Finalmente si parla delle donne che hanno fatto la Resistenza - Lucy
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Valentina Pigmei

Finalmente si parla delle donne che hanno fatto la Resistenza

11 Giugno 2024

Per decenni, la storiografia ha raccontato la Resistenza come fenomeno quasi prettamente maschile. Un errore: durante la guerra le donne sono state staffette partigiane, hanno imbracciato le armi e sostituito gli uomini in fabbrica. Oggi, grazie ad alcune scrittrici, il loro apporto fondamentale viene finalmente riconosciuto.

Quando Amelia Rosselli, figlia di Carlo Rosselli, assassinato insieme al fratello dai fascisti nel 1937, va a Venezia al convegno intitolato “La Resistenza e la cultura in Italia”, ha vent’anni. È il 1950 e, per la prima volta, a cinque anni dalla Liberazione, si riflette non solo sulla lotta antifascista, ma anche su quella “grande lotta pratica” che è stata la Resistenza.

Tra i relatori ci sono Luigi Salvatorelli, Piero Calamandrei, Giacomo Noventa: tutti maschi, ad eccezione di Anna Banti. Nel frattempo, l’anno prima, sono usciti due romanzi che raccontano le donne della Resistenza: L’Agnese va a morire di Renata Viganò e Dalla parte di lei di Alba de Céspedes. Ci vorranno decenni perché la storiografia riscopra il lavoro svolto dalle donne durante quei fatidici venti mesi.

Ci vorrà soprattutto il documentario di Liliana Cavani, che esce nel 1965, a tutti gli effetti la prima riflessione su donne e Resistenza e i movimenti femministi degli anni Settanta per riscoprire definitivamente il valore politico delle donne nella lotta resistenziale e, più avanti, negli anni Novanta gli studi di storiche come Anna Bravo e Annamaria Bruzzone per capire che “le donne hanno fatto per la Resistenza molto più di quanto la Resistenza non abbia fatto per loro”.

Di lì a poco Amelia Rosselli diventerà una poeta dalla voce inconfondibile. E il convegno è la prima occasione in cui lei, “figlia della guerra” come si definiva, partecipa a un momento di riflessione collettiva sul passato recente. A Venezia conosce Rocco Scotellaro, poeta, con lui stringe un’amicizia feconda e fondamentale per il suo avvenire letterario. In questi giorni ho letto Con l’ascia dietro le nostre spalle. Amelia Rosselli di Andrea Cortellessa, una biografia mignon della poeta uscita nella collana OILÀ dedicata alle storie di antenate “creative” del Novecento (e che  prende il nome da un verso della famosa canzone delle mondine, “La lega”). «Lucy» gli ha dedicato un puntata del suo podcast, I cardellini.

Leggendo mi sono domandata, inutilmente, perché questa poeta straordinaria non avesse mai scritto della Resistenza, lei che aveva una storia famigliare così drammatica di antifascismo. Senza dubbio, all’epoca del convegno il ruolo delle donne della Resistenza non era stato ancora visto e riconosciuto, anzi: era un rimosso. E come ci lascia intendere anche Cortellessa, Rosselli è riluttante all’autobiografia e farà di tutto per allontanare il suo passato, per “estinguere del sé / estinguere il verso che rima / da sé: estinguere persino me” (da Documento).

Del resto il racconto della Resistenza richiede, più che la parola poetica, uno sforzo documentario, di immagini e voci. Non a caso La Resistenza delle donne di Benedetta Tobagi (Premio Campiello 2023), il libro che ha colmato un’immensa lacuna, è corredato da una minuziosa ricerca iconografica. 

La Resistenza delle donne è un libro importante, tuttavia sono mancate le narrazioni romanzesche (o anche cinematografiche) sulla Resistenza delle donne. I romanzi di Viganò e De Céspedes, che per certi versi anticipano i temi della storiografia a venire, sono libri di settant’anni fa e mettono in scena due partigiane molto diverse tra loro: Agnese è una figura materna e rassicurante, diventata partigiana per senso di giustizia verso il marito rapito dai tedeschi, però lontana dalle partigiane giovani e innamorate della libertà. De Céspedes racconta la storia di una protagonista della Resistenza civile, una che lavora in radio, non una che imbraccia le armi.

