Alle domande si arriva col linguaggio, alle risposte con l’inconscio: "Stella Maris" di Cormac McCarthy - Lucy
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Nicola Lagioia

Alle domande si arriva col linguaggio, alle risposte con l’inconscio: “Stella Maris” di Cormac McCarthy

Cosa si nasconde dietro il mondo sensibile? Può una storia nascere da una mancanza? Come il precedente "Il passeggero" anche "Stella Maris" è un grande romanzo sul linguaggio; la forma che, da sempre, l’uomo ha escogitato per comprendere l'enigma dell'esistenza e i suoi sentimenti.

Il 27 ottobre del 1972 Alicia Western, compiuti i vent’anni, si consegna a una casa di cura per pazienti psichiatrici del Wisconsin denominata Stella Maris. Ci è arrivata in autobus, senza bagaglio. È una dottoranda in matematica, le è già stata diagnosticata una schizofrenia paranoide con allucinazioni visive e uditive. La sua domanda di ammissione viene accolta. Alicia entra nella struttura. È qui dentro che Cormac McCarthy ambienta la seconda parte della diade cominciata con Il passeggero

“Pensavo che magari le andava di dirmi qualcosa sul motivo per cui è qui”, dice il dottor Cohen ad Alicia il giorno del loro primo incontro. “Non avevo nessun altro posto dove andare”, risponde la ragazza. “E perché qui”. “C’ero già stata”. “Inizialmente perché, allora”, insiste il dottore. “Perché non mi prendevano alla Coletta”. “E perché la Coletta?” “È dove hanno mandato Rosemary Kennedy. Dopo che suo padre le aveva fatto asportare il cervello”. 

Se vuoi sentire un’epoca ascolta le voci nelle stanze dove ci si occupa del disagio mentale. Se tutto lì dentro ruota intorno al concetto di cura, in senso per così dire opposto vortica invece qualcos’altro. Sono i discorsi dei pazienti. Questi si esprimono a volte attraverso costruzioni linguistiche inimmaginabili, mostruosità (monstrum: prodigio) capaci di lambire ciò che chiamiamo verità. 

Stella Maris è composto dai dialoghi tra Alice Western e il dottor Cohen. È la seconda parte e al tempo stesso il prequel de Il passeggero. Quest’ultimo si apre con il suicidio di Alicia. Mentre leggiamo Stella Maris sappiamo dunque che la sua protagonista si ammazzerà. Le chiacchiere col dottor Cohen non possono salvarla. Ascoltiamo Alicia dopo aver sentito – evocata dal fratello – la sua mancanza per tutto il primo volume. Avevamo conosciuto lei attraverso lui, adesso ne abbiamo esperienza diretta.

“Se vuoi sentire un’epoca ascolta le voci nelle stanze dove ci si occupa del disagio mentale. Se tutto lì dentro ruota intorno al concetto di cura, in senso per così dire opposto vortica invece qualcos’altro”.

La sensazione di prossimità è inebriante. Al tempo stesso, però, è come se in Stella Maris Alicia ci parlasse da morta. (Le grandi storie parlano spesso da un altrove inattingibile. L’atto di nascita della letteratura occidentale, L’Iliade e l’Odissea, è la cristallizzazione delle voci di rapsodi ormai estinti, che per generazioni cantarono la storia della guerra di Troia). Mentre Alicia discute con il dottor Cohen è convinta che suo fratello Bobby, in coma dopo un incidente automobilistico, sia spacciato. Dal Passeggero, ambientato anni dopo, sappiamo invece (lo sappiamo già, mentre leggiamo Stella Maris) che Bobby si salverà contro ogni previsione, uscirà dal coma. 

Il Passeggero è il romanzo di Bobby, ma non c’è Alicia. Stella Maris è il romanzo di Alicia, ma non c’è Bobby. Solo mancandosi i due fratelli possono generare questa storia. 

Zero, uno? Oppure: uno, due?

