Roberto Paura
Centralismo e collegialità, potere curiale e potere episcopale, clericalismo e sinodalità: l’elezione di Papa Leone XIV è figlia di antiche tensioni che attraversano la Chiesa. Perché essa cambi davvero, servono coraggio e determinazione.
Decifrare la direzione di un pontificato ai suoi esordi è un’arte difficile. In alcuni casi, sul nuovo pontefice si sa già abbastanza da non incorrere in sorprese, come accadde con il pontificato di Joseph Ratziger (ma chi avrebbe potuto scommettere sulle sue dimissioni?); ma anche questa è una tentazione rischiosa: Pio XII fin dal nome, e dal ruolo di Segretario di Stato di Pio XI, poteva sembrare una fotocopia del suo predecessore, ma prese posizioni politicamente diverse; quello di Giovanni XXIII doveva essere un tranquillo pontificato di transizione, e invece si arrivò al Concilio Vaticano II.
Le interpretazioni intorno a Leone XIV, al secolo Robert Francis Prevost, sono particolarmente complesse: perché, nonostante un ruolo apicale nella curia romana assunta negli ultimi due anni, di lui si sa pochissimo e quel poco che si sa non aiuta. Ma, se hanno ragione quelli che dicono che si sceglie un nome e non un programma, è anche vero che i pontefici sono spesso scelti in base a ciò che i cardinali si aspettano che faranno. Dunque, cosa si aspetta il collegio cardinalizio da Leone XIV? E cosa possiamo aspettarci, di conseguenza, per la Chiesa che verrà?
Il lungo conflitto tra conciliarismo e autocrazia
Nel 1414, quando si aprì il Concilio di Costanza, regnavano tre papi: Gregorio XII, a Roma; Benedetto XIII, ad Avignone; Giovanni XXIII, a Pisa (l’invalidazione della sua elezione avrebbe poi permesso ad Angelo Roncalli di riutilizzarne il nome nel 1958). Tre anni dopo, erano stati tutti costretti a dimettersi. A Costanza, i vescovi decisero di commissariare in via definitiva il potere papale: il governo della Chiesa, decretarono, non spettava più al papa, ma al Concilio, che i successivi pontefici avrebbero dovuto convocare ogni dieci anni. Il papa che uscì da quel Concilio, Martino V, espressione della maggioranza conciliarista, si impegnò in effetti a convocare durante il suo pontificato altri due concili; ma i suoi successori abbandonarono gradualmente la rivoluzione di Costanza, aprendo la strada alla restaurazione della monarchia papale.
Quando, oltre cinquecento anni dopo, nel 1962, i vescovi del mondo si riunirono a Roma per il Concilio Vaticano II, quel precedente fu rivangato. Nel frattempo lo Stato pontificio era crollato, ma Pio IX ne aveva mitigato le conseguenze imponendo il dogma dell’infallibilità papale, che accentrava ulteriormente i poteri del pontefice. Pio XII, nel 1950, si era avvalso di quel potere per proclamare ex cathedra il dogma dell’Assunzione di Maria in cielo. Negli ultimi anni non aveva nominato nemmeno un cardinale, lasciando vacanti numerosi incarichi di curia e avocando a sé anche i poteri di Segretario di Stato: il collegio cardinalizio che elesse Roncalli era composto da appena una cinquantina di membri.
In questo clima asfittico e autocratico, l’annuncio del nuovo papa di indire un concilio ebbe lo stesso effetto della convocazione degli Stati Generali in Francia nel 1789, e le conseguenze furono analoghe: nonostante i tentativi dei cardinali di curia di pilotare il Concilio nella direzione da loro voluta, i vescovi venuti da tutto il mondo ne assunsero energicamente la guida. Lo spirito di Costanza tornò in un concetto, la “collegialità episcopale”, che i padri conciliari intendevano contrapporre al primato papale: non era forse vero che Pietro, il “primo degli apostoli”, aveva gestito la prima comunità cristiana insieme agli altri seguaci di Gesù? Non era dunque corretto affermare che il papa doveva essere il “primo dei vescovi”, e non il loro capo? Ma il progetto di fare del papa un primus inter pares, sostituendo al governo monarchico della Chiesa un governo collegiale, non riuscì: Paolo VI impose che la parte della costituzione Lumen Gentium votata dal Concilio su questi argomenti fosse preceduta da una “nota esplicativa”: “Il romano Pontefice nell’ordinare, promuovere, approvare l’esercizio collegiale, procede secondo la propria discrezione, avendo di mira il bene della Chiesa”.