Uno dei pochi lungometraggi a mettere in scena la Resistenza delle donne  è Libera, amore mio! di Mauro Bolognini, un film girato nel ‘73, bloccato dalla censura per due anni e uscito nell’indifferenza generale. Il manifesto del film ritrae Claudia Cardinale con un abito rosso scollatissimo, attorniata da tre uomini: a tutto farebbe pensare fuorché a un film sulla Resistenza. Libera, amore mio! parla di una donna, ispirata alla madre dello sceneggiatore, che aveva partecipato alla lotta partigiana e conosciuto carcere e torture: qui non si tratta di una “mamma” come l’Agnese di Renata Viganò, ma – scrive Benedetta Tobagi – “per la prima volta di un ritratto di una partigiana realistico e antiretorico”. Se da un lato nel film ci si allontana dallo stereotipo della donna rassicurante e partigiana per imitazione di padri o mariti, il manifesto conferma un altro cliché: quello della donna che non deve perdere la sua femminilità, anche se imbraccia le armi o diventa staffetta.

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Cinquant’anni dopo, a vedere le copertine di due romanzi usciti di recente e specularmente simili, viene da pensare che in fondo lo stereotipo è ancora valido: L’argine delle erbarie (Solferino), esordio notevole di Silvia Cavalieri (vincitore del Premio LetteraFutura) e I giorni di vetro di Nicoletta Verna (Einaudi). Entrambe le copertine  ritraggono il volto di una donna giovanissima, eterea e coperta da alcuni boccioli di fiore per Cavalieri, e velata per Verna. Di nuovo una femminilità esasperata, qui addirittura indifesa, elementi ben lontani dai temi trattati nei due romanzi.  Al netto delle motivazioni di marketing – peraltro abbastanza pigre nello sforzo di edulcorare la violenza da una parte ed esaltare la bellezza femminile anche in contesti bellici – i due romanzi  parlano di antifascismo.

Basta l’incipit per capire che siamo davanti a due storie dirompenti: “Quando Secchia straripò la Nadina era al sesto mese di gravidanza. Era il 27 agosto del 1934 e la pianura tornò a farsi acqua”. Inizia così L’argine delle erbarie, con il racconto dell’alluvione nella Bassa modenese e una pianura che diventa uno “smisurato stagno”: una terra di nessuno dove l’Armida, una giovane donna, cammina da sola sull’argine quando un uomo la aggredisce: “La smalta le trapassò le vesti sottili, spolte da ore. La sentiva impiastricciarle i capelli mentre scalciava furente con il residuo di forza che ancora non le era stato lavato via. […] Il puzzo di cagnusso che saliva dai suoi abiti ti mandava lo stomaco a rovescio”. I giorni di Vetro, di cui «Lucy» si è già occupata, allo stesso modo, comincia molti anni prima della Resistenza, ma siamo in Romagna, a Castrocaro. Era molto meglio prima, quando io non c’ero e non c’era nessuno dei miei fratelli, né i vivi né i morti. C’era solo mia madre che si rivoltava sul materasso del camerino e urlava: – Ammazzatemi, osta dla Madona, – e la Fafina rispondeva: – Sta’ zèta, ché chiami il diavolo, – e andò avanti cosí per tre giorni e tre notti, finché mia madre lanciò un grido feroce e venne fuori Goffredo, il primo dei miei fratelli morti”. Anche il libro di Cavalieri comincia prima della lotta partigiana e narra le storie di due bambine: Solidea, chiamata così dai versi di un canto anarchico e Liuba, la figlia dell’erbaria. Il risultato è romanzo-mondo, con una miriade di personaggi soprattutto femminili a comporre “una storia delle antenate, specie di quelle appartenenti alle classi subalterne”, come scrive l’autrice nella nota alla fine del romanzo.

