Bird è una fiaba tenera e dura su adolescenza e sottoproletariato - Lucy
articolo

Alice Sagrati

Bird è una fiaba tenera e dura su adolescenza e sottoproletariato

14 Maggio 2025

Nel suo ultimo film, Andrea Arnold continua la sua esplorazione dell’adolescenza e del sottoproletariato inglese, combinando in modo riuscito i toni del realismo e del fiabesco.

Dopo Wasp, Fish Tank, e American Honey, la regista britannica Andrea Arnold torna a raccontare l’adolescenza in Bird, il suo quinto lungometraggio di finzione. Qui lo fa affidandosi a estremi che sembrerebbero tra loro inconciliabili, se non maneggiati con sapienza od originalità: realismo sociale di stampo quasi documentaristico e vena fiabesca. Coerentemente con le sue opere precedenti, Arnold prosegue la sua esplorazione di chi si ritrova a diventare adulto in contesti fragili, disordinati, feroci, eppure mai del tutto disperati. Qui è il Kent, nel sud-est dell’Inghilterra, a fare da scenario a un coming-of-age turbolento.

Protagonista del film è Bailey (Nykiya Adams al suo esordio), dodicenne riottosa, vestiti baggy e una fascinazione particolare verso tutti gli animali intorno a lei, che riprende minuziosamente col telefono, e riguarda pedissequamente nella sua stanza da letto che di accogliente non ha niente: un materasso a terra e delle coperte disposte a creare una sorta di fortino. Bailey vive in uno squat con il giovane padre Bug (Barry Keoghan, tatuaggi ovunque – tra i quali, appunto, un enorme “bug” – sul collo) e con il fratellastro Hunter (Jason Buda, anche lui esordiente), che come molti adolescenti trattiene dentro di sé rabbia e paura, che è spesso incapace di gestire. Bug è un adulto irresponsabile, impulsivo, un bambino in mezzo ai bambini. Sta per sposare una donna conosciuta appena tre mesi prima e spera di finanziare le nozze con un’idea assieme ridicola e ingegnosa: vendere le secrezioni psicotrope di un rospo importato dal Colorado. Secrezioni che avvengono solo quando il rospo è sottoposto all’ascolto di canzoni romantiche, con particolare predilezione per Yellow dei Coldplay. Arnold, ancora una volta, racconta una storia di sottoproletariato inglese, e lo fa seguendo da vicino il percorso di formazione di Bailey. Lei guarda al mondo con curiosità, è vitale, ed è per questo che anche lo squat dove vive è invaso dalla luce. Arnold, senza edulcorare la condizione sociale e familiare di Bailey, la fa muovere in uno spazio dalle grandi finestre, dalle quali guardare fuori, sporgersi oltre.  

Questa è la grande differenza tra lo squat e la casa sovraffollata, caotica ma mesta dove invece vive sua madre, assieme alle sue sorelline e al fratellino, e a un compagno violento. I bambini giocano per strada, usano materassi abbandonati come trampolini, e riescono a sopravvivere anche nell’incertezza e nell’incuria. La casa però è cupa, le finestre sono serrate, le tende tirate, la luce non filtra dalle tapparelle; l’aria si immagina mefitica, si prova un senso di asfissia. Non sembra esserci via di uscita da quel posto e Bailey lo sa. Per questo prova a portare i suoi fratellastri altrove, dove i loro visi possono essere inondati di quella luce che lì è loro negata. C’è nel film una attenzione particolare per la luce, fortemente caratterizzante, che è curata dall’occhio attento di Robbie Ryan, già in passato direttore della fotografia di Arnold. Se Arnold segue i suoi personaggi, li incalza con una camera a mano di stampo quasi documentaristico, la fotografia di Ryan opera in una direzione “non-naturalistica” ed espressionistica: la luce si fa liberatoria all’interno della squat house, soffocante nella la casa della madre di Bailey.  

