Vivere al Chelsea, l’hotel più cool del mondo - Lucy
articolo

Iacopo Taddia

Vivere al Chelsea, l’hotel più cool del mondo

17 Marzo 2024

Dal 1994, il fotografo Tony Notarberardino vive al Chelsea Hotel, lo storico albergo di New York dove hanno soggiornato, tra gli altri, Dylan Thomas, Bob Dylan e Andy Warhol. Alle ACA Galleries di Chelsea ha da poco inaugurato la sua prima mostra di ritratti: i soggetti, ovviamente, sono gli ospiti e gli amici dell’albergo. Abbiamo incontrato Tony nella sua stanza, tra inevitabili nostalgie per un mondo che non c’è più e un futuro che, per gli inquilini dell’hotel, sembra ancora incerto.

Parlare con Tony Notarberardino è come essere dentro la coda di Spotify. Quando la playlist finisce, parte una canzone inaspettata. Dal primo richiamo armonico, nella tua testa appare un ricordo, nitido e intensissimo. Anche con Tony ci si ritrova investiti dalla memoria. La sua voce profonda – cadenzata da un leggero accento australiano – ti porta  a spasso tra i grandi personaggi della cultura, della musica e della letteratura del Novecento.

Tony è un fotografo ed è uno degli ultimi venticinque permanent residents – i residenti con contratto congelato – rimasti al Chelsea Hotel. La stanza 629 è casa sua dal 1994. Il Chelsea Hotel, dal 1885, è residenza e rifugio dei più grandi artisti americani (e non). Jackson Pollock, Dylan Thomas, Bob Dylan, Patti Smith, Leonard Cohen, Lou Reed, giusto per citarne alcuni. Da trent’anni Tony è il fotografo di questo alveare. I suoi ritratti in bianco e nero, scattati con un imponente camera a telaio di legno 8×10, sono raccolti nella collezione Chelsea Hotel Portraits e per la prima volta esposti al pubblico in questi giorni, all’ACA Galleries, ovviamente nel quartiere Chelsea. 

Parlare del Chelsea Hotel senza cadere in cliché nostalgici è difficile. Per quanto il bizzarro edificio gotico vittoriano si sviluppi verticalmente su dodici piani (al momento della costruzione era il più alto di Manhattan), ciò che impressiona del Chelsea Hotel è la sua dimensione longitudinale: quella del tempo, della rincorsa al mito. Se Tony ricorda con occhi sognanti gli anni Sessanta, in cui capitava di incontrare Jimi Hendrix in ascensore e Andy Warhol al bar della Lobby, lo stesso Warhol forse rimpiangeva gli anni Cinquanta, quando l’hotel era il quartier generale della Beat Generation. È proprio qui che – secondo alcuni – Jack Kerouac avrebbe scritto tutto On the Road, su un rotolo di carta igienica. Anche Gregory Corso e Allen Ginsberg si erano a loro volta recati al Chelsea, forse anche perché affascinati dalla precedente permanenza di Mark Twain e Thomas Wolfe. 

Per capire cosa rimane di quel mondo, sono andato al Chelsea Hotel e ho chiesto di Tony. Mi hanno indicato l’ascensore, sesto piano. Eccomi in un corridoio di hotel come tanti, con porte identiche tra loro, odore di pulito, colori anonimi. Numero delle camere laccate in oro, luci che si accendono al tuo passaggio. In fondo – dopo una sequenza di usci speculari e metallici –, una porta rossa, di legno, i numeri sbilenchi che sembrano lì lì per cadere. Busso, e mi accorgo che la porta è socchiusa. C’è musica. L’appartamento è pieno di gente. Nella penombra purpurea della stanza, tra i drappi dell’androne c’è un grande via vai. Mi affaccio in salotto, ed ecco Tony.

Tony: Ciao! Com’è che ti chiamavi che non mi ricordo?! Vabbè. Vieni, vieni. Stiamo preparando, per stasera. Aspettami in camera da letto.

Entrando in camera da letto, mi accorgo che c’è una donna seminuda seduta a terra che si sta cambiando. È di spalle, posso fare dietrofront. Nella fuga, non priva di imbarazzo, incontro un’altra donna: ha il volto truccato di bianco e tatuaggi su tutto il corpo: a colpirmi è soprattutto quello sull’inguine, un revolver. La proprietaria dei tatuaggi si chiama Anna Monoxide. L’ho vista la sera prima, al Burlesque show della Slipper Room, nella Lower East Side, intenta a fare una spaccata su una superficie di aghi appuntiti. Decido di aspettare in corridoio, poco dopo Tony mi raggiunge.

