Nicola Lagioia
14 Novembre 2024
L’"Ulisse" di Joyce è un capolavoro così denso e stratificato che, letto per la prima volta o riletto a distanza di tempo, si arricchisce ogni volta di nuove sfumature e prospettive.
Ho cominciato a leggere l’Ulisse che avevo diciassette anni e credo di non aver finito mai. A volte mi illudo che, appena morto, la coscienza in me si spegnerà qualche istante prima della memoria dei brani dei romanzi che ho amato, dei versi di alcune poesie, che dunque sosteranno per un soffio in un luogo imprecisato tra i due mondi. Nonostante una frequentazione più che trentennale, non credo di saper rivelare su questo meraviglioso libro più di quanto tanti studiosi e appassionati hanno fatto dal 1922, con strumenti migliori dei miei. L’unica testimonianza che posso portare riguarda il modo in cui l’eroicomica giornata del 16 giugno del 1904 (il Bloomsday come data miliare, culmine e fine della modernità, esplosa come i fuochi d’artificio visti da Gerty MacDowell sulla spiaggia di Sandymount nell’episodio di Nausicaa) ha lavorato dentro di me, dall’adolescenza alla giovinezza all’età adulta. Com’è cambiato nel tempo il mio sentimento dell’Ulisse?
Da ragazzo il mio eroe era senza dubbio Stephen Dedalus. Il giovane ribelle, il principe spodestato, l’artista incompreso e squattrinato, l’incarnazione metropolitana di Telemaco e di Amleto, così pieno di orgoglio, sprezzatura, erudizione, animo nobile tra i Proci. Chi non si è sentito così, almeno una volta, durante gli anni dell’apprendistato?
Chiuso nel suo labirinto popolato di spettri, Stephen è una figura tutta spigoli, fatto di intelligenza luminosa e ferite tenute insieme dal furore. Volendolo visualizzare per mano di grandi artisti figurativi, l’ho immaginato nel tempo come un’incisione di Blake, un ritratto di Munch, persino una di quelle fuggenti e stilizzate figure del Franz Kafka disegnatore a inchiostro. Non Dio, non Patria, non Famiglia: il rifiuto di Stephen mi affascinava. C’era, in lui, la polemica contro l’Inghilterra usurpatrice, e qui il mio disprezzo verso l’arroganza del potere costituito ci andava a nozze. C’era poi il rifiuto della religione organizzata, un’avversione nei confronti della Chiesa cattolica che apprezzavo ancora di più, perché l’esercizio del potere con la scusa di salvarti l’anima mi sembrava un’aggravante. Ma in Stephen quel rifiuto toccava punte metafisiche, ed è qui che il gioco si faceva interessante. Seguendo le sue azioni e le sue elucubrazioni sulla pagina, riconoscevo un radicale tentativo di sbattezzarsi, di strapparsi via di dosso per davvero la religione che l’aveva formato. A cosa avrebbe portato questa abiura? Ad alleggerirsi di un peso? A essere finalmente un artista libero? O a precipitare nel vuoto? Magari, mi dicevo, abbandonare in quel modo così violento la religione cattolica era la via per consegnarsi tra le braccia del mito, di quel mare che si osserva dalla Torre di Sandycove dove il libro inizia, nell’acqua che tutto ricorda e tutto cancella, da cui viene ogni vivente. Rinnegare Cristo (un altro giovane tradito?) lo avrebbe forse aiutato in una delle imprese impossibili per cui questo personaggio è noto: risvegliarsi dall’incubo della Storia.
Il fatto è che Stephen era arrivato a rifiutare la disperata richiesta di sua madre. La donna, sul letto di morte, lo aveva scongiurato di inginocchiarsi e di pregare per lei. Stephen non lo aveva fatto. L’orgoglio e la coerenza gli avevano impedito di esperire la più alta e pietosa manifestazione dell’amore filiale. Questo faceva davvero paura.
“Ho cominciato a leggere l’Ulisse che avevo diciassette anni e credo di non aver finito mai. A volte mi illudo che, appena morto, la coscienza in me si spegnerà qualche istante prima della memoria dei brani dei romanzi che ho amato”.