Bailey è determinata, sembra più matura della sua età, è “quella che risolve le situazioni”, ma è pur sempre una dodicenne, indocile all’autorità dei genitori, con i quali è spesso più semplice lo scontro che il dialogo. Dopo una violenta lite con Bug che la vorrebbe damigella al suo matrimonio e la prega – anche ricorrendo alla forza –  di indossare una tutina glitterata cucina dalla futura moglie, Bailey scappa di casa. 

Passa la notte a zonzo e si risveglia in un prato. È qui che incontra Bird (Franz Rogowski), un adulto dal candore fanciullesco che si muove con l’imprevedibilità giocosa e ferina di un animale. La luce dell’alba avvolge i due personaggi: attorno a loro, solo alberi e radura; la natura si apre attorno a loro come una possibilità di fuga verso altri luoghi e possibilità. Bird è un extraterrestre agli occhi di Bailey, indossa un kilt e ha sulle spalle un piccolo zainetto sgualcito – di certo non rispetta i codici estetici a cui è abituata. Bird è in cerca dei suoi genitori, Bailey è in fuga (anche solo per una notte) da suo padre. I due, sono destinati ad avvicinarsi; lei inizialmente perché incuriosita dalla sua storia e dalla sua “stranezza”; lui perché crede che il loro incontro sia stato frutto del destino. Bailey e Bird si metteranno a ricerca dei genitori di Bird, in un viaggio che sarà utile a entrambi. 

Bird diventa una figura familiare per Bailey: conosce le sue sorelline e il fratellino (che sembrano subito affezionarsi a lui, lo abbracciano, gli sorridono, quasi fosse la prima persona gentile mai incontrata), la madre e il compagno. Da quest’ultimo, uomo aggressivo e irruento, sembrano tutti terrorizzati, e attenti a non provocarne l’ira. Al punto che la madre, di fronte all’ennesimo sopruso, si paralizza, incapace di reagire. Bailey invece rispondo a tono, incalza l’uomo, riprendendolo col suo telefono. Lo smartphone funziona come un’ arma nel film, che registra la violenza e la mette in scena per scopi riparativi. Cosa evidente soprattutto nell’uso che ne fa Hunter, il fratellastro di Bailey, che riprende con il telefono alcune spedizioni punitive che lui e suoi amici compiono ai danni di uomini colpevoli di violenza domestica Bailey fa lo stesso, brandendo il telefono contro il compagno della madre e riprendendo i suoi abusi. C’è un’idea di “regia nella regia” qui, di “schermo dentro lo schermo”: la violenza è mediata dallo sguardo di chi la riprende, la subisce e la vendica. Per Bailey la camera però non è solo uno strumento di documentazione del reale, ma un’opportunità di emancipazione dello sguardo e di contemplazione: riprende gli uccelli che volano nel cielo con curiosità e quasi velleità poetiche, di certo riconoscendo in loro una forma di libertà a cui aspirare. 

Bird, figura ibrida e difficile da irreggimentare – adulto e bambino, umano e animale – , incarna questa tensione verso la libertà – sociale e relazionale. Compagno di viaggio ma, per così dire, figura salvifica anche oltre la sua volontà.

“Non sono un eroe”, dice Bird. E infatti non lo è, anche perché Arnold sembra sapere che non ci possono essere eroi in certe periferie. A Bailey serve piuttosto qualcuno che l’accompagni in questo suo passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Bird consente a Bailey di guardare il mondo da una prospettiva nuova, letteralmente: in più di un’occasione, i protagonisti osservano il paesaggio da una prospettiva aerea, come se solo da lassù fosse possibile guardare con maggior compiutezza le cose. In una sequenza emblematica, Bailey aiuta il suo fratellastro Hunter a recapitare un messaggio alla fidanzata incinta che i genitori tengono prigioniera in camera. Sarà un uccello, appollaiato sulla ringhiera del balcone, ad avere un ruolo decisivo in questa impresa.   a. È un momento piccolo, ma rivelatore: Bird scivola senza sforzo tra il reale e il magico, e proprio in questa ambiguità trova la sua forza. 

“Arnold prosegue la sua esplorazione di chi si ritrova a diventare adulto in contesti fragili, disordinati, feroci, eppure mai del tutto disperati”.

