Antonio Talia
Artem Uss è il figlio di un oligarca russo vicino a Putin, accusato di frode bancaria, riciclaggio e contrabbando di armi, evaso dai domiciliari in Italia grazie ai suoi contatti e all’incapacità delle autorità italiane. Dietro la sua fuga, ci sono l’ambiguità e la subalternità della politica italiana nei confronti della Russia.
Da qualche mese a questa parte sui miei feed ricorre sempre più spesso un monologo: è il finale di Finché c’è guerra c’è speranza, film del 1975 diretto e interpretato da Alberto Sordi, che interpreta un mercante d’armi in viaggio tra Africa e Sudest asiatico per piazzare partite di bombe e mitragliatori al miglior offerente, che si tratti di dittatori, guerriglieri ribelli o governi più o meno legittimi appoggiati dalle ex potenze coloniali.
“Le guerre non le fanno solo i fabbricanti d’armi e i commessi viaggiatori che le vendono” dice Sordi, reduce da un bombardamento in cui ha sperimentato gli effetti dei suoi prodotti troppo da vicino “ma anche le persone come voi, famiglie come la vostra che vogliono, vogliono, vogliono e non si accontentano mai! Le ville, le macchine, le moto, le feste, il cavallo, gli anellini, i braccialetti, le pellicce e tutti i cazzi che ve se fregano! Costano molto, e per procurarseli qualcuno bisogna depredare! Ecco perché si fanno le guerre!”.
Il monologo di Sordi ha raggiunto il picco di condivisioni quando sono state diffuse online le immagini di un blindato di presunta fabbricazione italiana impiegato dalle truppe ucraine nell’offensiva di Kursk, ma non è raro vederlo postato anche in merito a quello che accade a Gaza; i commenti a corredo riportano, il più delle volte,vaghe accuse contro generici potenti che provocano conflitti a bella posta, mentre gli innocenti muoiono sotto le bombe.
Non è raro, in Italia, leggere invettive come quella del mercante d’armi di Alberto Sordi, ma raramente si trasformano in ammissioni di responsabilità definitive, ed ecco che il dilemma morale si risolve subito: se le guerre si fanno per arricchire i potenti e se la responsabilità si colloca sempre a un livello superiore, allora scaricare il barile verso l’alto diventa fisiologico.
Ma condividere un video non solleva mai dalla cattiva coscienza; al massimo serve per dispensarsi un’autoassoluzione passeggera.
In realtà, nel momento preciso in cui l’opinione pubblica italiana si è trovata davanti a un autentico signore della guerra come Artem Uss – uno che ha accumulato enormi fortune alimentando la macchina bellica del Cremlino – lo ha ignorato.
E quando questo contrabbandiere è evaso dai domiciliari beffando i nostri apparati di sicurezza, l’interesse generale verso tutta la storia è scemato alla velocità con cui si schivano le conversazioni imbarazzanti.
Ci siamo rifiutati di chiedere e ottenere risposte, abbiamo trascurato le ricostruzioni dei media che cercavano di stabilire le responsabilità, e poi siamo corsi subito a inveire contro bersagli vaghi, più adatti per l’indignazione a buon mercato.
Ma per individuare qualche responsabile un po’ più specifico dei potenti-che-vendono-le armi, prima, bisogna ripercorrere tutta la vicenda di Artem Uss, indagare il groviglio istituzionale che la caratterizza, spiegare le funzioni dei vari poteri coinvolti, analizzare lo scenario in cui si è svolta e – come in tutte le storie politiche – porsi la domanda più politica di tutte: quali sono gli interessi precisi di ognuna delle forze in campo?
Nel primo pomeriggio del 22 marzo 2023 i carabinieri del Comando Stazione di Basiglio piombano a Borgo Vione, un complesso di appartamenti e ville di lusso a quindici chilometri da Milano.
Corrono lungo la corte ricavata da granai costruiti nel dodicesimo secolo dai monaci cistercensi di Chiaravalle, superano le piscine, salgono le scale fino a un elegante appartamento che controllano ormai da mesi e si ritrovano di fronte a una porta socchiusa e a una casa in disordine: sul parquet di rovere dell’entrata giace un braccialetto elettronico di sorveglianza con le lucette che lampeggiano ancora, ma il detenuto agli arresti domiciliari obbligato a indossarlo giorno e notte è sparito.