Alicia, come scritto, è dottoranda in matematica. Ma liquidarla in questo modo è riduttivo. La ragazza ha un quoziente intellettivo non testabile, la sua mente è prodigiosa, averci a che fare è confrontarsi con la rappresentante di una specie superiore. Nonché inferiore (etimologicamente: una creatura infera), vista la condizione che la affligge. Alicia è frequentata da un eidolon (un fantasma, un’apparizione, il Talidomide Kid; quanto è reale una visione?), è sensibile alle arti, in particolare alla musica, si è anche dedicata allo studio del violino. Ha un’eccellente dialettica (spuntarla con lei in una discussione è più che arduo), un bagaglio che maneggia con disinvoltura citando Gödel e Poincaré, Grothendieck e Husserl, all’occorrenza Platone, Schopenhauer, Wittgenstein, Bach. Al dottor Cohen non resta che difendersi con la psicanalisi e un confortante buonsenso. Il punto debole di Alice Western è suo fratello Bobby. È innamorata di lui. Avrebbe voluto sposarlo. È sufficiente che il dottor Cohen lo tiri in ballo perché il vertiginoso discorso di Alicia sopra i massimi sistemi vada in stallo, si trasfiguri, diventi qualcosa di completamente diverso.

“La sensazione di prossimità è inebriante. Al tempo stesso, però, è come se in ‘Stella Maris’ Alicia ci parlasse da morta”.

Il papà di Alicia e Bobby era un fisico di una certa fama che aveva partecipato al Progetto Manhattan. I tre fanno di cognome Western, non credo sia un caso. L’Occidente è la terra del tramonto. Il passeggero è un romanzo sulle cose ultime, sulla bomba, le vicende di Bobby sono inframmezzate da un paio di dissertazioni sulla fisica delle particelle, la struttura del racconto è classica per quanto classico (nella sua non convenzionalità) può essere un libro di Cormac McCarthy.

In Stella Maris la matematica, tirata in ballo di continuo, sembra essere per la fisica ciò che lo scheletro è per i muscoli – o forse la linfa per il tronco? In certi casi sembra l’idea vibrante per la sua prima incarnazione –, la cifra è però quella del dialogo. Domanda, risposta, affermazione, ironia, confutazione… Il dialogo è l’impalcatura su cui si sviluppa – da Socrate in poi – buona parte del pensiero occidentale. Ecco allora che Stella Maris è un tentativo di viaggio dentro le cose prime, restituito attraverso quel diabolico interprete delle nostre profondità che è il linguaggio, in quello sconcertante aggiornamento del peripato che è l’ospedale psichiatrico.

Perché il gioco funzioni abbiamo bisogno di uno sparring partner, un campione di medietas naturalmente impersonato dal dottor Cohen. E poi c’è bisogno di una mente in fiamme come quella di Alicia, della sua intelligenza adamantina ma anche della sua inaffidabilità di schizofrenica, del suo approccio cartesiano, delle sue debolezze, dei suoi sogni e delle sue visioni, dell’invalicabile problema sentimentale con cui è alle prese. È necessario, insomma, che il pensiero di Alicia inciampi ogni tanto perché la sua presenza diventi un prisma attraverso cui far erompere un discorso strabiliante su ciò che ci circonda.

Cos’è l’universo quando non c’è nessuno a percepirlo? Che forma avevano i pianeti, le stelle, la roccia terrestre prima che il primo bulbo oculare si sviluppasse? Cosa saranno dopo? E la matematica? È uno dei linguaggi arbitrari inventati dall’uomo per dominare una parte di realtà (la mappa per il territorio) o una delle leggi su cui si fonda l’Universo? “Se gli oggetti matematici esistono indipendentemente dal pensiero umano da cos’altro sono indipendenti?”, si chiede Alicia. “L’Universo è intelligente? Non è forse questa la posta in gioco?”

Alle domande si arriva col linguaggio, alle risposte con l’inconscio: “Stella Maris” di Cormac McCarthy -

Dicevamo del linguaggio. Nella mia precedente recensione a Il passeggero parlavo delle convinzioni di Cormac McCarthy su inconscio e linguaggio. L’inconscio, molto più antico del linguaggio, sarebbe un’entità biologica, mentre il linguaggio un virus computazionale.