“C’è ancora una macchia qui” fa notare Joyce (perfettamente confuso nel suo giovane personaggio) citando il Macbeth nell’episodio di Telemaco, mentre Stephen sta facendo scendere del miele su una fetta di pane, e Haines (l’inglese, il nemico di sempre) si sta annodando una sciarpa sulla camicia da tennis. Dove si apre realmente, in questo passo dell’Ulisse, la macchia di shakespeariana memoria? Sporca Haines, Stephen, o entrambi? Una colpa persiste in Stephen, mi sembrava di poter dire, e in qualche oscuro modo lui ne è consapevole. Il fatto che in questo personaggio si mescolassero Amleto e Lady Macbeth tingeva di tetra ironia una figura che altrimenti sarebbe apparsa sin troppo dura e monocorde (ma la durezza, in Stephen, come in ogni giovane di valore, è un guscio nero sotto cui può agitarsi di tutto). E infatti queste contraddizioni esploderanno poi in Circe, nel bordello di Bella Cohen, quando a Stephen appare il fantasma in decomposizione di sua madre (altro motivo shakespeariano), e a lui non resta che affrontare il proprio senso di colpa, e il proprio dolore, armato solo di un bastone.
L’episodio chiave di Stephen Dedalus mi è sempre sembrato a ogni modo Proteo, il terzo capitolo di Ulisse, quando il giovane passeggia per la spiaggia pensando ai fatti propri, meditando sui genitori, sull’Irlanda oppressa, sul suo passato di studente a Parigi, ma soprattutto sull’eventualità di una realtà eterna dietro l’apparenza e la mutevolezza del mondo visibile. È qui, in uno dei primi flussi di coscienza del romanzo, che per Stephen si intravede la possibilità di uscire dal labirinto. Non potrà farlo da solo. Veniamo dunque al suo padre putativo.
Quando ho riletto Ulisse non più ventenne, ma da trentenne e quarantenne, i miei favori e il mio affetto hanno cominciato a spostarsi verso Leopold Bloom. “L’uomo medio sensuale”, come l’aveva definito Ezra Pound, cominciò ad apparirmi ben più eroico (e comico) dello spigoloso Stephen. Cos’è che ho iniziato ad amare in Leopold? La pazienza, certo, ma anche gli appetiti, la capacità di sopportare dolori e frustrazioni, ma anche la curiosità, la composita natura del combustibile che lo fa errare in lungo e in largo per Dublino. Se il non serviam fatto di non Dio, non Patria, non Famiglia è il mantra di Stephen, una ben più affascinante trinità (sensualità, rimpianto, gelosia) muove le azioni e i pensieri di Leopold. Dietro il suo apparente conformismo ho cominciato a riconoscere ricchezze e sfumature sempre più sorprendenti, che i furori dell’età giovanile mi impedivano con evidenza di mettere a fuoco. Il suicidio del padre, l’ossessione per Boylan, l’amante di sua moglie, il pensiero ricorrente a Rudy, il figlio suo e di Molly morto undici giorni dopo essere venuto alla luce (e che in quel 16 giugno del 1904 avrebbe 11 anni), l’orologio che si ferma proprio nel momento in cui tra Boylan e Molly si sta consumando un amplesso: sono motivi drammatici (e melodrammatici) che da un certo punto in poi mi hanno stretto il cuore, facendomi sentire Leopold sempre più caro. La forza conoscitiva e la capacità percettiva che Leopold cela dietro il buon senso e la bonomia sono il tesoro nascosto di questo personaggio. Basti pensare allo spettro di Rudy (grande quanto sarebbe stato se fosse vissuto, con l’uniforme di Eton, e le scarpine di cristallo, e un copricapo di bronzo, e un libro in mano), che compare a Bloom nello stesso capitolo in cui Stephen combatte armato di bastone contro il fantasma di sua madre. Convivono, nell’apparizione di Rudy, una tale tenerezza, e una tale nostalgia (la glorificazione di entrambi i sentimenti in un momento fuggevole, ciò che è perduto per sempre è ciò che forse può salvarci) capaci di portare Leopold su vette che alle prime letture del romanzo non avrei associato al personaggio.