I militari comunicano subito con la caserma, nell’appartamento arrivano i carabinieri del Nucleo Investigativo, magistrati della Procura di Milano e funzionari di Aisi e Aise, le due agenzie dell’intelligence italiana.
Mentre vengono attivati protocolli di sicurezza su tutta la rete autostradale, tra Milano e Roma si intensificano comunicazioni frenetiche che arrivano a Palazzo Chigi, fino alla Presidenza del Consiglio e al sottosegretario con delega ai servizi segreti Alfredo Mantovano.
L’Italia si è appena fatta sfuggire Artem Aleksandrovich Uss, quarant’anni, detenuto in attesa di estradizione negli Stati Uniti per rispondere di riciclaggio e (soprattutto) di contrabbando di tecnologie a doppio uso civile/militare.
Per capire la portata dell’evasione di Artem Aleksandrovich Uss, consideriamo questo: più di un anno dopo, l’8 luglio 2024, un missile russo centra l’ospedale del quartiere Okhmatdyt di Kiev uccidendo due medici e distruggendo gran parte dell’edificio.
È un ospedale pediatrico oncologico; il bombardamento costringe dottori e infermieri a curare per strada o a trasferire d’urgenza 340 bambini affetti da tumori gravi e soggetti a dialisi.
Negli attacchi dell’8 luglio muoiono complessivamente 43 civili, tra cui 7 bambini, e 147 persone rimangono ferite.
Se non dallo stesso Artem Uss in persona, l’attacco all’ospedale Okhmatdyt è stato possibile solo grazie a individui come lui: le analisi sui resti del missile dimostrano che si tratta di un Kh-101, modello avanzato incapace di colpire senza il tipo di microprocessori progettati in Occidente che secondo l’FBI e il procuratore federale del Distretto Est di New York Breon Peace costituiscono il cuore del contrabbando di Uss e soci.
Ora, Artem Uss non è solo un trafficante di armi impiegate per colpire ospedali pediatrici oncologici. È anche un esponente dell’élite russa più vicina a Vladimir Putin. Fino a poco dopo l’evasione, suo padre è stato il governatore della Territorio di Krasnoyarsk, una regione di foreste, miniere e città grande sette volte e mezzo l’Italia che taglia a metà la Siberia affacciandosi sull’Artico.
Gli Uss sono una dinastia regionale inserita nel più ampio sistema di potere russo: guidano potenti auto straniere, possiedono almeno quattro ville di campagna e – come riportano diversi dossier di agenzie anti-corruzione e watchdog anti-riciclaggio – controllano anche numerosi immobili in tutta Europa, tra cui un hotel di lusso in Costa Smeralda intestato a Maria Yagodina, moglie di Artem.
“Corrono lungo la corte ricavata da granai costruiti nel dodicesimo secolo dai monaci cistercensi di Chiaravalle, superano le piscine, salgono le scale fino a un elegante appartamento che controllano ormai da mesi e si ritrovano di fronte a una porta socchiusa e a una casa in disordine”.
Secondo le indagini di Breon Peace e dell’FBI, le aziende di Artem Uss hanno trattato partite di petrolio sotto embargo per il valore di 32 milioni di dollari e – attraverso una sofisticata rete di società controllate – sono riuscite ad acquistare sottobanco microprocessori americani messi poi a disposizione della compagnia di Stato russa OOO Radioavtomatika per installarli su missili di precisione.
Tutte queste imputazioni hanno condotto gli americani a chiedere all’Italia l’arresto immediato di Uss e la sua estradizione a New York, mentre la Russia cercava ogni metodo possibile per rimpatriare l’unico erede di uno dei gerarchi preferiti di Vladimir Putin.
Dopo l’arresto – scattato nell’ottobre del 2022 mentre Uss tentava di imbarcarsi su un volo Roma-Istanbul alcune ore dopo il fermo dei suoi soci in varie nazioni europee – gli avvocati italiani avevano ottenuto gli arresti domiciliari in uno degli appartamenti di lusso che possedeva in provincia di Milano.
Punti-chiave della difesa: dai domiciliari Uss non avrebbe potuto reiterare il reato; non aveva alcuna possibilità di fuggire e – soprattutto – il peso dell’eventuale estradizione in un penitenziario americano lo aveva sprofondato in uno stato di prostrazione tale da rasentare l’autolesionismo.