“Dopo l’8 settembre del ‘43, gli uomini sono costretti a fare una scelta. Le donne no”, ha detto Nicoletta Verna intervistata da Giorgio Zanchini a Quante Storie su Rai 3. Sono settantamila le donne combattenti e trentacinquemila di loro fanno parte dei Gruppi di difesa della Donna, ma sappiamo che molte di più sono le donne che hanno fatto la Resistenza. Quasi tremila sono state fucilate o impiccate e soltanto diciannove partigiane vennero decorate nel Dopoguerra con la medaglia d’oro al valor militare. L’aver combattuto e “difeso la patria in armi”, secondo una definizione risalente alle Rivoluzione Francese assicura una volta per tutte il diritto di voto che era già stato dato alle donne nel 1926 ma poi subito tolto da Mussolini spiega Barbara Berruti, storica e direttrice dell’Istituto piemontese della Resistenza. 

In questi romanzi viene finalmente inscenato il conflitto di genere ai tempi della Resistenza. Quando ne L’argine delle erbarie una delle partigiane torna a casa con una copia di «Noi Donne» in cui si legge che il voto sarà esteso alle donne il marito risponde: “Le donne si esprimono al meglio dentro le mura di casa. È inutile che vi date tanto da fare per diventare quello che non siete”. La partigiana messa in scena da Verna ne I giorni di Vetro si chiama Iris ed è ispirata in parte a Iris Versari, una donna che partecipò alle Resistenza in Romagna. Iris nel romanzo è figlia di una maestra, ha studiato anche se da autodidatta ed è innamorata di un capobanda partigiano: per certi versi è emancipata, per altri una donna del suo tempo. “I ruoli di genere saltano, ma saltano solo per le donne”, dice Barbara Berruti, “per gli uomini non cambiano e anzi, appena finita la guerra, tutto torna alla normalità patriarcale. La consapevolezza di quell’esperienza straordinaria e le speranze di cambiamento che portava con sé si infrangono dolorosamente nei primi anni del Dopoguerra”.

Per rendere credibile il racconto delle antenate le due scrittrici si servono della lingua: un italiano intriso di termini dialettali nel caso di Verna, e una miscela musicale di espressioni dialettali e termini aulici per Cavalieri. Non è la prima volta: il lungometraggio sulla strage di Marzabotto, “L’uomo che verrà” di Giorgio Diritti, era recitato quasi interamente in dialetto, ma in questi romanzi si sente l’esigenza di dare uno spessore e una profondità attraverso a un linguaggio letterario nuovo. Perché la letteratura ha impiegato tanto a raccontare la Resistenza delle donne? “Per me è stato in parte naturale”, commenta Silvia Cavalieri. “Ho raccontato lembi di storie ascoltate da quando ero piccola, cucite con ricerche, studi e letture. In effetti tratta di epoche che stanno perdendo a poco a poco i loro ultimi testimoni, ma diventano finalmente raccontabili”. 

“Per rendere credibile il racconto delle antenate le due scrittrici si servono della lingua: un italiano intriso di termini dialettali nel caso di Verna, e una miscela musicale di espressioni dialettali e termini aulici per Cavalieri”.

In entrambi i libri c’è una necessità di emendare la memoria, introducendo elementi che toccano la sfera del femminile, della sorellanza, del lavoro di cura: quel mondo dove entrano anche i corpi.

Una novità di queste narrazioni, ad esempio, è il parallelo tra il sangue versato e il sangue mestruale, che compare a più riprese, come in questo passaggio de I giorni di Vetro:

“– Guarda se dovevo insozzarmi con questa lordura di femmine, – ripeté, e corse a lavarsi al catino, spurbiando la pelle con violenza, perfino con orrore, come a volersi levare di dosso un malocchio. Vetro aveva accoppato non so quanta gente, e non si contavano le volte in cui aveva tenuto le mani nel sangue. Ma il mestruo di una donna, non so il perché, non riusciva a sopportarlo. 

