Al Santarcangelo Festival va in scena il mondo - Lucy
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Mariachiara Rafaiani

Al Santarcangelo Festival va in scena il mondo

Giunto alla sua 54esima edizione, il più antico festival italiano dedicato alle arti della scena non smette di porsi domande sul presente in cui viviamo. Attraverso teatro e performance si cercano delle risposte e, soprattutto, si impara a stare assieme nel rispetto e nel dialogo con l’altro.

Il rito è la forma più antica che l’uomo ha adottato per raggiungere un altrove, per dividersi dalle altre specie che abitano il pianeta e con cui ha condiviso la sua storia evolutiva. Là dove nasce il rito nasce anche il teatro, che del rito è intenzione fattuale, e quest’origine ha radici antichissime, che affondano nel terreno incerto della preistoria, dove intravediamo qualcosa e non vediamo mai davvero. 

Sembra che sia stato Tespi a fondare il teatro occidentale: giunto dall’Icaria ad Atene, trasportava su un carretto i primi attrezzi di scena – arredi scenografici, costumi e maschere teatrali. Su carri pronti a trasformarsi in spazio scenico si muovevano anche i Filiaci alla fine del V sec. a.C., attori professionisti provenienti dalla Magna Grecia; anche loro indossavano maschere e costumi di scena, e per i personaggi maschili lunghi falli erano appesi ai costumi, in vista o coperti da una calzamaglia. Il teatro è prima di tutto teatro, ossia azione e mimica, come scrive Cesare Questa, e alla sua origine è soprattutto movimento. Per natura intrinseca è un evento che può essere replicato – anche se mai identico – e con vocazione peregrina.

Gli spettacoli non vivono ancora oggi sotto l’egida di una sola città e per il piacere di un solo pubblico: vogliono girare, di palcoscenico in palcoscenico, di pubblico in pubblico, di città in città. Un testo teatrale è destinato a resistere nei secoli, cambiare il suo idioma, affrontare molteplici interpreti.  

Il teatro è movimento continuo. Questo movimento, da anni, avviene anche in Romagna. 

Al Santarcangelo Festival va in scena il mondo -
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Il Santarcangelo Festival, dove sono arrivata nel pomeriggio del giorno inaugurale della sua 54esima edizione, mi ha dato subito l’impressione di essere una realtà capace di trasformare la città che lo ospita, Santarcangelo di Romagna, e di contribuire al rinnovamento delle discipline che accoglie, in un dialogo continuo con il pubblico.  

Ricevuta la coloratissima borsa del Festival, in materiale riciclato, c’è subito modo di bersi un bicchiere di vino con Michele, che di questo festival è un fedele frequentatore: “Quando vengo qui stacco davvero, è come se entrassi in un altro mondo. Mi piace la comunità che ogni anno si ritrova qui, per condividere idee e impressioni, e per passare assieme il proprio tempo”.

L’estate, d’altra parte, è una stagione molto ricca di festival teatrali. Solo per citarne alcuni: nel primo fine settimana di luglio ci sono Urbino Teatro Urbano, che propone anche Fai il tuo teatro!, una serie di workshop dedicati a chi vuole rendere l’organizzazione di simili eventi il proprio lavoro; il Pompeii Theatrum Mundi, che si svolge in in una cornice delle più ammalianti, il Teatro Grande di Pompei; e lo storico Festival dei Due Mondi, a Spoleto; sempre a luglio a Sansepolcro inizierà il Kilowatt Festival, quest’anno dedicato alle Moltitudini. Il teatro è insomma più vivo che mai: forte è il suo impatto sulla realtà, e folta la comunità che intorno a esso si raccoglie.

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Il Festival di Santarcangelo continua il suo lavoro dal 1971, e quest’anno ha scelto come titolo Mentre siamo qui, aprendo una riflessione sul tempo presente dell’evento, ma invitando, in questo complesso periodo storico, anche a porsi la domanda: mentre siamo qui, cosa succede nel mondo?