Ed è così che nella sera del 22 marzo 2023, mentre le ricerche girano a vuoto e il fuggitivo sembra ormai sparito nel buio della notte padana, dal sonnacchioso comune di Basiglio si registrano scosse telluriche dirette verso tutti i palazzi del potere.
Al Tribunale di Milano – dove solo il giorno prima era stata disposta l’estradizione negli Usa – la Corte d’Appello deve riflettere sul drammatico errore con cui aveva accolto le tesi della difesa, un errore racchiuso in tre righe dell’ordinanza dei giudici Monica Fagnoni, Micaela Curami e Stefano Caramellino: “Non è arguibile dalla documentazione allo stato pervenuta dall’Autorità Giudiziaria americana che risponda al vero la circostanza a sostegno della sussistenza di un pericolo di fuga”.
A Roma, intanto, il presidente del Consiglio Giorgia Meloni si prepara a riferire al Copasir – il comitato parlamentare di sorveglianza sui servizi d’informazione – e il ministro della Giustizia Carlo Nordio dovrà presentarsi per riferire direttamente in Parlamento.
Il Viminale guidato dal ministro Matteo Piantedosi per il momento mantiene un profilo bassissimo.
A Piazza Dante, sede del Dipartimento informazioni per la sicurezza – l’organo di coordinamento delle nostre agenzie di intelligence – tutto tace.
Intanto in Via Veneto, dagli uffici dell’Ambasciata degli Stati Uniti, qualcuno fa filtrare ai giornali una lettera inviata qualche mese prima al ministro Nordio nella quale l’attaché alla Giustizia Josh Cavinato chiedeva alle autorità italiane di “prendere tutte le misure possibili per disporre nei confronti di Uss la misura della custodia cautelare per l’intera durata del processo di estradizione, compreso un ricorso alla Corte di Cassazione contro il provvedimento degli arresti domiciliari della Corte d’Appello di Milano”.
Poi, il 4 aprile 2023, tredici giorni dopo l’evasione di Basiglio, la beffa: Artem Uss ricompare in Russia, e concede un’intervista all’agenzia di Stato Ria Novosti.
Il padre Aleksandr, in un video diffuso sul suo canale Telegram, è raggiante:
“Voglio ringraziare tutti coloro che nonostante la situazione apparentemente senza speranza hanno sostenuto me e la mia famiglia durante la detenzione di mio figlio in Italia. Il nostro Paese ha molti amici e molte persone oneste che lo sostengono e che al momento giusto sono pronte ad aiutare. So di cosa parlo”.
Molti amici. Molte persone oneste pronte ad aiutare. Le allusioni di Aleksandr Uss somigliano ai messaggi ambigui che certi esponenti del crimine organizzato lanciavano negli anni delle stragi mafiose, ma chiunque si aspettasse un putiferio istituzionale rimane deluso.
O meglio: il putiferio scoppia lo stesso, ma più che una corsa a verificare la fondatezza dei pizzini del governatore russo somiglia al gioco della sedia, quello in cui perde l’ultimo che rimane in piedi quando la musica finisce.
Ad aprire le danze è il presidente del Consiglio: il 13 aprile, quando Artem Uss è ormai in Russia da almeno due settimane, Giorgia Meloni si presenta al Copasir insieme al sottosegretario Mantovano e al direttore del Dis Elisabetta Belloni.
L’audizione si svolge a porte chiuse, come da prassi istituzionale, ma il sunto del discorso lo svela alla stampa Meloni stessa nel corso di una visita di Stato ad Addis Abeba: “Sicuramente ci sono delle anomalie. L’anomalia principale, mi dispiace, credo che sia la decisione della Corte d’Appello di offrire gli arresti domiciliari per motivi secondo me discutibili, e di mantenerli anche quando c’era un’iniziativa sull’estradizione perché ovviamente in quel caso il rischio di una fuga diventa più evidente”.
Per il governo la responsabilità dell’evasione di Artem Uss è della magistratura, e il ministro Nordio lo conferma immediatamente con due atti ufficiali: il primo è un’azione disciplinare per negligenza nei confronti dei giudici di Milano; il secondo è un teso confronto alla Camera dei deputati, dove il 20 aprile ribadisce di aver inoltrato la nota diplomatica americana ai giudici e sostiene di avere coinvolto anche la Farnesina e il ministero degli Interni attraverso l’ufficio Interpol del Viminale.