Il papa restava dunque titolare di completa discrezionalità nell’esercizio del suo potere, lasciando che il concetto di “collegialità episcopale” fosse annacquato in un nuovo istituto: il sinodo. Come a Costanza si era deciso che i vescovi dovessero riunirsi in concilio ogni dieci anni, al Vaticano II si decise che dovessero riunirsi in sinodo ogni tre anni per discutere delle questioni di interesse generale della Chiesa, con carattere soltanto consultivo (tantum consultivum).
È intorno a questo problema che si deve leggere la storia recente della Chiesa cattolica. Una storia che parte da lontano e che evidenzia la forte tensione sempre esistente tra il vescovo di Roma e gli altri vescovi, tra centralismo e collegialità. Il Codice di diritto canonico emanato nel 1983 da Giovanni Paolo II ridusse significativamente i margini di manovra dei vescovi, potenziando ulteriormente il primato del papa. In questo senso, l’elezione di Francesco nel 2013 e la sua enfasi sulla sinodalità come approccio nuovo al governo della Chiesa rappresentarono un manifesto programmatico del suo pontificato, anche se in ultima analisi disatteso: Bergoglio si fece affiancare da un Consiglio dei Cardinali, il C9 (dal numero dei suoi membri), che però con l’andare negli anni venne convocato sempre più di rado e sempre meno ascoltato; mentre, nonostante l’ambizioso progetto del Sinodo universale celebrato tra il 2023 e l’anno successivo e il cui processo era stato avviato nel 2021 – una sorta di Concilio in piccolo – in seguito Bergoglio ha dovuto ammettere che la sinodalità è un principio “non così facile da mettere in pratica”.
In cerca di un movente
Quando si è affacciato alla Loggia delle benedizioni per il suo primo discorso, Leone XIV ha ripreso quel termine, “sinodale”, che ha subito fatto storcere il naso ai tradizionalisti, per i quali l’aggettivo ormai puzza di bergoglismo e di finto democratismo. Ma è prematuro parlare di discorso programmatico, per il quale bisognerà attendere il primo documento ufficiale (come fu l’Envagelii gaudium di Francesco nel novembre 2013). Tuttavia, è intorno a questo tema che occorre provare a interpretare l’elezione al soglio petrino di Robert Francis Prevost, un nome circolato con insistenza nei giorni immediatamente precedenti all’apertura del conclave, a dimostrazione che nelle lunghe discussioni durante le congregazioni generali i cardinali avevano iniziato a farsi un’idea precisa di chi e cosa andassero cercando. Di questo conclave di cui abbiamo avuto tanti indiziati e precisi identikit tracciati dai cardinali conosciamo ora il “colpevole”, ma non il movente. La scelta di Prevost, infatti, è molto più sorprendente di quanto possa a prima vista sembrare, per cui occorre cercare di addentrarsi nelle motivazioni profonde dei suoi elettori per cercare di capire la portata del suo mandato.
