"Babygirl" e "Trois amies": a Hollywood il desiderio è patinato, in Francia no - Lucy
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Irene Graziosi

“Babygirl” e “Trois amies”: a Hollywood il desiderio è patinato, in Francia no

31 Agosto 2024

Visti uno dopo l’altro, i film di Halina Reijn e Emmanuel Mouret svelano alcune (immortali?) differenze fra Europa e America.

Romy (Nicole Kidman) ha un ruolo apicale in una grande azienda tech americana, assistita dalla giovane e ambiziosa Esme (Sophie Wilde). È sposata con Jacob (Antonio Banderas) e ha due figlie adolescenti. Romy è sempre elegantissima e cura maniacalmente il proprio corpo, a cui il marito non ha mai fatto raggiungere un orgasmo – malgrado stiano insieme da molti anni e abbiano una vita sessuale di tutto rispetto. Jacob a letto è tradizionale, mentre Romy ha delle fantasie un po’ più spinte per le quali si sente in colpa, e ottiene la sua soddisfazione di nascosto dal marito grazie ai porno. Un giorno però viene assunto il giovane stagista Samuel (Harris Dickinson), con cui Romy intesse una relazione passionale che le permetterà di scoprire delle cose di sé e abbandonare la rigidità e la vergogna che l’hanno accompagnata per tutta la vita. 

Babygirl di Halina Reijn, in concorso per il Leone d’Oro, è prima di ogni altra cosa una sorta di mondo utopico progettato a misura di donna americana. Anzi, non americana, newyorkese. Foderata in cappotti lussuosi, efficiente sul lavoro, Romy è una donna che ce l’ha fatta. Ma come ce l’ha fatta? Reijn pare rispondere: comportandosi come un uomo. Del resto è bianca e di qualche generazione fa, cosa che per una certa parte di mondo rende una donna che ha raggiunto un qualche obiettivo nella vita moralmente opaca. Tutto questo ci viene mostrato grazie al contrasto tra Romy e il giovane amante, tra Romy e la liberissima figlia (lesbica), tra Romy e la sua sottoposta Esme (nera). 

Il personaggio di Samuel, invece, oltre a essere bello e giovane, è anche emotivamente maturo, dominante a letto, sensibile ai bisogni altrui e privo di qualsivoglia difetto. Grazie a questi suoi doni straordinari Samuel capisce perfettamente ciò di cui Romy ha bisogno sessualmente ed emotivamente, e la fa crescere in virtù della sua virtù. Chissà se d’ora in poi, dopo esserci liberate del male gaze sulle donne, non daremo vita al female gaze sugli uomini, dipingendoli come aitanti psicoterapeuti dalle abilità sessuali taumaturgiche.

È preoccupante che questo film non sia opera di un’americana, ma di una regista europea, nata e cresciuta in Olanda. Eppure niente lo differenzia da un qualunque film hollywoodiano, essendo infatti prodotto dalla A24, casa di produzione indipendente che da qualche anno sforna film molto amati che in comune hanno l’essere cool. Mentre i due protagonisti mettono in scena una passione da porno d’alto bordo americano già invecchiato, ci si chiede improvvisamente quanta cultura statunitense abbiamo assorbito senza rendercene conto anche quando si tratta di sesso, di raffigurazione dell’intimità, di erotismo, che mal si accorda a questi corpi levigatissimi che si agitano e che pure sembrano così inerti. 

Il film vorrebbe indagare il rapporto tra potere e sesso nella vita delle donne attraverso la sua protagonista, ma la tesi della regista appare troppo netta e i suoi strumenti morali scontati, eccetto per una scena su cui gli spettatori sono in disaccordo: a un certo punto Esme ricatta Romy, e per alcuni è cinica – dimostrando dunque che il potere si ottiene sempre allo stesso modo: strappandolo agli altri – per altri virtuosa, perché nel farlo cerca di aiutare tutte le donne. Ad ogni modo si fatica, una volta usciti dalla sala, a non pensare che in fondo si tratti della parabola più antica (e maschilista?) del mondo, quella di una donna che è potente e che però “non scopa”, e la cui salvezza e liberazione può essere raggiunta tramite il sesso e l’ascolto dei più giovani. 