La Camera Penale di Milano e Magistratura Democratica – neanche a dirlo – emettono comunicati indignati contro l’azione disciplinare di Nordio: l’esecutivo sta interferendo sull’indipendenza del potere giudiziario.
Nordio, a ragione, sostiene che a differenza dell’ordinamento Usa in Italia un ministro della Giustizia non è un Attorney General, e quindi non può sindacare sulle decisioni della magistratura. Ma in questo labirinto istituzionale già troppo intricato persino per il trafficante interpretato da Alberto Sordi, la situazione si fa ancora più opaca quando i magistrati replicano di non avere mai ricevuto la lettera da Nordio, ma solo la risposta che lui stesso aveva inviato agli americani.
Matteo Piantedosi, intanto, riferisce di non essere mai stato avvertito direttamente sulla questione perché nei casi di estradizione la triangolazione tra Giustizia, Interni ed Esteri si svolge ”a livelli inferiori, tecnici”.
A completare questo quadro sconfortante arrivano anche i servizi segreti, che nei chiarimenti informali richiesti dall’esecutivo e riportati da diverse testate giornalistiche, invocano un articolo della norma 124 del 2007 che disciplina l’operato dell’intelligence: i servizi si attivano solo su nulla osta dell’autorità giudiziaria competente o su comunicazione del ministero della Giustizia, oppure su segnalazione di un’agenzia alleata – che nel caso specifico sarebbe stata l’Fbi o la Cia.
Senza una richiesta da parte dei giudici, di Nordio, o da Quantico e Langley, insomma, i nostri servizi segreti hanno evitato di interessarsi al caso Uss.
Ed è a questo punto che per decifrare la situazione è necessario porsi i primi interrogativi.
Davvero di fronte al concreto rischio di fuga di un detenuto del peso di Artem Uss, né il Presidente del Consiglio né il ministro della Giustizia avevano i mezzi per attivare l’intelligence?
E il ministero degli Interni è veramente privo degli strumenti per aumentare la sorveglianza di un detenuto del genere?
Il prefetto Adriano Soi, che oggi insegna Sicurezza Nazionale e Intelligence all’Università Alfieri di Firenze, è un ex funzionario di lungo corso del Dis, dove per molti decenni ha lavorato su diverse crisi del nostro Paese.
Accanito giocatore di scacchi, Soi risponde sempre alle domande come in un’apertura del gioco.
“Dobbiamo stare a quanto dichiarato dallo stesso Presidente del Consiglio dei ministri. Il Presidente ha detto che l’intelligence italiana non aveva ricevuto informazioni sul punto, e quindi è una dichiarazione sostanzialmente assolutoria del comportamento delle agenzie, che a suo parere sembravano aver fatto bene quello che dovevano fare. O quello che non dovevano fare”, dice Soi.
“Inoltre, nel dettagliatissimo intervento alla Camera, il ministro Nordio spiegò con grande precisione tutti i vari passaggi nelle interlocuzioni tra il ministero della Giustizia e la Corte d’Appello di Milano”.
“Però – prosegue Soi – sta di fatto che quando poi la Corte d’Appello decide per i domiciliari il ministro sembra ragionare solo come il vertice di quella specifica amministrazione, e non come un organo politico a 360 gradi che siede, per esempio, in un comitato che si chiama CISR, il Comitato Interministeriale per la Sicurezza della Repubblica, nel quale accanto a lui siedono anche il ministro dell’Interno e lo stesso Presidente del Consiglio”.
Il CISR è l’equivalente italiano dei vertici di crisi che abbiamo visto in molti film e serie tv: è la ala in penombra piena di generali a cinque stellette e funzionari della comunità dell’intelligence e membri dell’esecutivo che si riunisce alla Casa Bianca; è il comitato COBRA dei britannici con direttori di MI6 e MI5 e politici del governo; è la riunione di agenti operativi e ministri della République che si vede nell’ottima produzione francese Le Bureau (non a caso una serie che si avvale della consulenza di veri agenti).