In Stella Maris lo scrittore trasferisce questi convincimenti nel suo personaggio. “L’inconscio è un sistema meramente biologico”, dice Alicia, “è un dispositivo per far funzionare un animale” il quale sarebbe però piuttosto restio, per ragioni storiche, evolutive, a comunicare con noi attraverso il linguaggio. Questo perché lingua è un aggressore, seppure prodigo di doni. “Il punto è che centomila anni fa qualcuno è saltato nel letto in veste da camera e ha detto Porca merda. Si fa per dire. Ancora non possedeva un linguaggio. Ma quello che aveva appena capito era che una cosa può essere un’altra. Non somigliarle o agirla. Esserla”. E ancora: “bisogna capire cos’è stato l’avvento del linguaggio. Per un bel po’ di milioni di anni il cervello se l’era cavata piuttosto bene senza. L’arrivo del linguaggio è stato come l’invasione di un sistema parassitario. Ha cooptato quelle aree del cervello che erano meno attive. Maggiormente suscettibili di essere assoggettate […] Tutte le facoltà hanno la medesima storia a parte il linguaggio. Le uniche regole evolutive che il linguaggio osserva sono quelle necessarie alla sua stessa costruzione. Un processo avvenuto in poco più di un batter d’occhio. La straordinaria utilità del linguaggio lo trasformò in un’epidemia folgorante. Sembra che si sia diffuso quasi istantaneamente in tutte le sacche più remote dell’umanità”.

Ho avuto la fortuna di leggere Stella Maris in contemporanea alla riedizione di Miti emblemi spie di Carlo Ginzburg. Ai saggi presenti nelle precedenti edizioni del libro, se ne aggiungono di nuovi. In uno di questi, Testi invisibili, immagini visibili, Ginzburg affronta, tra gli altri, il tema del passaggio dall’oralità alla scrittura. Quando, nell’Atene del VI secolo a.C., si perfezionò la trascrizione dei poemi omerici che fino ad allora circolavano in forma orale, successe qualcosa di decisivo. Ciò che era stato voci, gesti, corpi, comunità, materia venne sradicato per così dire dal suo terreno di coltura, e questo è abbastanza chiaro. Ciò su cui non si riflette abbastanza è che questo sradicamento è anche un disincarnamento, porta cioè alle estreme conseguenze un processo di astrazione cominciato tempo prima. “I testi, le mappe e le monete implicano l’astrazione”, scrive Ginzburg. Con la scrittura, il linguaggio-testo diventa definitivamente astratto, invisibile, riadagiabile (e replicabile) in modo identico su qualunque supporto. Ma dove inizia il processo? Dove nasce l’idea (per dirla con Alicia/McCarthy) “che una cosa può essere un’altra?” Scrive sempre Ginzburg: “si è ipotizzato che le testimonianze più antiche di questo genere di astrazione siano legate all’atto di contare”.

Di nuovo la matematica. Torniamo a Stella Maris. A cosa servono le dissertazioni di Alicia Western in un congegno per raccontare storie quale dovrebbe essere il romanzo? (Nel corso della lettura fingevo di pormi questa domanda mentre in realtà me ne facevo un’altra: come è possibile che un’opera di stupefacente interesse come quella composta da Il passeggero e Stella Maris sia stata salutata da certa critica, specie negli Stati Uniti, quasi con sufficienza? Come si può considerarla una prova inferiore rispetto a Meridiano di sangue e perfino a Non è un paese per vecchi? Come si fa a non vedere che Meridiano di sangue è un grande libro del Novecento mentre Il Passeggero e Stella Maris rappresentano una possibile evoluzione della specie, a voler essere cauti un magnifico prototipo che trova nel XXI secolo il suo laboratorio ideale?) Mentre parla di inconscio, matematica e linguaggio discutendo con il dottor Cohen – ecco la risposta alla mia falsa domanda –, Alicia si avvicina a un altro tipo di questione. “Con l’intelligenza verbale si arriva solo fino a un certo punto”, dice, “poi c’è un muro, e se non capisci i numeri non vedi nemmeno il muro”. E oltre quel muro? Cosa c’è sotto la crosta del percepibile? Un Dio compassionevole? Un demiurgo malvagio? Un’entità lovecraftiana pronta ad annichilire ogni nostro tentativo di essere felici? E l’amore? Ecco problemi squisitamente romanzeschi.

