo”. Leggenda vuole che così abbia detto Houdini morendo. E però realtà sa che Houdini non è più tornato, almeno per ora.
Solo, Signor Houdini, con tutto il rispetto. Lei non era un mago e un incantatore grande come David Lynch.
Per cui io ora sto Qui. E aspetto. Finché lui non torna, io non me ne vado.
E invece è Qui che da fuori arriva il fuoco d’artificio di una risata. E quella che sembra la voce di Dale Cooper mi chiede “In che anno siamo?”
Giordano Meacci
Giordano Meacci è scrittore e sceneggiatore. Il suo ultimo libro è Acchiappafantasmi (Minimum Fax, 2023).
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