Mattia Venturi
Dall’esordio di Iosonouncane e Daniela Pes ai ritmi martellanti di Floating Points, dal jazz alla techno: "Per Aspera Ad Astra", la XXIII edizione di C2C Festival, conferma la sua vocazione avant-pop e racconta qualcosa di Torino, la città che lo ospita.
Si è appena conclusa la prima edizione di C2C successiva alla scomparsa, nel marzo scorso, di Sergio Ricciardone, co-fondatore e direttore artistico del festival negli ultimi 25 anni. Un uomo che aveva fatto del dialogo tra le arti una forma di resistenza culturale, capace di trasformare Torino in un crocevia musicale internazionale.
Il tema scelto – Per aspera ad astra – è una risposta diretta a quella perdita: “attraversare l’ombra per raggiungere la luce” recita il motto latino ripreso, in alcune varianti, prima nell’Eneide, poi da Seneca nell’Hercules Furens e infine divenuto così celebre nella cultura contemporanea da essere inserito (tradotto in codice Morse) tra i 55 messaggi destinati a eventuali forme di vita extraterrestri del Voyager Golden Record, il disco d’oro collocato sulle sonde spaziali lanciate nel 1977, e ora in viaggio oltre il sistema solare. Ma forse il motivo per cui lo stesso motto compariva in calce alle mail di Ricciardone era dovuto più che altro alla citazione della massima di Franco Battiato nell’album Apriti sesamo del 2012; artista che Ricciardone aveva definito, in un’intervista a «Rolling Stone» “il migliore di tutti”, e che è riuscito a inserire in cartellone del festival nel 2014.
“Luce” e “ombra” sono categorie che si prestano a raccontare anche la città che da sempre ospita C2C. Torino è fatta di contrasti: aristocratica e operaia, accogliente e schiva, elegante e inquieta. Vive da sempre una tensione tra la voglia di trovarsi al centro del mondo e un pudore che le fa sperare che non ci si accorga troppo di lei. In questa dialettica, il C2C – insieme ad Artissima e al Salone Internazionale del Libro – spinge evidentemente nella prima direzione. Sono questi i momenti in cui la città è più aperta che mai: due rituali collettivi complementari – uno che annuncia l’estate, l’altro che ne segna la fine. A testimonianza dello spirito che rema in direzione opposta, condivido il messaggio di un torinese ricevuto qualche giorno prima del festival: “Sono iniziate le due settimane in cui Torino diventa la Giudecca del Nono cerchio dell’inferno”.
La storia di C2C e quella di Torino sono sovrapponibili, con la prima che talvolta anticipa o guida i mutamenti della seconda.
Il festival – al secolo Club to Club – nasce nel 2002, dall’intuizione di Ricciardone, Roberto Spallacci e Giorgio Valletta: una festa mobile (ci si spostava con la navetta in giro per la città) che andava dai locali del Lungo Po fino all’Hiroshima e ai Docks Dora. Erano gli anni dei Murazzi, dei locali aperti fino all’alba, di Torino underground, laboratorio di controcultura; una città più sporca e cattiva, forse, ma certamente anche più vivace. Paolo Giordano parla dei Murazzi come “il faro della sua generazione”. Sergio Ricciardone, nell’intervista sopra citata, la descrive così: “Erano anni in cui la Fiat stava fallendo, la città era terrorizzata dal futuro incerto. Quindi c’era una grande libertà. Io nel ’97/’98 organizzavo serate nei club che duravano 12 ore. Facevamo arrivare le colazioni alle 7-8 del mattino e si continuava a ballare.”
A metà degli anni Duemila comincia la mutazione. Per Torino arrivano le Olimpiadi invernali. Negli anni successivi, per C2C comincia l’accentramento verso il Lingotto, che dal 2011 diventa la sede principale. Nel 2012, il Comune chiude con un’ordinanza la quasi totalità dei locali dei Murazzi, ufficialmente per motivi di sicurezza.
Io mi trasferisco a Torino nel 2013. Arrivare in città in quell’anno è stato un po’ come presentarsi a casa di qualcuno per cena, con una bottiglia di vino sottobraccio, e scoprire che i commensali sono già arrivati agli amari. La città si portava già addosso la nostalgia per quella stagione irripetibile. Lo spirito che l’aveva animata sopravviveva in alcuni sparuti centri sociali, nei locali fuori dal centro e nel C2C, che stava già assumendo le sembianze di ciò che conosciamo oggi: meno clubbing puro, più laboratorio musicale e visivo, più pop.
Da allora non ho mancato un’edizione. In dieci anni di festival ho visto alternarsi sui palchi, oltre a Battiato: Thom Yorke, Aphex Twin, Nicolas Jaar, Arca, Jamie xx, Kode9. All’elettronica e al clubbing puro si sono aggiunti: il jazz, la psichedelia, la trance, il rap, il nu soul, l’R&B, il britpop, la trap.
Chi il C2C lo organizza si riconosce nell’espressione avant-pop. Myra Geraldine Meterangelo, ufficio stampa di C2C con cui ho parlato per scrivere questo pezzo, mi dice che per loro avant-pop significa “provare a immaginare dove la musica stia andando”. La parola chiave è contaminazione: generi, estetiche e pubblici diversi che condividono uno stesso spazio.
“Il festival – al secolo Club to Club – nasce nel 2002, dall’intuizione di Ricciardone, Roberto Spallacci e Giorgio Valletta: una festa mobile (ci si spostava con la navetta in giro per la città) che andava dai locali del Lungo Po fino all’Hiroshima e ai Docks Dora”.