Nella realtà italiana stabilita dalle leggi sull’intelligence, il CISR è un organo composto tra gli altri dai vertici di vari ministeri – Interno, Difesa, Giustizia, Esteri, Economia e persino Ambiente e Sicurezza Energetica – con poteri di indirizzo di fronte a situazioni di emergenza che coinvolgono vari aspetti della sicurezza nazionale.
Quando i funzionari o i ministri di una di queste amministrazioni avvertono una minaccia possono discuterne all’interno del CISR e stabilire misure adeguate, inclusa ovviamente l’attivazione dei servizi segreti.
Ma secondo Soi, né il ministro Nordio né gli altri componenti del CISR hanno avvertito l’urgenza di fare presente alla Presidenza del Consiglio la gravità della situazione che si era determinata dopo il trasferimento di Uss dal carcere ai domiciliari.
Dice Soi: “Sembra che il suo compito fosse finito lì, dopo la risposta agli americani e la trasmissione della loro lettera a Milano. Ma in realtà sei ministro di un governo, e quel governo ha anche altri strumenti oltre alle forze di polizia, per esempio l’intelligence. L’intelligence non dipende direttamente dal ministro della Giustizia, ma il ministro della Giustizia ha canali privilegiati per attivarla. Tutto questo non è successo, e sicuramente il ministro Nordio non ne ha parlato in Parlamento”.
La mia richiesta di chiarimenti al ministero della Giustizia non ha ricevuto alcuna risposta.
Ma a questo punto possiamo affermare con una certa sicurezza che i servizi segreti italiani avrebbero potuto occuparsi direttamente del grave rischio di fuga di un detenuto importante come Artem Uss, e tuttavia né il ministero della Giustizia, né il ministero degli Interni (che era competente sul fronte dell’estradizione negli Usa), né il ministero degli Esteri (che poteva forse vantare una competenza più labile, ma pur sempre adeguata alla situazione) hanno ritenuto opportuno coinvolgerli.
Sempre attraverso il CISR, inoltre, il ministero degli Interni avrebbe potuto aumentare la sorveglianza attorno a Uss ed evitare di caricarla sulle sole spalle dei carabinieri di Basiglio.
Si entra nel campo delle ipotesi: posto che sul piano istituzionale era possibile fare di più, aumentare la vigilanza su Artem Uss era anche opportuno sul piano dell’equilibrio tra le varie amministrazioni?
Secondo quanto racconta un ex capo del controspionaggio dell’AISI che oggi lavora nel settore privato e che chiamerò Beltrame, tra i servizi di sicurezza si è diffuso da tempo un forte timore a intervenire in casi su cui sta già lavorando il ministero della Giustizia.
“Credo che l’intelligence sia sempre chiamata a fare un passo indietro davanti all’autorità giudiziaria – dice Beltrame – perché abbiamo assistito già in passato a situazioni in cui gli agenti che si interessavano a casi del genere si sono ritrovati indagati dai magistrati”.
Secondo Beltrame, insomma, piuttosto che ritrovarsi coinvolta in un conflitto di competenze, l’intelligence preferisce sempre ritirarsi, ma è inevitabile chiedersi se più che sul fronte istituzionale il caso Uss non fosse invece molto più problematico su un altro piano ancora: quello della politica internazionale, ed è qui che diventa necessario porsi domande concrete sull’atteggiamento del governo italiano nei confronti della Russia di Vladimir Putin.
Balanzone è un funzionario di lunga esperienza al ministero della Giustizia. Nel corso delle ricerche per un libro-reportage su questi temi che ho pubblicato lo scorso anno ha messo in luce un aspetto spesso trascurato delle relazioni tra Mosca e Roma.
“Da qualche mese a questa parte sui miei feed ricorre sempre più spesso un monologo: è il finale di Finché c’è guerra c’è speranza, film del 1975 diretto e interpretato da Alberto Sordi, che interpreta un mercante d’armi in viaggio tra Africa e Sudest asiatico per piazzare partite di bombe e mitragliatori”.
Secondo Balanzone, l’Italia – come ogni altra democrazia occidentale – si trova di fronte a una contraddizione strutturale ogni qual volta un cittadino russo di rilievo come Artem Uss viene fermato o arrestato: “I russi sono noti per attuare ritorsioni indiscriminate, piegano le regole del giusto processo a loro piacimento e i cittadini italiani residenti in Russia sono molti, spesso si tratta di dirigenti di grandi aziende o imprenditori. Tutti loro rischiano l’accusa per qualche reato mai commesso e la prigionia a tempo indeterminato in attesa di giudizio di fronte a un tribunale della Federazione Russa”.
