Puntare lo sguardo dove è più buio - Lucy
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Puntare lo sguardo dove è più buio
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Letto, visto, ascoltato

Irene Graziosi

Puntare lo sguardo dove è più buio

Due protagoniste sospese tra vita e morte, una lingua a che oscilla tra dialetto e invenzione fiabesca: nel suo ultimo romanzo Nicoletta Verna riesce a raccontare l’orrore del nostro passato coloniale, e i sentimenti che hanno venato la Resistenza, senza cedere alla retorica.

Nicoletta Verna non è una scrittrice che si ripete.

Redenta nasce a Castrocaro, in Romagna, nel giorno del delitto Matteotti. I fratelli venuti prima di lei sono morti in fasce, le sorelle venute dopo sono vive e sane. Redenta abita il mondo fluttuando tra i morti e i vivi, è questo il sacrificio che la sua nascita ha implicato, la scarogna, la sventura che Redenta indossa con abnegazione e che si fa infine visibile agli occhi di tutto il paese quando dopo la poliomielite rimane con una gamba matta e una visione aerea sui fatti del mondo. 

Taciturna, mite e timida, l’unico a vederla davvero è l’amico Bruno, che la protegge fin da quando sono bambini, la cui realtà inizia e termina dentro i confini di Castrocaro. In paese è inimmaginabile cosa implicherà il fascismo oltre i pochi uomini che si arruolano volontariamente per andare a commettere atrocità in Eritrea, spacciandole per atti di eroismo.

Solo Bruno pare essere, fin dal principio, prima della guerra, l’unico a intravedere l’ingiustizia e i soprusi, immune alla naturale tendenza umana a evitare di vedere il dolore, pure quando questo si staglia all’orizzonte, non così distante, facendo capolino dalla propaganda che va snebbiandosi col passare degli anni.

Dopo averle promesso di prenderla in sposa, Bruno però scompare dalla vita di Redenta, lasciandola a un’esistenza da storpia, solitaria e vuota; niente in confronto a ciò che la attenderà quando suo padre, arruolatosi anni prima e partito per l’Eritrea, torna dall’Africa seguito da Vetro, chiamato così per il suo occhio trasparente che ha sostituito l’originale, perso durante una strage di deboli, una delle tante che il nostro Paese fa ancora un’oscena fatica a guardare. Vetro prende in moglie Redenta, e da quel giorno la donna impara cosa sono il dolore e la paura, insieme al vuoto sterminato sul quale galleggiano.

“Solo Bruno pare essere, fin dal principio, prima della guerra, l’unico a intravedere l’ingiustizia e i soprusi, immune alla naturale tendenza umana a evitare di vedere il dolore”.

Iris invece è una donna bella, sana, e letterata. Si trasferisce a Forlì dove lavora nella villa di una coppia di marchesi e dove incontrerà l’uomo di cui si innamorerà e che la coinvolgerà nella Resistenza, che vede sparuti gruppi di uomini e donne avventurarsi tra i boschi romagnoli per ribellarsi alla dittatura e alla guerra, per lottare per una libertà impossibile da scorgere, ma di cui qualcuno, in futuro, forse potrà godere.

L’incontro tra Iris e Redenta sarà uno scambio, reso possibile dalla natura di Redenta, il cui destino, fino alla fine, sarà quello di essere tramite silenzioso fra mondi diversi: tra il mondo dei fascisti e quello dei partigiani, tra chi vede la realtà e chi la nega. 

Nicoletta Verna è una creatura strana. Nata nel 1976 a Forlì, ha studiato scienza delle comunicazioni concentrandosi sulle dinamiche dei mass media, studio di cui è circonfuso il suo esordio Il valore affettivo, narrato in prima persona come Giorni di Vetro, attraverso la voce di Bianca, una ex velina della televisione berlusconiana afflitta da un senso di colpa oscuro che percorre i suoi pensieri, insediandosi infine nel suo corpo e assumendo la forma dell’impossibilità di accedere alla maternità.

I due romanzi sono diversissimi, eppure alcuni elementi ricorrono in entrambi: le voci nitide delle protagoniste di Verna, il tema della colpa, e addirittura la violenza sugli animali da fattoria – ne Il valore affettivo la scena della pista del maiale a opera del fidanzato della protagonista, nei Giorni di Vetro Bruno e Redenta assistono all’uccisione di una vacca che ha appena sgravato – una violenza naturale e storicamente giustificabile, ma che si fa presagio di qualcosa di più feroce che tenta di nascondersi sotto le spoglie dell’abitudine: è così che si apre la porta al Male. Si perde un poco alla volta la capacità di vedere le azioni proprie e altrui oltre la narrazione menzognera che siamo in grado di intessere per non sentirci cattivi. 

Leggendo, mi sono segnata alcune delle parole che si incontrano nella lingua di Redenta: svettole, scapuzzando, pidria, troccoli, braghira, quaioni, sgumbiati, invornita, gazzamaia. Ripetendole ad alta voce mi sono chiesta se, celate nella familiarità del dialetto romagnolo, non si rintanassero parole inventate dall’autrice.

La ricchezza lessicale di Redenta conduce però inevitabilmente a un’altra constatazione. Questo non è un romanzo perfetto. Se nella prima parte la lingua è tinta di dialetto, via via che Redenta racconta la sua storia la sua parlata si stempera in un italiano meno variopinto. C’è poi un certo disequilibrio strutturale tra le due voci protagoniste: a Redenta vengono dedicate pagine e pagine, i suoi parenti hanno la dignità piena dei personaggi, lo stesso non è concesso a Iris, la cui vita occupa troppo poco tempo perché la sua divenga una voce pienamente protagonista, ma non ne occupa neanche troppo poco per risultare un personaggio che, come gli altri, orbita attorno a Redenta. 