Con le gambe aperte osservai le lenzuola rosse. Il sangue mi pareva vita, come quello di Cristo, e piansi di gratitudine e di sollievo”. 

Il sangue, del resto, è una vox media: è morte e vita, è violenza ma anche creazione del mondo, apertura verso il femminile. La terza parte de “L’argine delle erbarie”, quella dedicata alla Resistenza, si intitola “Sangue”: di nuovo è sia quello dei soldati che macchia la neve della Pianura, sia quello mestruale. Quando uno dei personaggi femminili va a fare la mondina, un mestiere durissimo che ti esponeva alle violenze dei caporali, viene colta impreparata dall’arrivo delle mestruazioni: “Lì in mezzo alla palude pullulante di zanzare, la Rosina si domandava ora come avrebbe fatto. A casa le capitava spesso di stendere sia le pezze quadrate con la frangetta, cucite al telaio e portate in dote dalle sue cognate, sia quelle più grezze ricavate da vecchie lenzuola, che usava chi, come lei, non era ancora sposata. Per chiuderle si usavano due spille o una cordina”.

La Rosina, l’Armida, la Redenta, la Fafina, la Vittoria sono donne che portano semi di cambiamento, le loro azioni vanno spesso al di là delle cose che dicono. La loro forza coincide con il coraggio di aderire a una lotta che a volte nemmeno loro stesse capivano nemmeno fino in fondo. In un libro per ragazzi e ragazze uscito di recente, “Il giorno in cui cambiò ogni cosa” di Laura Pezzino, una ragazzina di 11 anni trova in baule i diari della nonna Irma, staffetta partigiana a soli 13 anni, grazie ai quali non solo ricostruisce le vicende del 1944 nel paesino dell’appennino Tosco-Romagnolo dove trascorre l’estate, ma riesce a convincere i suoi amici che bisogna avere la forza e il coraggio di schierarsi e all’occorrenza diventare “partigiani”. Intervistata da Ansa, Pezzino ha detto: “All’inizio, quando ho pensato a questa storia, non c’era la Resistenza. Poi volevo che questa ragazzina nell’estate in cui cambia tutto avesse contatto con altri modelli di donne oltre la madre depressa. […] Volevo trasmettere i valori della Resistenza in cui credo: la solidarietà, la collettività, il volersi battere contro le ingiustizie”. E naturalmente quella sarà anche l’estate della prima mestruazione.

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Nel suo TED Eddi Marcucci, che si è unita alla lotta delle donne curde dello YPI dal 2017 al 2018, spiega che cosa è “cura del conflitto”: “La maggiore parte delle nostre conquiste nei secoli provengono dal conflitto, e il conflitto positivo è una forma di cura. Oggi non distinguiamo più la violenza dal disaccordo, dal dissenso”.

Anche Giulia Siviero, autrice di Fare femminismo, un saggio unico nel panorama italiano in cui si parla di pratiche antagoniste, esperienze di sorellanza ma anche sovversione e gesti di libertà, ha spiegato l’importanza della “violenza” esercitata dalle donne, intesa come forza nel difendersi, resistenza, ben diversa dalla violenza maschile, agita dagli oppressori. Siviero mi ricorda anche che durante la Resistenza, attorno ai Gruppi di difesa, è nata nel 1945 quella che è la madre di tutte le associazioni femministe italiane, l’UDI (Unione Donne Italiane) da cui poi nacque la rivista «Noi Donne”. L’esperienza della lotta non finisce con la fine della guerra, perché oggi sappiamo bene quanto sproporzionato è stato il “presagio di libertà” per le donne della Resistenza, che si trovarono a imbracciare le armi, vivere in banda con gli uomini e lottare per degli ideali, ma poi poco dopo si ritrovano chiuse in casa, a vedersela con i loro mariti. Scrive Tobagi:  “Il fascismo è finito, ma il patriarcato è ancora in gran forma”.

Valentina Pigmei

Valentina Pigmei è giornalista e consulente editoriale. Ha fondato l’associazione femminista “La città delle donne” e collabora con diverse testate.

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