Solo apparentemente Prevost può essere fatto rientrare in una di quelle tre macro-categorie da cui vengono scelti i papabili: i “curiali”, cioè i prefetti a capo dei dicasteri della Curia romana; i “diplomatici”, ossia coloro che provengono dalla nunziatura apostolica; e i “grandi pastori”, ossia i titolari di arcidiocesi di grande peso. A quest’ultima categoria appartenevano Bergoglio, Wojtyla e Luciani; dalla categoria dei diplomatici provenivano Paolo VI, Giovanni XXIII, Pio XII, Pio XI, Benedetto XV. Alcuni di essi – Pio XII in primis, che fu Segretario di Stato – furono anche esponenti di punta della Curia. Curiale “puro”, ossia non proveniente dalla carriera diplomatica, era stato Ratzinger e ora anche Prevost. Tuttavia, a differenza di Ratzinger, curiale di lunghissimo corso (era stato nominato prefetto per la dottrina della fede nel 1981, ventiquattro anni prima di diventare papa), Prevost era stato nominato prefetto per il dicastero dei vescovi solo nel 2023, due anni prima dell’elezione al papato, venendo nominato cardinale nello stesso anno. La stessa scelta di Bergoglio di chiamarlo a Roma era stata accolta con sorpresa: rendere referente dei vescovi di tutto il mondo il titolare di una sconosciuta diocesi minore del Perù era una decisione che solo Francesco, con la sua attenzione per le “periferie esistenziali”, poteva assumere. Certo, prima di diventare vescovo Prevost era stato per un decennio a capo dell’Ordine di Sant’Agostino; ma gli agostiniani, con i loro scarsi 3.000 membri nel mondo, sono un ordine decisamente minore se paragonato alla potenza di fuoco dei Gesuiti (15.000 membri), al carisma dei Francescani (12.000), all’influenza dei Salesiani (13.000).
Prevost, del resto, era tutto meno che un nome noto negli ambienti del dibattito teologico. Senza scomodare il peso massimo che fu Ratzinger, anche Bergoglio e Wojtyla avevano al loro attivo alcuni scritti prima di diventare papi, mentre di Prevost si conosce solo la curatela di un volume che raccoglie la regola e le costituzioni degli agostiniani e un paio di articoli di circostanza. I cardinali elettori non potevano quindi avvalersi, per la loro scelta, di prese di posizione esplicite e ponderate sui principali temi al centro del dibattito. Le sue poche interviste dopo la nomina a prefetto restituiscono un profilo di bergoglismo osservante, il che aiuterebbe a spiegare la scelta di Francesco di volerlo in curia, magari pensando – come alcune voci affermano in questi giorni – di spianargli la strada alla successione. Se così fosse, dunque, Prevost sarebbe da considerarsi come un continuatore fedele e ortodosso della linea di Francesco. E tuttavia, non così è stato immediatamente percepito nei suoi primissimi atti, a partire dalla scelta anacronistica del nome. Ecco dunque che si è subito parlato di “pontefice di mediazione” tra le due anime, conservatrice e progressista, della Chiesa: il papa che indossa mozzetta e stola come i suoi predecessori (a differenza di Francesco), ma che conserva le scarpe nere da prete anziché quelle scarlatte papaline; il pontefice che forse tornerà nell’Appartamento apostolico, ma che da subito rompe il protocollo girando per Roma e incontrando i fedeli sorpresi per strada.
Verso un governo collegiale della Chiesa?
A mettere in discussione questa semplicistica interpretazione, e a fornire un indizio utile per decifrare il mandato di Leone XIV, è tuttavia la conferma che all’interno della Cappella Sistina la vera contrapposizione non è stata tra uno o più candidati progressisti e il candidato di bandiera dei conservatori (il cui nome non è ancora noto), ma tra Prevost e Pietro Parolin: entrambi, secondo diverse ricostruzioni, avrebbero condiviso circa una quarantina di voti nelle prime tre tornate, con Prevost sempre in vantaggio sul Segretario di Stato. La restante cinquantina di voti si sarebbe dispesa tra – verosimilmente – un candidato dei conservatori (25-30 voti) e altri nomi di rincalzo, tra cardinali italiani e asiatici. La contrapposizione tra queste due figure non era stata prevista e suggerisce l’esistenza di una linea di faglia ben più rilevante di quella ormai superata tra conservatori e progressisti, con i primi ridotti a una minoranza certo molto rumorosa, ma numericamente inconsistente. Parolin prometteva di essere un nuovo Paolo VI, che era stato il continuatore delle riforme di Giovanni XXIII ma in modo cauto e moderato, in grado di scontentare tutti, dagli anti-conciliaristi – che nell’istituzionalizzazione delle riforme del Concilio videro la fine della “Chiesa di sempre”–, ai riformatori che rimasero delusi dall’annacquamento della rivoluzione conciliarista e da testi anacronistici come la celebre e contestata enciclica Humanae vitae (1968).