Eppure questi squilibri non scalfiscono la potenza di questo romanzo, che riesce nell’impresa quasi impossibile di raccontare la Resistenza sfuggendo alla retorica. Per farlo, Verna segue le tracce di Fenoglio: narra gli esseri umani con le loro piccole passioni, i loro amori, le loro insicurezze, e sono queste ultime più che il coraggio a fungere da leva per combattere. C’è chi si arruola per amore, chi per nevrosi, chi per disperazione. Mai nessuno, anche chi sostiene altrimenti, sacrifica il proprio futuro per ideali astratti, che poco hanno a che fare con la natura sporca e misera di chi non ha più nulla per cui vivere.

È questo forse il segreto di questo libro: mostrare sentimenti così alti e lontani da noi – il coraggio, il sacrificio – e quindi inimmaginabili per la nostra epoca senza tentare di delinearli nella loro purezza, ma rendendoli effetti collaterali di sentimenti molto più piccoli (eppure enormi) che invece sì, siamo ancora in grado di provare: la gelosia, l’amicizia, l’amore. 

Le due voci narranti non sono eroiche, non sono cattive, non sono straordinariamente coraggiose. Redenta, in fondo, è un’emarginata che accetta di buon grado il suo destino passivo. Viene guardata da tutti come fosse una ritardata, e lo sguardo esterno non è compensato da una segreta brillantezza interiore. Redenta è una donna ancorata al proprio corpo che le concede scarsa mobilità, che la costringe a osservare e subire, che la incatena alla paura. Iris è una donna innamorata, le sue azioni, anche quelle più avventate, sono goffe, imperfette. Non ama la violenza, prova addirittura a sabotarla, non riesce a lasciare andare una forma di civiltà in battaglia, che le costerà cara.

Sono entrambe donne che caratterialmente non hanno nulla di eccezionale, ma che vengono animate dalla Storia, come fossero varchi, appunto, attraverso cui gli eventi possono fluire senza che loro siano in grado di modificarli, se non alla fine, quando l’una risveglia la dignità dell’altra, che in cambio le concede invece il coraggio, che altro non è che il territorio che si allunga oltre la paura, nel momento in cui si accetta il proprio destino.

Queste idee mi venivano da che mi ero risvegliata con la scarogna. Sentivo che ero diversa da prima, che vedevo le cose in modo differente: mi sembrava di guardarle dall’alto, come i miei fratelli morti, o la Madonna o il Signore. Forse ero diventata anch’io mezza morta e mezza viva, e adesso per miracolo scorgevo tutto il bello e il brutto, il male e il bene, la fame, l’ignoranza, la pietà e la matteria degli uomini, chiari e nitidi. E mi accorgevo che tutte queste cose non erano giuste né sbagliate, importanti né guaste. Succedevano e basta, senza un perché preciso. E non erano da capire, solo da accettare. 

Verna punta il suo sguardo sulla colpa italiana in Eritrea ed Etiopia, e sulle carneficine ingiustificabili commesse dagli Italiani in quei paesi che, oltre a essersi macchiati del sangue di migliaia di uomini, hanno mostrato senza vergogna come vedessero le donne nere conquistate. Uomini schiavisti e violenti, come Indro Montanelli, i cui nomi intitolano parchi e i cui corpi sono riprodotti in statue che testimoniano il rifiuto italiano di guardare la violenza da cui proveniamo e che, finché rimarrà segregata nelle pieghe più buie del nostro passato e della nostra Storia, non saremo mai in grado di affrontare.

“C’è chi si arruola per amore, chi per nevrosi, chi per disperazione. Mai nessuno, anche chi sostiene altrimenti, sacrifica il proprio futuro per ideali astratti”.

Le porzioni del romanzo dedicate a Vetro, alle campagne in Africa, sono le più cruente, e qui la lingua cambia di nuovo. Del resto, come si può raccontare il dolore fisico, oltre a quello psicologico, senza scivolare nel sentimentalismo? sembra essersi chiesta l’autrice, che ha sciolto il nodo giocando in levare. Durante gli abusi di Vetro la frase si fa più scarna, rimangono solo azioni senza interpretazioni: sta a chi legge il compito di ricucire le ferite.

Questo di Verna è un romanzo grande, che ha l’ambizione di ricordare la Storia guardandola in tralice, come la guarda Redenta, testimone involontaria dei venticinque anni più cupi del nostro Novecento. È anche un canto d’amore (e forse un’invocazione al perdono?) per i luoghi dai quali Verna proviene, delle colline verdi e gialle che circondano Forlì, dalla Romagna al centro di una lotta tra il Bene e il Male i cui echi sono giunti fino a noi, anche se oggi, forse per la nostra incapacità di rispondergli, sembrano essersi affievoliti, o forse sono stati semplicemente sovrastati da discorsi propagandistici e sciolti nel tempo che da sempre ci prende in giro facendoci credere di essere uomini e donne diversi da quelli che eravamo appena cento anni fa. 

Irene Graziosi

Irene Graziosi è autrice, scrittrice e responsabile editoriale di Lucy. Il suo ultimo romanzo è Il profilo dell’altra (Edizioni E/O, 2022).

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