L’ipotesi di Balanzone allude a una prassi diffusa tra le autorità italiane, una sorta di silenzio-assenso per cui di fronte all’arresto di un cittadino russo di alto profilo come Artem Uss tutti quanti farebbero il minimo indispensabile, evitando così ritorsioni sugli italiani residenti in Russia.
In effetti, da quando la Russia ha invaso su larga scala l’Ucraina abbiamo assistito a diversi casi di cittadini di nazioni occidentali – soprattutto americani – arrestati con accuse pretestuose e poi impiegati come contropartita in logoranti trattative per gli scambi dei prigionieri.
Nel periodo in cui l’Italia aveva arrestato Uss, gli Stati Uniti stavano affrontando la vicenda di Evan Gershkovich, il corrispondente del Wall Street Journal da Mosca imprigionato in un farsesco caso di spionaggio montato dalle autorità russe: è plausibile che gli americani ritenessero Uss ottima merce di scambio per liberare Gershkovich e che le autorità italiane abbiano tacitamente evitato coinvolgimenti per risparmiarsi un concittadino in più nelle carceri di Vladimir Putin.
L’imbarazzante evasione di Artem Uss quindi si spiegherebbe attraverso la realpolitik, se non fosse che in realtà l’Italia avrebbe potuto trattenere il trafficante d’armi anche senza estradarlo negli Stati Uniti (che peraltro cercano sistematicamente di sottrarre alla giustizia italiana i loro cittadini imputati nel nostro Paese): sarebbe stato sufficiente che la Procura di Milano o la Procura di Sassari aprissero un fascicolo sulle sue attività in quelle zone.
Posto che alcuni ministri del governo e che la Presidenza del Consiglio avrebbero potuto fare di meglio per sorvegliare Artem Uss, stabilito che la protezione degli agenti e dei cittadini italiani in Russia forse non sono motivazioni sufficienti per la rilassatezza manifestata in tutta la vicenda, bisogna porsi due domande cruciali: in che misura il caso Uss è un caso politico prima che giudiziario?
E di quale livello di politica stiamo parlando precisamente?
Per rispondere alla prima domanda bisogna raccontare gli arresti successivi alla fuga e avvalersi di qualche indiscrezione.
Dopo il clamoroso fiasco del 22 marzo 2023, i carabinieri del nucleo investigativo di Milano avviano le indagini con il coordinamento del pm Marcello Tarzia, e stabiliscono che gli esecutori materiali della fuga di Artem Uss sono tutt’altro che un commando superaddestrato di spie russe: Vladimir Jovancic detto «Vlado» e suo figlio Boris sono due serbo-bosniaci residenti da tempo a Desenzano. Boris lavora in una fabbrica di patatine. Vlado ufficialmente commercia in abbigliamento, ma ha qualche precedente che lascia intuire una lunga carriera da contrabbandiere.
I carabinieri catturano Vlado in Croazia e Boris in Italia, mentre qualche giorno dopo tocca a Matej Janezic, 39 anni, arrestato in Slovenia.
Gli altri due sospetti, il direttore commerciale dell’Hotel Putnik di Belgrado Srdjan Lolic e il suo autista Nebojsa Ilic, rimangono in Serbia.
Il 15 giugno 2024, però, le autorità italiane arrivano al livello superiore e arrestano all’aeroporto di Fiumicino Dimitry Chirakazde, 54 anni, un importante imprenditore russo residente in Svizzera, da dove cura vari business miliardari come il controllo dei sistemi informatici di tutti i tribunali russi. Chirakazde è parte integrante dell’establishment russo, è socio della famiglia Uss in varie attività e vanterebbe ottimi rapporti con i servizi segreti di Mosca.
Secondo l’accusa è stato lui a reclutare la manovalanza e a mettere a punto il piano per la fuga. Al momento è ancora detenuto in uno dei nostri penitenziari, mentre tutti gli altri hanno patteggiato.