“Cos’è l’universo quando non c’è nessuno a percepirlo? Che forma avevano i pianeti, le stelle, la roccia terrestre prima che il primo bulbo oculare si sviluppasse? Cosa saranno dopo? E la matematica?”

Alle domande giuste ci si arriva con il linguaggio. Le risposte ai quesiti più difficili le porta invece l’inconscio. Ecco a che servono i sogni. Il problema è che fatichiamo a decifrarli. “Immagino che a volte su certi sogni l’inconscio continui a lavorare, a ritoccarli, nella speranza che tu capisca”. Alicia racconta diversi sogni al dottor Cohen. In ciascuno di essi potrebbe esserci la chiave. È il punto di arrivo, nella narrativa di Cormac McCarthy, di un percorso iniziato molto tempo prima.

Non so quanti ricordino il finale inatteso di Città della pianura, l’ultimo capitolo della “Trilogia della frontiera”. Un brusco flash-forward di decine di anni – del tutto non funzionale ai fini della trama – scaraventa Billy Parhman, uno dei protagonisti del libro, dal pieno della giovinezza alla vecchiaia. Il vecchio Parhman si aggira lungo i margini di un’autostrada in Arizona. Qui incontra un vagabondo. Il vagabondo gli racconta un sogno, e un complicato sogno dentro il sogno il quale culmina con un sacrificio umano consumato in un contesto rituale. Siamo all’apice dell’orrore (è un orrore reale o immaginario? A quale dimensione appartengono i sogni?) e al tempo stesso abbiamo la sensazione di stringere la stele di Rosetta del sottotesto del romanzo.

Alle domande si arriva col linguaggio, alle risposte con l’inconscio: “Stella Maris” di Cormac McCarthy -

In modo analogo, i sogni e le visioni di Alicia la conducono (e noi lettori con lei) verso una cupa scoperta. A un certo punto “sapevo”, dice Alicia, “quello che mio fratello non sapeva. Che sotto la superficie del mondo c’era e c’era sempre stato un orrore mal trattenuto. Che al cuore della realtà alberga un abissale ed eterno demonium. Cosa che tutte le religioni comprendono. E che non se ne sarebbe andato. E immaginare che le funeste eruzioni di questo secolo fossero in qualche modo eccezionali o esaustive era semplicemente una scemenza”. McCarthy parla del “cuore della realtà”, non del “cuore dell’uomo”. Dunque, il demiurgo. Qui c’è anche il XX secolo che parla al XXI, e sono parole purtroppo veritiere, viste le atrocità da cui siamo circondati.

Siamo al culmine di un pensiero piuttosto pessimista, di un pessimismo cosmico. Eppure, poche pagine dopo, l’atmosfera del romanzo cambia un’altra volta. Alicia cambia (cambia registro, voce, ci sembrerebbe di vederle cambiare colore, la luce che cade su di lei è diversa). La ragazza parla finalmente della storia d’amore con suo fratello Bobby. È il cuore del romanzo, il suo giardino segreto. Sono pagine talmente delicate, belle, semplici, profonde, commoventi – e così ben preparate – che un naturale guscio di riserbo sembra volerle proteggere, tanto che scriverne (o trascriverne una parte) mi sembra irrispettoso. Bisogna arrivarci, a quelle pagine. La sensazione è che possiedano la singolare proprietà di risemantizzare ciò che avevamo letto fino a quel momento. Non un rovesciamento, un inciampo. 

Le forze della distruzione sono eterne, l’oscurità è la regola. L’amore pertiene ai mortali, ma è invincibile fino a quando chi ama lo tiene vivo. È questo il tragico paradosso, l’orizzonte degli eventi oltre cui Cormac McCarthy si è spinto con la sua ultima opera.

Nicola Lagioia

Nicola Lagioia è scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico e direttore editoriale di Lucy. Il suo ultimo libro è La città dei vivi (Einaudi, 2020).

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