T: Lei è Monika. Sarà la mia door bitch stasera. Lui è… com’è che ti chiami? [Monika, gentilissima, finge di interessarsi a me, si alza, mi stringe la mano e se ne va sorridendo, mentre noi entriamo nella stanza].Vai iniziamo, non ho troppo tempo. Prima però saluta Cocolina. È Coco la vera padrona di questo appartamento. Noi siamo tutti ospiti a casa sua.

[Coco ci guarda facendo le fusa dal letto, enorme e pieno di cuscini. È diafana e bellissima].

T: Coco è qui da otto anni. L’ho salvata da una donna completamente pazza che viveva su, al settimo piano. La teneva chiusa in una gabbia di uccelli. Gliel’ho rubata. L’ho convinta a prestarmela per qualche ora per un fotoshooting. Sono passati otto anni e non gliel’ho ancora ridata. Ho detto fuck you, non lo tieni un gatto in una gabbia di uccelli. 

[Forse è il momento che io inizi a fare qualche domanda. Tony guarda preoccupato i miei appunti].

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T: Wow, hai parecchie domande.

I: Beh, ho fatto un po’ di ricerca Tony.

Su di me o sull’hotel?

Entrambi

Beh, non ti piacerà quello che troverai. 

[Benissimo. Iniziamo].

Tony, come sei finito al Chelsea Hotel tu, che sei un australiano figlio di emigranti italiani?

I miei genitori sono arrivati a Melbourne negli anni Cinquanta da Napoli, dove la devastazione a seguito della guerra non aveva lasciato nulla per loro. Mio padre aveva quattordici fratelli e sorelle, puoi immaginare! Cercava qualcosa di nuovo, una vita nuova, e ha scelto l’Australia. Sono cresciuto nella comunità italiana di Melbourne, infatti parlo un impeccabile dialetto napoletano. Stando sempre con gli altri italiani, non ci siamo mai integrati davvero. I miei erano contadini, quindi non si parlava molto di arte a casa, però c’era una cosa che facevamo tutti insieme: guardare film. Chiaramente non in televisione –  non c’erano film italiani nel palinsesto australiano – però nel quartiere dove vivevano gli italiani c’era un cinema, che a un certo punto ha iniziato a mettere in programmazione film italiani, dato che il pubblico del quartiere li adorava. Ogni sabato sera quindi si andava al cinema, tutte le settimane. Vedevamo tanto neorealismo. Pasolini, Visconti, Rossellini. Roma città aperta, Mamma Roma. E poi Fellini. Tutte queste pellicole le ho viste a partire dai cinque anni. Il neorealismo è stata la mia formazione artistica. Mi ha marchiato. Due cose credo siano visibili nel mio lavoro: l’accostamento di persone comuni a star assolute, come Sophia Loren o Anna Magnani (la mia attrice preferita), e il bianco e nero.

Del tuo lavoro colpisce proprio la franchezza con cui riesci ad affiancare personaggi di fama internazionale ai lavapiatti, passando per drag queen e preti. Oltre 1500 ritratti, ognuno dei quali con una propria dignità intatta. E nonostante le differenze radicali tra i soggetti, il progetto ha una chiara identità di insieme. Come è nata l’idea della collezione Chelsea Hotel Portraits?

Qui ogni giorno incontro persone incredibili, senza nemmeno dover fare lo sforzo di uscire. Mi sono sentito in dovere di documentare questi momenti: in fondo sono un fotografo, è la mia indole. Volevo però andare oltre il mito del Chelsea: prendere le persone, portarle fuori dalla cornice dell’hotel, davanti alla camera, pur mantenendole all’interno del Chelsea. Tutti i ritratti sono su sfondo nero, anonimo, nella mia stanza. Ma non ci sono indizi, non c’è traccia del Chelsea. Non volevo che si parlasse dell’hotel, ma delle persone. Volevo riuscire a isolarle. Ha funzionato. Non mi interessavano i ritratti ambientati, ma la documentazione. Fuori dallo spazio e dal tempo. Alcune foto sono state scattate a venti anni di distanza l’una dall’altra e guardale: sembrano uguali. Lo sfondo è lo stesso, la macchina è la stessa. 

