"April" è il perfetto “film da festival”, nel bene e nel male - Lucy
articolo

Lorenzo Gramatica

“April” è il perfetto “film da festival”, nel bene e nel male

07 Settembre 2024

Il secondo film di Dea K'ulumbegashvili è un’opera ambiziosa che racconta di aborti clandestini: per il tema e la regia senza compromessi, è destinato a dividere.

Gli ultimi giorni sono i più difficili a un festival. Si arriva stremati: c’è chi finisce per confondere le trame dei film, chi uscito dalla sala confessa di non averci capito nulla, chi sbuffa durante la visione, chi ride istericamente, chi salta le file con insopportabile nonchalance.  

Ma gli ultimi giorni, qui alla Mostra, sono anche quelli di alcune opere attese: bisogna tenere gli occhi aperti, stare vigili, temperare la matita, tenerla salda in mano affinché non cada, nel buio della sala, sotto i seggiolini del vicino – per raccoglierla poi servirebbe accendere la torcia del telefono, rassicurare le maschere… 

Agitazione: si riuscirà a guardare questi film? Si sarà in grado di valutarli equanimamente? E se poi ci si addormenta? E se uno di questi vince il Leone?

Le difficoltà aumentano con April, opera seconda di Dea K’ulumbegashvili, che è a tutti gli effetti un “film da festival”.

“Il film da festival”, molto temuto dal pubblico e molto apprezzato da una certa critica, è un prodotto dalle smaccate ambizioni artistiche, raggiunte spesso con il ricorso a lunghi piani sequenza, grandi silenzi, simbolismi astrusi. Un tipo di opera che cerca più la sfida che il confronto con lo spettatore.

April è co-prodotto da Frenesy, la casa di produzione di Luca Guadagnino che, da presidente di giuria del Festival di San Sebastian, premiò nel 2020 l’esordio di K’ulumbegashvili, Beginning, che ha trovato distribuzione su Mubi e il plauso di molti. 

Già in quell’opera prima si intravedeva il talento della regista, capace di riprendere in modo suggestivo gli spazi e la natura – la prima scena ha ambizioni da Béla Tarr –, di costruire inquadrature stratificate, complesse e spazialmente profonde, con dialettica spesso riuscita tra primo e secondo piano. I meriti, sì, ma anche già le potenziali e future debolezze: ricorso eccessivo e a volte esasperante del long take, dialoghi perfettibili, una scrittura non sempre all’altezza, la tendenza a costruire asettici tableau vivant, una sensazione di gratuità legata ad alcune scelte di regia, che lasciavano il dubbio sull’opportunità o meno di piazzare la camera in un certo punto. 

In April pregi e difetti sono ancora più evidenti.

Nina (Ia Sukhitashvi già protagonista di Beginning) è una ginecologa che lavora in una clinica incastonata tra le pianure e le montagne della Georgia rurale: spazi immensi, natura bella e terribile, pastori avvezzi alla compagnia muta delle bestie, donne sottomesse alle tradizioni e al bigottismo. 

Quando, tra le sue mani, una donna partorisce un bimbo già morto, il padre la accusa di negligenza e chiede che l’ospedale apra un’indagine. Le voci girano, si dice che Nina aiuti le donne dei villaggi ad abortire clandestinamente, pratica imperdonabile, soprattutto là dove vige la legge del maschio, delle tradizioni e dove le donne, ancora adolescenti, devono adeguarsi alla loro funzione riproduttiva. 

Nina vive la vita di una santa pazza, sacrifica tutto all’ascetico rigore della sua missione etica: supportare le donne che non hanno gli strumenti, culturali e pratici, per opporsi alla volontà della rigida società che abitano. 

Non ha molti affetti  – la sua ultima relazione risale a otto anni prima –, non desidera nulla per se stessa se non servire la sua causa; coltiva il sacrificio e l’umiliazione più che il piacere nel sesso, abbordando violenti pastori che si trascinano come ombre barcollanti verso le montagne, nella notte. In POV, seguiamo Nina illuminare con i fari della sua auto le strade desolate e fangose che tagliano le brughiere e i campi, nel suo peregrinare inquieto e nei suoi incontri sessuali auto-punitivi. 

L’indagine per negligenza, che deciderà delle sue sorti professionali, è affidata a David (Kakha Kintsurashvili), l’unico collega di cui Nina sente di potersi fidare; è obbligata a farlo, ma anche l’uomo con una buona educazione e un buon lavoro è insopportabilmente maschilista, giudicante. 

Nina continua a girare i villaggi per aiutare le donne ad abortire. Sono queste le scene migliori: un long take, molto intenso, lungo e coraggioso, mostra la gamba di una donna e la sua mano, tenuta stretta dalla madre, mentre Nina opera; il tintinnio e lo sferruzzare degli strumenti chirurgici graffiano le orecchie dello spettatore, a cui è concesso di lavorare con la fantasia fuori dall’inquadratura. Nei fuoricampo, nella stimolazione dell’immaginazione altrui, Dea K’ulumbegashvili si dimostra dotata. 

Per il resto, il ricorso a campi lunghi e lunghissimi, simmetrici e tremolanti con camera a mano è irritante più che disturbante; le insistite riprese naturalistiche, di un temporale poderoso, di fiori e cieli tersi sembrano soddisfare più le esigenze dell’autrice che quelle del racconto. 

C’è poi un ricorso al simbolismo e una tendenza metaforica che spiazzano: una creatura nuda, vecchia, macilente, assieme umana e aliena, compare spesso, sin dalla prima scena. Gorgoglia, ansima, piagnucola, ha un volto impossibile da mettere a fuoco. Al di là del suo significato, nemmeno così importante, dovrebbe nelle intenzioni della regista creare vicinanza, compassione, ma risulta creazione fredda, cerebrale, per alcuni forse anche un po’ ridicola. 

A differenza di altri film che hanno raccontato il tema dell’aborto, April non crea partecipazione emotiva e tensione drammatica: che Nina venga condannata per negligenza o meno diventa secondario. Lo sguardo della regista sulla protagonista è distaccato, algido, estetizzante. I suoi traumi del passato, che forse ne indirizzano l’agire, ne orientano la missione, finiscono per interessare poco a causa di una regia logorante, che indugia nell’inessenziale, che si compiace molto della resa di alcune inquadrature, assecondando stimoli da art film – quando la camera si sofferma, dal nulla e come in un limbo di ispirazione pittorica, su un pene flaccido, viene in mente Battaglia nel cielo di Carlo Reygadas, film decisamente peggiore di questo, ma egualmente faticoso. 

“A differenza di altri film che hanno raccontato il tema dell’aborto, “April” non crea partecipazione emotiva e tensione drammatica: che Nina venga condannata per negligenza o meno diventa secondario”.

Eppure, questo film estenuante e spesso irritante ha il merito di proporre la visione di un’autrice molto sicura di sé e delle proprie capacità. Visione che si può rigettare, anche con fastidio, o abbracciare con l’entusiasmo del cinephile

Possibile che la giuria presieduta da Isabelle Huppert tenga in considerazione April per un premio. D’altronde, questo è un “film da festival”.

Lorenzo Gramatica

Lorenzo Gramatica è Responsabile editoriale e autore di Lucy.

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