Di lodevole c’è la bravura dei due protagonisti, e anche la delicatezza con cui sono scritte e interpretate alcune scene di sesso, il corteggiamento, anche la goffagine con cui i due amanti arrivano a capire cosa piace a uno e cosa all’altro. Eppure questi pregi non bastano a scrollarsi di dosso la sensazione di aver visto una serie tv di Netflix (o una puntata della patinatissima serie di Cuarón?).

Che sogno se la risoluzione di tutto ciò che ci rende meschini non si attivasse grazie a una molla sepolta nel nostro inconscio che qualcun altro ha il potere di far saltare per renderci migliori. Ma questo è un pensiero smaltato che giusto gli americani possono coltivare, e a cui invece sarebbe bene opporsi, almeno nel cinema.

Trois amies

In Francia intanto le cose vanno diversamente. Nella commedia leggerissima Trois amies, diretta da Emmanuel Mouret, Joan (India Hair), Alice (Camille Cottin) e Rebecca (Sara Forestier) sono appunto tre amiche alle prese con l’amore, e come sempre accade nelle commedie francesi tutti vanno a letto con tutte e viceversa. Joan rompe con il marito che quella sera stessa fa un incidente, lasciandola in balia del suo senso di colpa lenito poco dopo dall’amicizia con Damien Bonnard. Alice invece sta con un bellimbusto che non le accende chissà quale passione, ma questo la rassicura, perché l’innamoramento per lei è troppo destabilizzante. È anche convinta che il bellimbusto la ami da pazzi, mentre invece lui se la fa con Rebecca, che intanto spinge Alice a fare l’amore con uno spasimante pittore per poter coronare il suo sogno d’amore.

Se negli Stati Uniti sembra che le donne non possano muovere un passo senza chiedersi se non si sia oltrepassato l’angusto perimetro della morale bigotta che le ingabbia, in Francia nessuna si piange troppo addosso: sì, Joan si colpevolizza per la morte del marito, ma in fondo non così tanto, e certo, Rebecca si dispiace al pensiero dell’amica lasciata dal fidanzato per lei, ma non poi troppo, perché tanto ci sarà sempre qualcun altro dietro l’angolo. Eppure in questa gradevole commedia le domande e le risposte sul matrimonio e le relazioni sono più interessanti di quelle poste in Babygirl, più vere. In una delle prime scene, Joan confessa ad Alice di non amare più il marito, e l’amica risponde Certo, neanche io amo il mio uomo di quell’amore che hai in mente tu, lo amo in un altro modo. E allora Joan si chiede cosa sia l’amore, cosa fa rimanere le coppie assieme, e se lo chiederà anche Alice nel corso del film, rendendosi conto che forse l’allegra risposta che aveva dato all’amica all’inizio non era poi così vera. 

Questi due film, visti l’uno dopo l’altro, sembrano svelare una differenza sostanziale tra come gli europei, in particolare qui i francesi, vedono il desiderio, e come lo vedono gli americani. Se per i primi è un movimento misterioso e scanzonato e a volte triste, che spinge verso lidi sconosciuti e traghetta chi ne è sospinto da ciò che credeva di essere e sapere a qualcosa di nuovo, e che dura finché il vento non soffierà verso altri lidi, giusti o sbagliati che siano, per i secondi è qualcosa di controllabile e indirizzabile verso ciò che è corretto e probo, poiché in fondo il desiderio ultimo, quello che tutti dovrebbero percepire, è quello del benessere e della giustizia individuale che diventa poi collettiva. Il rischio, in quest’ultimo caso, è di raccontarsi un sacco di balle. 

Irene Graziosi

Irene Graziosi è autrice, scrittrice e vicedirettrice di Lucy. Il suo ultimo romanzo è Il profilo dell’altra (Edizioni E/O, 2022).

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