Non è stato facile ottenere dei ritratti così intimi. Per alcune foto ci sono voluti anni per ottenere una posa: ho dovuto conquistarmi la fiducia delle persone, convincerle. Certo, con alcune è stato più semplice. Basta vedere come erano vestite. Soggetti esuberanti, trasgressivi, che amano mettersi in mostra.  Poi c’erano i riservati: stavano qui proprio per non essere disturbati. Ho dovuto imparare a conoscerli, conquistare la loro fiducia. Per scattare il ritratto di Stormé ci ho messo dieci anni…

[Stormé. Stormé Delarverié, icona della comunità LGBTQ. Ringmaster del primo drag show itinerante negli Stati Uniti e capofila dei riots di Stonewall, nel giugno del Sessantanove. Le cronache raccontano che sia stato proprio un alterco tra Stormé e le forze dell’ordine a dare il via alle cinque giornate di rivolta, da cui deriva l’odierno movimento per i diritti civili LGBTQ. Da quell’episodio, il mese del Pride è proprio giugno].

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A quali ritratti sei particolarmente legato?

Impossibile scegliere. Ognuno ha una storia unica alle spalle. Tutti hanno un significato. È come chiedere qual è il tuo figlio preferito. Posso dirti quali sono stati particolarmente difficili da ottenere: sicuramente quello di Dee Dee, con cui dividevo l’appartamento quando sono arrivato.

[Dee Dee Ramone, bassista dei Ramones, tornato a vivere al Chelsea per risolvere il suo problema di tossicodipendenza. Col senno di poi, non è andata benissimo].

Com’era essere coinquilino di Dee Dee Ramone?

Secondo te? Come credi che sia vivere con una leggenda del punk rock?

[Effettivamente non una grande domanda: dubito che in quell’appartamento si litigasse per chi doveva comprare la carta igienica o pulire casa. Però che ne so io: non ho mai avuto una leggenda del punk come coinquilino].

Era un incubo. Era pazzo. Droga e sesso. Scopava e litigava con sua moglie tutta la notte. Lei aveva 20 anni: Barbara, argentina, bellissima. È stato difficile avvicinarsi a Dee Dee, ma siamo diventati amici e alla fine ho fatto il suo ritratto due giorni prima che se ne andasse. C’erano voluti due anni per convincerlo.

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I ritratti che hai raccolto sono tutti di inquilini del Chelsea? 

No, non per forza. Ho ritratto anche amici dell’hotel, o persone che ci avevano vissuto in passato. 

Ad esempio, Father Pete non ha mai vissuto qui. Era un prete noto nell’underground artistico newyorkese. Aveva una mensa, aperta a tutti, dove serviva un piatto caldo a chiunque ne avesse bisogno, atei e avventori del Chelsea inclusi. Anche Julian Schnabel l’ha ritratto in un enorme dipinto. Era un buon amico degli ospiti dell’hotel, che iniziarono anche a farsi sposare da lui. Era legato soprattutto a Vali Mayer, un’altra artista australiana che ha vissuto proprio in questa stanza. Quando Vali morì in Australia, facemmo un memorial per lei qui, lui venne, e diventammo amici. Iniziò a venirmi a trovare, e una volta chiesi di poterlo fotografare. 

Oppure Arthur C. Clarke: quando l’ho fotografato non viveva al Chelsea. Ci ha vissuto negli anni Sessanta. Qui ha scritto con Stanley Kubrick la sceneggiatura di 2001: Odissea nello spazio. Ovviamente io non c’ero. Però un giorno di qualche anno fa, ho ricevuto una telefonata da Stanley [non Kubrick, ma Bard, proprietario e gestore del Chelsea Hotel fino al 2007].

“Tony, fammi un favore. Arthur C. Clarke tra qualche settimana verrà in hotel. Vorrei che tu scattassi una foto di me e lui davanti all’ingresso”. Sono sobbalzato sulla sedia, e ho accettato immediatamente, rilanciando: “Pensi che potrei fargli anche un ritratto?”. “Io vi faccio conoscere, poi te la vedi tu”. Sono stato fortunato. Abbiamo fatto la foto davanti all’hotel, gli ho parlato di quello che stavo facendo e a lui è piaciuto. Alloggiava sul mio stesso piano. Era venuto a New York come ospite di un convegno scientifico. I romanzi che ha scritto negli anni Quaranta e Cinquanta hanno ispirato una generazione di futuri ingegneri spaziali: pensa che hanno creato la tecnologia satellitare basandosi sui suoi libri! Invitarlo a una loro convention era il minimo per ringraziarlo… era davvero una sorta di divinità della fantascienza, Arthur. 

