"Vermiglio" è il film di una regista di cui sentiremo parlare - Lucy
articolo

Matteo De Giuli

“Vermiglio” è il film di una regista di cui sentiremo parlare

03 Settembre 2024

"Vermiglio", il secondo film di Maura Delpero, che racconta la fine della Seconda guerra mondiale in un piccolo paese montano, conferma il talento della regista italiana e definisce meglio il suo sguardo d'autrice sui tumulti della famiglia.

È l’ultimo anno della Seconda guerra mondiale e un disertore, un soldato siciliano, trova rifugio a Vermiglio, paese montano a pochi chilometri dal confine austriaco, in Trentino. La sua non è solo una fuga: ha portato in salvo, a casa, un commilitone ferito, caricandoselo sulle spalle per chilometri. Lì ha trovato un paese sospeso nel tempo, tra le nevi di una valle dove il conflitto non è mai arrivato e la vita contadina è rimasta identica a sé stessa nella sua inerzia secolare. 

La piccola comunità accoglie il ragazzo, decide di nasconderlo, per dignità e riconoscenza. Ogni tanto si accende un lampo di diffidenza in qualcuno dei paesani: in fondo anche i giovani del posto, i coetanei del siciliano, che di nome fa Pietro, hanno abbandonato i campi e sono andati in guerra; eppure loro non sono scappati, loro in guerra ci sono rimasti, qualcuno ci è pure morto. Perché allora ospitare un forestiero, uno che è vivo solo perché si è fatto furbo? Le turbolenze però si spengono sempre, anche grazie ai rimbrotti del maestro di scuola, la guida morale di Vermiglio: è lui che – mosso da una pietas salda anche se inquieta – decide che il ragazzo va protetto. E non cambia idea neanche quando Pietro, audacemente, chiede la mano di sua figlia maggiore, Lucia.

Vermiglio, in concorso a Venezia81, è un film corale, un film di guerra dove la guerra non c’è: la guerra è indicibile, è uno spettro che si agita al di là delle montagne, che riverbera la sua luce crudele in altre valli lontane da questa. E così alla guerra il paese sopravvive – nella povertà, nel lavoro, chiudendosi in un suo tipico orgoglio rurale. Per la famiglia del maestro il vero dramma arriva, inaspettato, dopo la tregua, quando Pietro parte per qualche giorno, per andare a riabbracciare la famiglia e gli amici nella Sicilia liberata. Non tornerà più.

Maura Delpero cita Haneke tra i registi preferiti. Si capisce il perché, si intuisce cioè l’ambizione della regista a una geometria simile, sia nell’estetica dell’inquadratura – che in Vermiglio alterna il campo largo e struggente dei paesaggi alpini ai primi piani, imperfetti, tragici, dei volti e dei corpi dei paesani – sia nella linearità del racconto, che procede inesorabile e lento, senza alambicchi. L’ispirazione cinematografica più facile da rintracciare in Vermiglio però è quella dell‘Albero degli zoccoli, il capolavoro di Olmi ambientato nella Bassa Bergamasca: anche Vermiglio è recitato in dialetto, anche Vermiglio cerca un realismo contadino poetico ma non sentimentale o condiscendente, anche in Vermiglio l’essenzialità di alcune scene è sporcata  e arricchita dalla spontaneità degli attori non professionisti. L’albero degli zoccoli era accompagnato dalle musiche di Bach, in Vermiglio le opere di Chopin e di Vivaldi hanno un ruolo centrale nel definire l’atmosfera del film. In questo caso il maestro, l’uomo di cultura del paese, ascolta sul grammofono alcuni preziosi dischi che è riuscito a comprare nonostante le ristrettezze del periodo.

Ma si possono intravedere anche altri modelli. Natalia Ginzburg, inevitabilmente, per la cura con cui Delpero costruisce le dinamiche e il lessico famigliare che scuote le mura a casa del maestro – una casa densamente popolata: tre figlie femmine e cinque maschi, ma quasi si perde il conto, e qualcuno ne arriva più avanti, e un bimbo muore neonato. 