Si tende a sottovalutare l’impatto negativo che ebbe il pontificato montiniano sulla Chiesa del XX secolo: a onta di una spiccata apertura al mondo che Giovanni Paolo II avrebbe poi realizzato compiutamente, Paolo VI apparve, nell’epoca della contestazione, un pontefice passatista, che allontanò dalla fede milioni di cattolici, molti dei quali si riconobbero nella Teologia della Liberazione duramente combattuta dal Vaticano. Il rischio di avere un Paolo VII dopo il pontificato di Francesco è forse apparso chiaro ai cardinali nel corso delle congregazioni generali: per il gruppo dei conservatori, che di certo gli ha negato il voto, il rischio maggiore era quello di veder tradotte all’interno del diritto canonico le riforme volute “a braccio” da Bergoglio, che in quanto tali potrebbero facilmente essere revocate; per i progressisti devono forse aver pesato i timori di un raffreddamento nell’entusiasmo dei fedeli nell’epoca dei gesti semplici e virali in grado di stare nei pochi secondi di un reel.
“Se hanno ragione quelli che dicono che si sceglie un nome e non un programma, è anche vero che i pontefici sono spesso scelti in base a ciò che i cardinali si aspettano che faranno. Dunque, cosa si aspetta il collegio cardinalizio da Leone XIV? E cosa possiamo aspettarci, di conseguenza, per la Chiesa che verrà?”
Ma allora perché Prevost? Il cardinale delle due Americhe rispondeva perfettamente al profilo tracciato dai cardinali nei giorni precedenti: un “pastore”, innanzitutto, più che un uomo di Curia (e si sa che Francesco anche per questo non impazziva all’idea di un papa Parolin, al quale aveva negato un incarico pastorale per tenerlo legato alla Segreteria di Stato ma anche per ridurne le chance di successione); un autentico “globalista” piuttosto che un pontefice eccessivamente legato alla cultura della sua area geografica (come nel caso di un italiano o un africano); un nome nuovo anziché un cardinale di lungo corso, per evitare le zavorre del carrierismo; un pontefice vicino ai poveri ma al tempo stesso in grado di rimettere al centro la figura di Cristo, come a più riprese era stato richiesto durante le congregazioni generali, con il velato rimprovero a Bergoglio di aver schiacciato troppo il magistero sull’aspetto politico del Vangelo. Se inoltre per due volte di seguito il pontefice è stato scelto tra gli appartenenti agli ordini religiosi anziché al clero secolare, in entrambi i casi da ordini che finora non avevano espresso papi, qualcosa vorrà dire sullo stato del clero contemporaneo.
Ma la linea di faglia che ha contrapposto – sebbene per poche votazioni – Parolin e Prevost riguarda il governo della Chiesa. Scriveva Giuseppe Dossetti, che fu perito teologo al Concilio Vaticano II, che la partecipazione all’attività di governo del papa non poteva avvenire attraverso la Curia, un mero organo amministrativo: “Si pone dunque il problema di una riforma radicale che implica una totale smobilitazione della Curia e la sua riduzione a un organo estremamente sottile e agile di studio, di controllo, ma di un controllo assolutamente sciolto e, nella massima parte dei casi, soprattutto soltanto successivo”, a favore di una autentica “partecipazione del collegio episcopale, l’unico sinodo che rappresenti davvero tutta quanta la Chiesa nella sua realtà più profonda”.