“Ci sono molte leggende sui fantasmi del Chelsea. Io credo nell’energia di questo luogo. Nel momento in cui entri, lo senti che sta succedendo qualcosa”.

Siamo di nuovo tornati al Chelsea Hotel e ai suoi ospiti, ma non mi hai ancora detto come sei finito a viverci. 

Beh, per caso. Dall’Australia me ne sono andato piuttosto giovane. Ho girato il mondo, Parigi, Londra, Milano… ho lavorato per «Vogue», «Vanity Fair» e altre testate. Ma il mio sogno era andare a New York. Avevo un amico qui, mi ha detto: se non sai dove stare, fai un tentativo al Chelsea. Quando sono arrivato all’hotel, nel 1994, non sapevo quasi nulla a riguardo. Semplicemente mi piaceva, costava poco e non avevo un altro posto dove stare. Sono entrato e ho parlato con Stanley Bard, il proprietario dell’epoca. Mi ha chiesto: “Quanto tempo vuoi restare?”. Io non sapevo nemmeno che fosse possibile viverci per lunghi periodi qui. Pensavo di fermarmi al massimo un mese o due. Quella in cui ancora vivo è stata la prima e unica stanza che mi ha proposto. Stanley l’aveva predetto, quando me l’ha fatta vedere: “Questa è la tua stanza, probabilmente resterai qui per sempre, lo sai?” L’avevo guardato, ridendo, scuotendo il capo: “Non credo proprio”. Beh, eccoci qui, trent’anni dopo. E non ho traslochi in programma. 

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Stanley è una persona chiave in questa storia, non solo per te. Un’icona tanto quanto gli ospiti del Chelsea. 

Stanley Bard era un mago, un artista. E l’hotel è la sua opera d’arte. In qualche modo aveva la capacità di attrarre le persone giuste. Una persona straordinaria. La sua famiglia – immigrati ungheresi – aveva preso la gestione del Chelsea dagli anni Trenta. Con loro potevi pagare l’affitto con opere d’arte, canzoni, dipinti. Bard ti veniva incontro, fino a un certo punto, ma ti veniva incontro. Io ho documentato la fine di un’epoca. L’epoca della gestione del Chelsea da parte della famiglia Bard. Tre generazioni. Il padre di Stanley, Stanley, e suo figlio, David. Da quando l’hotel è stato venduto è finita. Non è più come prima e non lo sarà mai più. Le foto che ho fatto in quel periodo sono una testimonianza della libertà, unica, delle persone che vivevano qui e che venivano qui. Non credo che esista un altro posto al mondo come il Chelsea, da questo punto di vista. 

Com’è finita l’era fine della gestione Bard? 

Da un giorno all’altro hanno iniziato a circolare voci sulla presunta vendita del Chelsea. All’inizio non l’abbiamo nemmeno preso sul serio la questione, nessuno ci credeva veramente. Poi però, senza quasi che ce ne accorgessimo, è successo. Eravamo un centinaio di permanent residents all’epoca, nel 2010, e ci siamo ritrovati nella cassetta della lettera una comunicazione che annunciava la vendita del Chelsea. 

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E come hai fatto a mantenere la tua stanza nonostante il cambio di gestione? Che ne è stato degli altri permanent residents?

Fortunatamente New York è pro-tenents: gli affittuari hanno i loro diritti. Abbiamo formato un’associazione per tutelarci, non come singoli, ma come gruppo. Se conosci le leggi, puoi farlo, con dei buoni avvocati. I contratti d’affitto stabilizzati non possono essere semplicemente rescissi. È stato difficile, ma chi di noi ha tenuto duro, ha mantenuto il contratto di locazione con la famiglia Bard, e i nostri appartamenti sono intoccabili. Siamo rimasti in venti, venticinque appartamenti originali. Il resto dal 2022 è un hotel di lusso. L’attuale gestione è abbastanza accondiscendente, e ci lascia vivere a modo nostro. Ma quella precedente, la prima, è stata davvero combattiva. Volevano solo sbarazzarsi di noi. Siamo rimasti in una ventina, la maggior parte molto anziani. Alcuni se ne sono già andati. Quando ce ne andremo tutti, sarà veramente finita. 