A Santarcangelo negli anni si sono esibiti Dario Fo e Franca Rame, Giorgio Gaber, Socìetas Raffaello Sanzio, Mario Martone, Jerzy Grotowski, i Magazzini Criminali, Giovanni Testori e Franco Branciaroli e molti altri. È un luogo, insomma, dove è stata scritta una pagina importante della storia del teatro, e dove soprattutto sono state teorizzate un’idea di comunità e di società possibili, in un costante dialogo con le forze culturali del territorio.

Al brindisi inaugurale nella storica piazza di Santarcangelo, fatto rigorosamente con bicchieri riutilizzabili, (per i più solerti, anche nelle prossime edizioni) il direttore artistico Tomasz Kireńczuk mi dice: “La cosa importante è ripensare al Festival come esperienza, non come evento, per orientare le riflessioni sulla natura e sul senso di un festival: che cos’è un festival oggi? Perché farlo? Se parliamo di esperienza, parliamo di una pratica in cui gli artisti possono incontrare il pubblico e relazionarsi a esso in modo molto profondo, condividendo una riflessione critica sulla realtà che abitiamo e le proprie aspirazioni su quella in cui vivere. La cosa importante è non fermarsi all’aspetto privato dell’esperienza – che pure è centrale e importante – tra lo spettatore e la performance, ma pensare al mondo che c’è fuori di qui, con tutte le sue complessità e le sue problematiche, che vengono esplorate nei lavori degli artisti”.

Il programma si apre con lo spettacolo Zona de derrama di Catol Teixera, performer e coreografa brasiliana, nella suggestiva cornice di Parco Baden Powell. Mentre il pubblico prende posto Teixera canta, avvicinandosi agli spettatori e cercando di catturarne lo sguardo, mentre gli altri due interpreti iniziano a muoversi nello spazio-palco, una piattaforma bianca che si erge in mezzo al prato. Segue una danza, che è un inno alla transizione, ai confini che possono essere superati o meglio, che andrebbero oltrepassati.

Mentre il vento soffia sugli spettatori e tra gli alberi che fanno da sfondo alla performance, i movimenti e le intenzioni in scena divengono un tutt’uno con la natura circostante, che fa da cornice e controcanto sonoro.

“Gli spettacoli non vivono ancora oggi sotto l’egida di una sola città e per il piacere di un solo pubblico: vogliono girare, di palcoscenico in palcoscenico, di pubblico in pubblico, di città in città”.

Sempre incentrata sui movimenti del corpo come veicolo significativo, è la performance Lessons for Cadavers di Michelle Moura, artista brasiliana che con il suo lavoro indaga il  movimento, la parola e il suono,  manipolandoli al punto da renderli innaturali, artificiali. Questa volta siamo al chiuso, nel Teatro del Lavatoio, e la sala è gremita.

Il linguaggio scenico messo in scena dall’esibizione è iperbolico, portato  all’eccesso attraverso un’espressività forzata e grottesca, che reinterpreta gli aspetti terrificanti, assurdi e ridicoli della condizione umana. I tre performer invadono il palco incarnando lo stupore, il panico, la violenza e la fragilità di una società sul cui sfondo incombono le ombre dell’estrema destra. Qui non mi accompagna il suono della natura, ma il respiro profondo della signora che, accanto a me, si sta facendo un profondo sonnellino.

Sulla scelta di privilegiare una forma di sperimentazione del corpo più che della parola, il direttore artistico mi dice: “Non è stata una scelta a priori. Io credo molto nella forza del corpo umano perché, a differenza del linguaggio verbale, è più difficile da fraintendere, in quanto universale, più spontaneo, meno mediato”.

Il corpo è centrale a Santarcangelo, sia quello degli artisti sia quello dei partecipanti. Guardando però i “non addetti ai lavori”, che con curiosità partecipano alla proposta artistica del Festival, mi sono chiesta se il linguaggio verbale non sia una forma comunicativa più democratica per chi del mondo della performance non padroneggia la grammatica. Ma, in fondo, la performance teatrale non per forza si comprende e deve essere compresa – piuttosto la si riceve, come un regalo.

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Tra uno spettacolo e l’altro, la cittadina, che è un bellissimo borgo storico, è estremamente viva: molti camminano con in spalla le borse colorate del Festival e in mano i programmi, che sfogliano comodamente seduti al ristorante o al bar. Le performance che si svolgono nelle strade e nelle piazze, a cui si può assistere senza biglietto, raccolgono folte schiere di passanti, pubblico e curiosi, e le bambine e i bambini le guardano con incantato.