Quest’anno, insomma, il tema non poteva che essere Per aspera ad astra. Anche la nomina di Guido Savini a direttore artistico (era già co-curatore da anni) è avvenuta senza proclami, con understatement sabaudo.
Il C2C 2025 ha superato le 42 mila presenze. Il 40% del pubblico arriva dall’estero, un quarto di questi dagli Stati Uniti, dove nel 2023 il festival ha inaugurato la prima edizione newyorkese. Oggi è diffuso, più che nei club, nei centri culturali della città: alle OGR, all’ostello Combo, l’headquarter, dove artisti, giornalisti e pubblico si mescolano a ritirare i pass e a condividere una birra prima del set, fino allo Spazio211, e ai laboratori per bambini di C2C Kids e ai talk disseminati nei quartieri.
Vado alle serate di venerdì e sabato. Il venerdì supero i cancelli alle nove e mezza. So di essermi perso Ali Sethi e Nicolas Jaar.
Jaar è ormai un habitué del C2C e l’ho visto più volte in passato. Ero curioso di ascoltare la collaborazione con Sethi, cantante pakistano che intreccia le tradizioni del qawwali con l’elettronica liquida di Jaar. I due si sono conosciuti a New York, dopo che Sethi aveva remixato un suo brano, e da lì è nata l’idea del progetto comune.
Ho grandi aspettative anche per il nuovo progetto di Iosonouncane e Daniela Pes. Il primo ha scoperto la seconda, entrambi vengono dalla Sardegna e condividono un’idea di musica come costruzione di mondi sonori. È la prima volta che si esibiscono insieme. Lei canta in una lingua che non esiste, fatta di arcaismi e neologismi, che vibra come uno strumento a corda. Lui le fa da controcanto con un loop che si avvolge su sé stesso. L’interazione tra i due diventa un rituale ipnotico che dissolve i confini tra parola e suono.
Durante il cambio palco faccio un giro nell’altra sala. Sia lo Stone Island Stage che il Main Stage sono ancora semivuoti. Al bar, un ragazzo dice: “Mi sembra di stare a teatro.” Credo sia il suo modo per dire che la proposta è più da ascolto che da pista. Trovo che non sia un difetto, anzi. Poi, senza preavviso, parte Skee Mask. Non lo conoscevo: produttore di Monaco, ex Ilian Tape (lo scopro in seguito cercando online); uno dei pochi capaci di passare dalla breakbeat alla techno senza perdere un grammo di peso specifico. Il suo set non divaga troppo: cassa 4/4 che non concede tregua, glitch e riverberi che tagliano l’aria come le lame di luce.
Mi accorgo tardi di essermi perso Saya Gray, canadese, bassista e cantante, che fonde soul e sperimentazione in un pop traslucido. Rientrando al Main Stage, sono ancora in tempo per Blood Orange, che porta dal vivo Essex Honey, uno dei dischi più belli dell’anno. La sua è una recherche ambientata nella campagna inglese. Ma non ci sono madeleine: a riemergere non è la dolcezza del ricordo, bensì il lutto per la madre scomparsa. Sul palco, Blood Orange sembra un cantautore indie travestito da rapper. Il suo è un concerto introspettivo e complesso, da degno erede del nu soul gentile e sensuale di D’Angelo.
Il sabato è di gran lunga la serata più ballabile. Ecco2k apre con un set spigoloso: luci strobo e bassi che vibrano come impulsi nervosi. Subito dopo Nourished by Time, che alterna R&B e post-punk, voce languida e ritmiche spezzate. Ma la vera sorpresa, per me, sono XIII & Sabla. È un duo italiano – lo scopro solo più tardi, cercando di capire cosa ho appena visto. Il loro set è trance pura: un flusso ininterrotto di techno, jazz e drum’n’bass, senza compiacimenti. Hanno spaccato.
Credits photo: LLum Collettivo – Art Direction Studio Grand Hotel.
A.G. Cook, invece, sembra divertirsi a sabotare l’hyper-pop: alterna drop spiazzanti, voci campionate e melodie distorte. È un po’ come vedere i Blur, Charli XCX e Brian Eno che fanno shopping in un centro commerciale di Tokyo. Quando si mette a cantare in autotune, confesso di essermi un po’ annoiato. Ecco che commetto l’unico errore del weekend: vado a fare un giro nello Stone Island Stage. Il lamento della chitarra di Los Thuthanaka è una proposta che confesso di non aver capito a pieno.
Floating Points entra con un ritmo martellante, costruito su bassi elastici e geometrie luminose. È un suono che cresce per accumulo, si deforma, implode, poi esplode di nuovo: techno cerebrale ma profondamente fisica. I visual – un vortice di linee e bagliori dorati – amplificano l’effetto ipnotico. Il pubblico, a quel punto, è un unico respiro sincronizzato con la cassa.
Poi arriva Four Tet. Non so cosa aspettarmi: penso a un set contemplativo, invece la spara forte. È la sua versione più cattiva, ritmica, viscerale. Tra un’esplosione e l’altra, però, affiora anche la sua vena più malinconica – quella di Into Dust, tra i singoli più recenti.
Quando esco dal Lingotto non è ancora l’alba. Decido di tornare a piedi. L’aria è ferma. Cammino lungo via Nizza, seguendo i lampioni. È quando sto per arrivare, che il cielo si schiarisce e Torino mi sembra irradiata dalla sua luce migliore.
Credits photo: LLum Collettivo – Art Direction Studio Grand Hotel.
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