Dopo l’annuncio della vendita e il tentativo – fallito – di cacciarci subito, ci hanno lasciato qui. Hanno però chiuso l’hotel, e iniziato i lavori. Guarda.

[Mi mostra un video: il suo appartamento intatto, esattamente come è adesso. Appena fuori dall’uscio, c’è un cantiere aperto. Operai che lavorano, calcinacci, trapani. Letteralmente l’intero piano dell’hotel in ristrutturazione, fatta eccezione per la sua camera. Come invisibile. Scendere a bersi caffè, doveva essere simile a una corsa a ostacoli, tra inferriate, caschetti e balaustre].

Per tutti i dieci anni che ci sono voluti per la ristrutturazione, è stato come vivere dentro Shining. In un hotel deserto. Una situazione che in realtà io adoravo. Odiavo i lavori chiaramente, ma amavo la solitudine e il fatto di non avere nessuno intorno. All’inizio è stato uno shock, ma poi non è stato così male. E poi non ero davvero solo. Tu credi nei fantasmi?

[Fingo e annuisco, perché mai vorrei deludere Tony].

Ci sono molte leggende sui fantasmi del Chelsea. Io credo nell’energia di questo luogo. Nel momento in cui entri, lo senti che sta succedendo qualcosa. Una volta lo percepivo di più, perché c’erano molte stanze come questa. Dopo le costruzioni non lo so. Ma qui dentro, nella mia stanza, c’è ancora un’incredibile energia creativa. Non so cosa sia. Non si vede, ma si sente. Forse è strutturale, forse deriva proprio da una qualità intrinseca delle fondamenta su cui è costruito l’hotel. È difficile da descrivere. È una dimensione parallela, una via d’accesso per un mondo terzo. Anche con la nuova gestione: si possono sfrattare le persone, ma non l’energia e gli spiriti. Ci saranno per sempre.

[Sebbene il Jep Gambardella che è in me stia gridando “Santo Cielo, signor Tony, che cos’è un’energia!?”, mi trattengo, affascinato dall’idea di un’occupazione abitativa esoterica].

Ad esempio: sai che i sopravvissuti del Titanic, subito dopo il naufragio, hanno alloggiato qui? All’epoca c’era un tram che dal porto percorreva tutta la 23esima strada, quindi era incredibilmente comodo. Una donna di Boston, appena dopo aver saputo del naufragio – c’era il suo promesso sposo sul transatlantico – si è fiondata a New York e ha fatto il check-in in hotel. Qualche giorno dopo, alla notizia del ritrovamento del corpo morto del suo amato, si è impiccata, all’ottavo piano. In quel corridoio capita ancora di sentire il suo lamento, o vedere di sfuggita una donna vestita con abiti di fine Ottocento. Più tardi, prima di uscire, fai un salto di sopra.

Credo che lo spirito di Chelsea esista, che lo si voglia ammettere o no. Anche se non ne siamo consapevoli, ne siamo influenzati. L’idea originaria del Chelsea, prima della leggenda, prima dei Bard, si basava sulla filosofia del suo architetto: quella di erigere una comune in grado di fare coabitare le più disparate classi sociali, in armonia. Forse è questa la vera energia del Chelsea. E credo che questa idea poi si sia riflettuta decisamente in tutto ciò che è accaduto all’hotel. Incluso nel mio lavoro. 

[Tony non sembra voler smettere di parlare. Di là, in salotto – teatro dell’avvenimento serale – il vociare si fa sempre più alto. La porta si è aperta a più riprese durante l’intervista. Coco dorme, impossibile capire che ora siano, ma c’è un’esibizione da preparare. Lo ringrazio e lo lascio andare a definire i dettagli della serata. Per quanto si possano definire i dettagli di un Drag-Burlesque show in una camera occupata di un hotel extra-lusso, rimasta così, identica, congelata, dagli anni Trenta. Cornice per surreali performance esoteriche e spogliarelli esotici, nella camera 629 si alimenta l’eredità sovversiva del Chelsea, rifugio abusivo e prolifico della sottocultura queer newyorkese].

Iacopo Taddia

Iacopo Taddia è ricercatore e giornalista. Collabora con alcune testate, come «Linkiesta» e «Repubblica».

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