È questo il coro che dicevamo, a maggioranza femminile: Adele (Roberta Rovelli), la moglie del maestro, dimessa, silenziosa, eppure risoluta nei momenti decisivi, rimane di nuovo incinta in tarda età. Ada, la sorella di mezzo, che scopre le foto pornografiche del padre, che gli ruba le sigarette dal cassetto, che si prende una cotta per la ragazza ribelle del paese, e che finirà poi per farsi suora per senso di colpa e per questioni di economia familiare. Flavia, la sorella minore, la prediletta del padre-maestro, quella che legge il giornale ad alta voce per tutti, quella intelligente, quella che deve studiare. Lucia, che si innamora appunto di Pietro, e lo sposa, e che quando lui scomparirà cadrà in depressione – “si mette in un angolo come i gatti che vogliono morire” – finché non troverà le forze per andare da sola in Sicilia. E poi i figli più piccoli, che scorrazzano per le stanze, e quello più grande, Dino, che al padre non piace, e che da maestro lui boccia: “per lavorar nei campi no serve nessun diploma”.

I dialoghi sono scritti con una ironia ingenua e sagace, che a volte ricorda i libri di Meneghello, il modo in cui lo scrittore raccontò l’assurda comicità della guerra. La sua anti-retorica nasceva – come notò Cesare Segre – dal “recupero di una logica infantile, o primitiva, entro un discorso maturo”. Una cosa non troppo dissimile succede in Vermiglio, dove la sera, a letto, parlando tra loro, i bambini, come gli adulti, si confrontano sulle grandi cose della vita senza riuscire a capirle – e forse proprio per questo ne colgono alcuni aspetti decisivi: così la guerra lontana è quella cosa che “è come se sei vivo però poi no”; il siciliano che disegna cuoricini per la sua innamorata lo fa non solo perché è romantico ma anche perché “analfabeto”; e alla morte del neonato di casa, il minore dei fratelli chiede al maggiore: “È andato in cielo con le ali?”. “No con l’anima”, risponde l’altro sicuro. “Che roba è?”. “Non lo so”, ammette poi con la stessa rapidità.

“‘Vermiglio’, in concorso a Venezia81, è un film corale, un film di guerra dove la guerra non c’è: la guerra è indicibile, è uno spettro che si agita al di là delle montagne, che riverbera la sua luce crudele in altre valli lontane da questa”.

Vermiglio arriva dopo Maternal, del 2019. Maternal è ambientato in Argentina, a Buenos Aires, tra le stanze di un hogar, uno di quegli istituti cattolici che accolgono ragazze madri minorenni in situazioni di disagio sociale. Anche qui troviamo una grande famiglia, dopotutto, con le giovani ragazze turbolente, spesso indifferenti alle responsabilità materne, e le loro figlie e i figli, ancora troppo piccoli per comprendere la sorte che gli è capitata. Tutti convivono più o meno forzatamente con le vecchie suore, severe ma non crudeli come vorrebbe invece il cliché. Il film si apre con l’arrivo all’hogar di una nuova sorella, giovane e bella, che presto si legherà emotivamente a una delle bambine, con gli ovvi sconquassi emotivi che ne conseguono. Maternal è un film che riesce a raccontare le contraddizioni della maternità senza giudizio. Vermiglio ne segue la scia e alza il tiro, aggiungendo in maniera ambiziosa nuovi temi universali e irrisolti: la paternità, la guerra, il lutto, il talento, i capricci del destino.

Cerco qualche difetto, per non peccare di troppo entusiasmo: ogni tanto, in Maternal come in Vermiglio, Delpero si affeziona ai propri personaggi, finisce quasi per volerli difendere, o confortare. La sensazione, in generale, è che voglia rimanere sempre il controllo di tutto: la trama, le immagini, i dialoghi, i significati; persino i non detti rischiano di diventare chiarissimi. Ma sono difetti perdonabili, di fronte al piacere di scoprire una nuova regista di talento. 


Delpero ha iniziato girando documentari, ed entrambi i suoi film di finzione attingono a materiale autobiografico. Ha lavorato per qualche tempo in un hogar.  Vermiglio è il paese del padre. Dopo due film è ancora presto per indovinare che tipo di autrice diventerà. Ma per due punti passa pur sempre una retta, e la direzione è di sicuro quella giusta: in questo ibrido di realismo, invenzione e scavo psicologico, mescolando alla perfezione attori professionisti e non professionisti (in Vermiglio Tommaso Ragno, il maestro, è perfetto: spicca senza essere istrionico, senza per forza divorarsi tutto il resto), Delpero ha già trovato il proprio equilibrio.

Matteo De Giuli

Matteo De Giuli è caporedattore di Lucy. Scrittore e autore, ha lavorato per Rai3, Radio3, Il Tascabile Treccani. Ha scritto “Buoni a nulla” (Quanti, Einaudi, 2022) e, con Nicolò Porcelluzzi, “MEDUSA” (Not, NERO editions, 2021).

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