Come in altri suoi film – il documentario Cow e il corto Dog su tutti – Arnold osserva la natura e gli animali con partecipazione e rispetto, rendendoli non solo simbolo e sfondo di fantasie e proiezioni umane. Gli uccelli, le farfalle, i cavalli: tutto è vivo, tangibile, parlante. La natura sa farsi capire a chi, come Bailey, ha ancora la capacità di ascoltare. È questa “visione interna” a prevalere sulla visione esterna e sociale, che invece cerca di incasellare, giudicare, reprimere. La camera di Arnold racconta il mondo esterno, il telefono di Bailey invece il suo mondo interiore. Il film si apre e si chiude sugli animali; se nella scena iniziale vediamo Bailey osservare un uccello librarsi in volo, nella scena finale vediamo prima gli occhi di Bailey cambiare colore, ibridarsi di tratti animaleschi, e poi una piccola volpe guardare in camera.  

In Bird, Andrea Arnold rinnova il proprio sguardo, ampliando la grammatica visiva che già in Fish Tank e American Honey faceva affidamento su una una camera a mano vivace e incalzante, con largo uso di primi e primissimi piani, e una colonna sonora brit-pop ben utilizzata all’interno del racconto (e se è vero che the future’s been sold come cantano Bug e i suoi, è anche vero che I’m a lucky man with fire in my hands e quindi c’è sempre una possibile frizione verso un cambiamento), dando un risalto inedito, nel suo cinema, al fantastico che, nella parte finale, si fa esuberante. Arnold combina in modo riuscito reale e fiabesco.
Nel film la regista riesce bene a far convivere scene simboliche e intuitive, e scene consapevolmente didascaliche, semplici e genuine come certi momenti di felicità. Ad esempio: Bug che dice a suo figlio che non è stato un errore, Bird che dice a Bailey che andrà tutto bene – due diverse ma complementari figure paterne. 

Ma Bird è anche un film sulla risignificazione della realtà attraverso una pratica utopica che è possibile solo se condivisa con l’altro. È stare vicino a chi lotta per sopravvivere, è provare a colmare le lacune dell’altro, è una pratica di mutualismo. Come ha fatto Céline Sciamma nel suo Petite maman, Arnold costruisce un dispositivo narrativo in cui l’elemento fantastico convive felicemente con il reale. Se Sciamma immagina un incontro impossibile tra una bambina e sua madre anch’essa tornata bambina, Arnold crea un amico-volatile che può combattere la violenza degli adulti, portare messaggi, offrire ascolto. La realtà è riformulata in chiave simbolica, nel tentativo di costruire un “altrove” in cui i desideri più profondi – di cura, di presenza, di libertà – possano trovare realizzazione.

Questo approccio spezza la struttura classica del realismo sociale alla Ken Loach, a cui Arnold pure si ispira per ambientazioni e tematiche. Prendiamo come esempio Kes, opera seconda di Loach, che racconta dell’amicizia tra un ragazzino di quindici anni e un uccello. Se in Kes il rapporto tra il protagonista e il suo falco terminava con una amara sconfitta (l’uccello muore, il ragazzino rimane prigioniero del contesto sociale opprimente in cui vive), Bird si apre invece a una possibilità altra. Bird vive, e anche se probabilmente non si vedranno mai più, Bailey riesce a guardare il mondo in maniera nuova. La realtà resta dura, inospitale, ma non definitivamente soverchiante. C’è uno spiraglio, una luce, una forza che nasce dalla relazione con l’altro, dalla solidarietà e dall’istinto di protezione nei confronti di chi è più debole.

Andrea Arnold non cerca di salvare i suoi personaggi. Li accompagna. Li guarda con affetto e lucidità, senza pietismo né moralismi. Li segue nei loro fallimenti, nei loro slanci, nei loro desideri. E costruisce per loro – e per noi – uno spazio fragile ma potentissimo, in cui anche la più marginale delle esistenze può trovare un significato. 

Alice Sagrati

Alice Sagrati è autrice e sceneggiatrice. Scrive per diverse riviste e ha fondato «Rivista Stanca».

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