Negli anni successivi questa esortazione sembrò restare lettera morta, ma divenne la bandiera intorno alla quale si coagulò il fronte progressista e anti-curiale. Lo stesso Benedetto XVI, che più di tutti aveva favorito l’accentramento e il controllo soffocante della Curia, provò a riformarla senza tuttavia riuscirci, probabilmente perché vi era troppo immischiato, e si disse che fu il cardinale Martini a convincerlo a dimettersi perché il suo tentativo di riforma era fallito e occorreva passare la mano perché “qui non si riesce a fare più niente”. Bergoglio aveva ricevuto un mandato chiaro e preciso dai suoi fratelli cardinali, quello di una riforma radicale che da papa realizzò non tanto con la costituzione apostolica Praedicate evangelium con cui nel 2022 veniva in effetti riformato il governo centrale della Chiesa, quanto con il suo modo personale di governare bypassando tutti i corpi intermedi e instaurando un dialogo diretto tra papa e “popolo di Dio”.
Nel fare ciò, tuttavia, Francesco aveva paradossalmente esacerbato il problema che era stato chiamato a risolvere: tra quei corpi intermedi da bypassare c’erano infatti anche i vescovi e i cardinali, quelli chiamati a dare concretezza al progetto della sinodalità ma che nei fatti sono rimasti da parte, soggetti agli arbitrii del potere discrezionale di un pontefice che raramente ha tenuto conto delle istanze delle diocesi per le sue nomine, preferendo altri criteri. Ciò perché Bergoglio non ha mai davvero creduto in un governo collegiale che, se da un lato ridimensiona il potere petrino, dall’altro accentua la gerarchizzazione che pone i vescovi al di sopra di tutti ed estremizza i mali del clericalismo. La sua idea era piuttosto un’altra: porre tutti sullo stesso piano, appiattire le gerarchie, demolire gli apparati clericali, piuttosto che conferire ulteriore potere e autorità ai vescovi. Un progetto che però, per riuscire, ha bisogno di fondarsi esclusivamente sul governo carismatico del capo, senza alcuna speranza di istituzionalizzarsi. Un progetto, dunque, destinato a non durare.
Di tutto ciò Prevost ha beneficiato: il suo singolare percorso è la plastica rappresentazione del modus operandi bergogliano, che nell’affidare gli incarichi diocesani non ha quasi mai tenuto conto del rapporto tra vescovo e diocesi di appartenenza, e nell’affidare quelli del governo centrale non teneva in conto il tradizionale cursus honorum richiesto ai curiali. E tuttavia, c’è da credere che Leone XIV non seguirà affatto Francesco nella strada imboccata.
Il convergere dei voti su Robert Prevost si può spiegare solo con l’obiettivo del collegio cardinalizio di una maggiore partecipazione al governo della Chiesa. L’insistito riferimento, durante le congregazioni generali, al fatto che i cardinali non si conoscessero, è un rimprovero tacito alle rare convocazioni di Bergoglio. Negli ultimi giorni dell’agosto 2022 il papa decise di tenere una riunione straordinaria di due giorni con tutti i cardinali per parlare della riforma della curia, a porte chiuse: era la seconda volta (la prima nel 2014) che si teneva una simile riunione e qualcuno parlò di pre-conclave. Le cose non andarono benissimo: i cardinali lamentarono poco spazio per il dibattito e non mancarono discorsi apertamente critici nei confronti del progetto di sinodo universale convocato da Francesco, oltre che su altri punti. Qualche mese prima era circolata una lettera anonima firmata “Demos”, poi attribuita con certezza al cardinale George Pell (incarcerato per un anno per pedofilia, poi prosciolto da ogni accusa e richiamato da Francesco in Vaticano): una aperta critica al pontificato di Francesco che evidenziava i limiti di un governo autocratico e la necessità di una gestione collegiale del potere “con i suoi fratelli vescovi nelle diocesi locali”.