La mia esperienza da cinquantenne dell’Ulisse si concentra invece su Molly. (Non posso non trovare singolare che la mia predilezione, nel tempo, si sia mossa in parallelo a come, nello spazio del romanzo, è dato progressivo risalto ai tre personaggi.) Nel dormiveglia di Molly tutto precipita nella notte e tutto si ricompone. È lei in definitiva – Penelope, non Ulisse; la Grande Madre più che il figlio ribelle e il padre putativo – la vera narratrice del romanzo. La tela, del resto, ha che fare con la trama. Non starò ad analizzare i tantissimi momenti prodigiosi del monologo finale, è stato fatto in maniera eccellente e per fortuna incompleta, dal momento che questo libro non è ancora esaurito dalle interpretazioni di tutti quelli che vi si sono avvicendati. Dirò due piccole cose, minuscole intuizioni da sottoporre a verifica, pronte a essere spazzate da letture più illuminanti.
La prima è che, dietro certi pensieri frivoli di Molly, pulsa una coscienza gigantesca, una conoscenza notturna, sotterranea, acquorea, l’anima del mondo di cui il corpo della donna (indistinguibile a un certo punto dal suo pensiero) è la parte per il tutto. Il ventre per tutti i ventri, verrebbe da dire. È qui che il flusso di Molly-Penelope dialoga, ho l’impressione, con almeno tre gigantesche entità. La prima è l’Odissea anteriore a Omero, cioè il racconto orale (e corale) delle gesta di Odisseo, così mobile e vivo, che ha preceduto per secoli la successiva cristallizzazione nel testo scritto. L’intera cifra di Ulisse, la sua polilingua, elettrica e sensuale, che nel monologo di Molly Bloom raggiunge il suo culmine, si può con- siderare un tentativo di risvegliare-resuscitare – dall’interno dell’umanità, dal nostro inconscio – quel “morto orale” che è la vera vittima di 2500 anni di letteratura scritta. Gli altri due classici del pensiero occidentale a cui James Joyce, attraverso Molly Bloom, dà del tu nel monologo finale mi sembrano il De rerum natura di Lucrezio e Le metamorfosi di Ovidio, libri dei mutamenti e dell’eternità. Il mito (come scopriranno per pochi istanti anche l’Ulrich e la Agathe dell’Uomo senza qualità nelle pagine più belle e struggenti del libro di Musil) non possiede una vera origine, un momento ontologico a cui tornare, tutto il contrario, è l’esito di un gioco infinito ed eterno, il frutto di una continua negoziazione tra le forze più belle e perturbanti del cosmo, alle quali la nostra parte migliore può cercare, quando riesce, di accordarsi.
“Chiuso nel suo labirinto popolato di spettri, Stephen è una figura tutta spigoli, fatto di intelligenza luminosa e ferite tenute insieme dal furore”.
Questo porta alla seconda piccola intuizione su Penelope. Riguarda il “sì” finale. A una lettura superficiale l’avverbio in questione si riduce a una semplice risposta alle richieste di Leopold, addirittura un cedimento. La classica lettura dell’Ulisse legge quel “sì”, piuttosto, come una generale ac- cettazione della vita: tutto ciò che non riescono a risolvere prima Stephen e poi Leopold lo scioglie Molly accogliendo la vita con tutto il suo splendore e i suoi drammi, i suoi dolori e i piccoli momenti di gloria. Da qualche tempo a questa parte, quella parola finale a me sembra, però, anche altro, più potente dell’accoglimento di una richiesta, più vasto persino di un’accettazione generalizzata. Quello di Molly, credo oggi, è anche un “sì” generativo. È pronunciando quella sillaba che Molly Bloom genera la storia che abbiamo appena finito di leggere. Senza quel “sì” le complicate e banali e così care vicende di Molly e Leopold e Milly e Boylan e Rudy non si sarebbero mai intrecciate tra loro, così come non si sarebbero incrociati in quel modo, sul far della notte, Leopold e Stephen. È con quel “sì” che Molly crea il mondo.
“In principio era il Verbo” scrive san Giovanni. Bene. Spostare quel Verbo dalla bocca di Dio ai pensieri di una donna stesa nel suo letto al 7 di Eccles Street, a Dublino, è tra i gesti più audaci che uno scrittore abbia mai compiuto, l’uscita (attraverso un libro magico) di noi lettori dall’incubo della narrazione storiografica, proprio mentre la Storia (quel 2 febbraio 1922 in cui Ulisse fu pubblicato) si preparava ad allestire nuovi incubi.
Nicola Lagioia
Nicola Lagioia è scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico e direttore editoriale di Lucy. Il suo ultimo libro è La città dei vivi (Einaudi, 2020).
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