Come riferiscono diverse fonti investigative coinvolte direttamente nella cattura di Vlado, Boris, Matej e Chirakazde, il governo italiano non ha mai manifestato alcun tipo di reazione – formale o informale – dopo l’arresto degli uomini che hanno provocato all’Italia una delle peggiori figuracce internazionali degli ultimi anni.
Come se l’arresto del cittadino russo che ha ideato il piano di evasione fosse più imbarazzante dell’evasione stessa.
Stiamo per avvicinarci alla definizione degli interessi in campo e agli equilibri tra tutte le forze, stiamo per approdare alla domanda politica definitiva: il governo italiano voleva davvero trattenere Artem Uss?
Da quando è diventata Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni si è sempre mostrata netta sul posizionamento dell’Italia nel campo delle democrazie occidentali di stampo liberale, e dopo il 24 febbraio 2022 ha sistematicamente condannato l’aggressione di Vladimir Putin.
Ma più che su formule chimiche in Italia le coalizioni di governo si reggono su esperimenti di alchimia, le reazioni tra i vari elementi del composto sono difficili da prevedere e conducono spesso a risultati instabili: per una Giorgia Meloni che condanna la politica imperialista russa c’è sempre un Matteo Salvini che non ha mai sciolto gli accordi con il partito di Putin Russia Unita e una Forza Italia che dai tempi di Silvio Berlusconi ha sempre intrattenuto rapporti molto stretti e forse compromettenti con Putin.
Alla Giorgia Meloni di governo che sostiene l’Ucraina nella resistenza contro la Russia corrisponde sempre la Giorgia Meloni a capo di un partito dove Vladimir Putin passa spesso a mezza voce per “un patriota”, il bastione del sovranismo e dei valori tradizionali contro il dilagare dell’Occidente debosciato.
Questo partito è maggioranza nel Paese, deve rendere conto ai suoi elettori, ad alleati come la Lega attestati su posizioni ancora più accondiscendenti verso la Russia e gode anche di forti sponde nell’opposizione, dove dal Movimento Cinque Stelle all’Alleanza Verdi-Arcobaleno, fino a vaste frange del Partito Democratico di Elly Schlein in moltissimi vorrebbero chiudere la sanguinosa guerra in Ucraina a tutti i costi, incluso venire a patti con un dittatore come Vladimir Putin. Il vento istituzionale sta cambiando, i ministri del governo Meloni sono sempre più contrari all’impiego di armi per colpire obiettivi militari in territorio russo, in una comoda confusione tra aggressore e aggredito.
In Italia, il senso comune nutre sempre dubbi sulla necessità di opporsi a un nemico più forte, anche se si tratta di una dittatura xenofoba, imperialista e guerrafondaia come quella del Cremlino.
In definitiva la storia di Artem Uss non è semplicemente la storia di una fuga da manuale dell’intelligence, né la storia di un grottesco scaricabarile tra poteri dello Stato. Perfino definirla una vicenda esemplare del ruolo dell’Italia nelle crisi internazionali sembra riduttivo.
È la storia di uno scaricabarile all’inverso in cui – ancora prima delle istituzioni e della stampa – a fallire clamorosamente è stata l’opinione pubblica italiana.
“Il vento istituzionale sta cambiando, i ministri del governo Meloni sono sempre più contrari all’impiego di armi per colpire obiettivi militari in territorio russo, in una comoda confusione tra aggressore e aggredito”.
È una storia sul nostro cinismo, la nostra ignoranza istituzionale e le nostre scarse aspettative come cittadini ed elettori: ci scagliamo contro un ministro per chiedere conto della nomina a incarichi istituzionali della sua presunta amante, ma quando si tratta di fare domande sulla fuga di un trafficante di armi ci ritiriamo in buon ordine.
Lanciamo invettive contro generici trafficanti d’armi, ma quando bisogna davvero processarne uno ci voltiamo dall’altra parte perché è tutto troppo complicato.
Alla politica non resta che prenderne atto.
Ma nessuno esce mai davvero indenne da uno scaricabarile tra poteri dello Stato: né le istituzioni, né l’opinione pubblica, né l’amor proprio dei cittadini.
Antonio Talia
Antonio Talia è scrittore, giornalista d’inchiesta, autore. Il suo ultimo libro è La stagione delle spie. Indagine sugli agenti russi in Italia (Minimum fax, 2023).
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