Il tema di un governo collegiale è tornato a dominare i discorsi durante le recenti congregazioni generali, dimostrandosi sorprendentemente trasversale: se una volta i conservatori difendevano a spada tratta l’autorità assoluta del papa contro le derive conciliariste di sapore progressista, oggi questa divisione è venuta meno. Il papato di Francesco è servito perlomeno a mettere d’accordo i due fronti: solo una maggiore partecipazione nel governo della Chiesa può evitare derive autocratiche come quelle che hanno caratterizzato i passati pontificati.
Le ombre del clericalismo
È questo, essenzialmente, il mandato affidato a Prevost: rispetto al governo curiale che Parolin avrebbe portato avanti, un governo episcopale da parte di un vescovo delle periferie, che dei vescovi è stato il responsabile come prefetto dell’apposito dicastero. Ma sulle sue forme tutto è lasciato nelle mani del nuovo papa. Il rischio maggiore è stato espresso in un recente numero della rivista progressista Concilium dedicato ai temi della sinodalità: “Se la gerarchia clericalizzata maschile continua a costituire l’asse del cattolicesimo globale, simili evoluzioni non porterebbero che a cambiamenti di facciata nei modi di essere chiesa”. Francesco aveva identificato in questo “gerarchicalismo” quella che il teologo americano Richard Gaillardetz ha definito “una cultura ecclesiastica ossessionata dall’‘adescamento’ e dal carrierismo”, che “ha a sua volta generato e promosso una perniciosa, ubiqua cultura clericale” e, tra le altre storture, ha permesso la copertura dei diffusissimi casi di pedofilia.
“Prevost, del resto, era tutto meno che un nome noto negli ambienti del dibattito teologico. Senza scomodare il peso massimo che fu Ratzinger, anche Bergoglio e Wojtyla avevano al loro attivo alcuni scritti prima di diventare papi, mentre di Prevost si conosce solo la curatela di un volume che raccoglie la regola e le costituzioni degli agostiniani”.
Per riuscire a realizzare compiutamente la sinodalità occorrerebbe perlomeno ripristinare la prassi della Chiesa antica che prevedeva che i vescovi fossero eletti dai fedeli, anziché essere nominati dall’alto e spesso trapiantati da diocesi diverse: un principio pericolosamente democratico, certo già all’epoca non privo di storture (la possibilità di “comprare” i voti per l’elezione), ma basato sull’idea che i fedeli laici devono essere chiamati in causa nel governo della chiesa locale come di quella universale. Difficilmente vedremo qualcosa del genere nei prossimi anni. E tuttavia, se si guarda alle istanze di rinnovamento radicale che arrivano dalla Germania, una sinodalità solo apparente rischierebbe di minare l’unità dell’intera Chiesa.
Disse una volta il cardinale Léon-Joseph Suenens, uno dei protagonisti del Vaticano II, che la decisione dei padri conciliari di rovesciare l’ordine dei capitoli della Lumen Gentium “trattando innanzitutto della totalità della chiesa come popolo di Dio e poi della gerarchia come servizio di questo popolo” era stata una rivoluzione copernicana. Toccherà a papa Leone XIV, che nel discorso ai cardinali dopo la sua elezione ha promesso di proseguire sulla strada del Concilio Vaticano II, decidere le forme che assumerà la proposta di una condivisione del potere tra vescovo di Roma e vescovi del mondo, tra urbe e orbe, ossia il volto della Chiesa che verrà.
Roberto Paura
Roberto Paura è giornalista scientifico e culturale. Dirige la rivista «Futuri» ed è vicedirettore di «Quaderni d’Altri Tempi».
newsletter
Le vite degli altri
Le vite degli altri è una newsletter che racconta di vite che non sono la nostra: vite straordinarie, bizzarre o comunque interessanti.
La scriviamo noi della redazione di Lucy e arriva nella tua mail la domenica, prima di pranzo o dopo il secondo caffè – dipende dalle tue abitudini.
Contenuti correlati
© Lucy 2025
art direction undesign
web design & development cosmo
sviluppo e sistema di abbonamenti Schiavone & Guga
00:00
00:00