Al Festival di Santarcangelo mi ritornano in mente le parole di Peter Brook: “Il teatro è in crisi per gli stessi motivi per cui la società è in crisi: perché la società non affonda le sue radici in nessuna forma di desiderio, fede o affermazione da tutti condivisa e accettata, cosicché i modelli di teatro che possiamo scoprire – riprendendoli dal passato o da diverse parti del mondo, ogni volta che in una piccola comunità si verifica un evento che le è organico e le appartiene – cercano tutti di far scattare qualcosa che possa essere vissuto in comune.

Lo scopo del teatro è di creare degli eventi vivi. Semplicemente. Si tratta di creare un evento nel quale una serie di frammenti si ricomponga all’improvviso… Il teatro ha preso l’avvio in una comunità che, per le leggi naturali che agiscono in ogni comunità, si è gradualmente spezzettata, finché tutti i suoi membri sono entrati in un modo o nell’altro in conflitto – un conflitto cruento, nascosto o magari quasi amichevole – , ma si è gradualmente frammentata. In certi momenti, questo mondo spezzettato torna a unirsi, e per qualche tempo può riscoprire la meraviglia della vita organica. La meraviglia di essere uno”.

È proprio la meraviglia di essere uno, assieme, quella che si prova a Santarcangelo, sentendosi parte di una comunità. Un evento vivo, appunto. Anziani, giovani e bambini, persone che fanno lavori diversi, che hanno idee e vite diverse, lasciano la loro quotidianità e si incontrano qui per partecipare ancora una volta a questo rito collettivo che va avanti dai tempi più antichi.

Gli spettatori del Festival con cui parlo sottolineano una  peculiarità comune: è un’esperienza, una vera esperienza, proprio come ha detto Tomasz Kireńczuk – è la possibilità di accedere a una proposta artistica che generalmente non si ha occasione di vedere. E soprattutto: ci si incontra, si parla con gli artisti, ci si confronta.

La giornata si chiude con il dj-set IMBOSCO, in un grande tendone da circo immerso tra gli alberi; i corpi si uniscono, si muovono, ballano, coronamento, per oggi, dello spirito dionisiaco che fino al 15 luglio animerà il borgo. Il teatro è infatti anche una festa.

Alla festa la comunità locale è massimamente coinvolta, ragazze e ragazzi in tiro, o in tenuta da rave, quarantenni e giovanissimi, mamme che timorose cercano di controllare dai margini del tendone i figli che si muovono a ritmo di musica.

Una ragazza con delle stupende e luccicanti ali da farfalla sulla schiena mi dice di non poter seguire gli spettacoli a causa del lavoro ma che le serate di Santarcangelo sono un appuntamento a cui viene ogni anno, ogni volta indimenticabile. Sotto le luci del grande tendone da circo i suoi occhi brillano.

Incontro anche uno studioso di letteratura cristiana che è appena arrivato da Bari per seguire il Festival su consiglio degli amici che sono con lui, e che negli anni hanno cercato di non mancare mai l’appuntamento. Ogni anno, mi dicono, lasciano Santarcangelo con nuove idee, nuovi artisti da seguire, e nuovi amici.

Al Santarcangelo Festival va in scena il mondo -
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Un momento, quello del dj-set, che supera tutte le barriere e che sembra quasi rappresentare un atto fisico di resistenza, il superamento di una barriera. La festa può iniziare, dichiara il cartellone all’ingresso del bosco, solo quando razzismo, sessismo, abilismo, grassofobia, omofobia, transfobia e fascismo finiscono.

Le performance che si sono susseguite durante la giornata e quel muoversi ritmato dei corpi nella notte, divengono allora anche azione e testimonianza politica, un solco nel presente, perché, come scrive Alain Badiou: “Il teatro e la politica continuano: possono o meno esistere, ma non possono finire”. 

Tutte le foto che accompagnano questo pezzo sono di Pietro Bertora.

Mariachiara Rafaiani

Mariachiara Rafaiani è laureata in filologia classica e medievale e scrive poesie. Alcuni dei suoi testi sono usciti per diverse riviste.

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