Nicola Lagioia e Francesca Lagioia
14 Gennaio 2025
Francesca Lagioia, esperta di Informatica Giuridica e AI, racconta i risvolti di un eventuale accordo con Starlink, della fine del fact-checking di Meta e dell'idea che un altro futuro sia inimmaginabile.
Nel giro di pochi giorni sullo scacchiere internazionale sono successe diverse cose “interessanti”, per certi versi sono vicende allarmanti e nuove, almeno per come abbiamo inteso per anni i rapporti tra potenze ed economie occidentali.
Donald Trump ha dichiarato le proprie mire su Canada e Groenlandia. Elon Musk ha apertamente attaccato i governi di Germania e Regno Unito. Mark Zuckerberg ha annunciato la fine del fact checking su Meta. Il Presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni si è recata negli Stati Uniti. Qui ha visto Trump. Secondo Bloomberg si è discussa la possibilità di un accordo tra il governo italiano e Starlink, l’azienda di telecomunicazioni satellitari di Elon Musk.
Su come le nuove tecnologie rischiano di erodere le nostre democrazie si sta scrivendo molto, ma non di rado fatico a capire, su un piano più specifico e dettagliato, quali sono i pericoli che di volta in volta corriamo. Ho la fortuna di conoscere una persona che su questi temi studia e lavora da anni, mia sorella. Questa volta mi sono rivolto a lei.
Francesca Lagioia è Professoressa associata di Informatica giuridica, intelligenza artificiale e Diritto ed etica per l’intelligenza artificiale presso l’Università di Bologna, e professoressa part-time presso l’Istituto Universitario Europeo di Firenze. Si occupa di intelligenza artificiale, etica e diritto, privacy e protezione dei dati, diritto dei consumatori, AI e democrazia e di modelli computabili del diritto.
Buongiorno Francesca. Secondo quanto riferito da «Bloomberg», il governo italiano e SpaceX starebbero discutendo un accordo per acquistare dall’azienda di Musk un sistema di sicurezza per le reti telefoniche e i servizi internet del governo, comprese le comunicazioni militari e i servizi satellitari per le emergenze. Fonti della Presidenza del consiglio smentiscono che un accordo sia all’ordine del giorno, ma altri esponenti di questo governo si sono dichiarati favorevoli all’eventualità che l’accordo ci sia, o addirittura lo reputano inevitabile. Verrebbe da dire con una battuta che l’augurio iniziale era che Musk investisse denaro in Italia con le sue fabbriche, non che l’Italia pagasse Musk per mettergli in mano la nostra sicurezza. Come sarebbe da giudicare un’operazione di questo tipo?
Credo sia un’operazione molto rischiosa, sia dal punto di vista politico che tecnico. Significa mettere la sicurezza e l’indipendenza strategica del paese non solo nelle mani di un’impresa privata, ma di un singolo, forse in parte anche di un governo estero, ora che Musk è a tutti gli effetti un politico alla direzione del Dipartimento per l’Efficienza Governativa degli Stati Uniti.
Possiamo pensare alle infrastrutture internet come al sistema nervoso di uno Stato. Trasmettono dati personali, informazioni militari, governative ed economiche. Consentono il coordinamento di attività e servizi fondamentali, come l’energia, i trasporti, la sanità e la sicurezza. In caso di crisi, conflitti armati, emergenze e disastri naturali, permettono di gestire operazioni di soccorso e coordinare difese militari. Nel caso delle infrastrutture satellitari, raggiungendo anche aree remote, dove cavi e fibre ottiche non arrivano.
Ma cosa succede se i nostri interessi politici, economici e sociali non sono in linea con quelli privati dell’impresa a cui ci affidiamo, o con quelli dell’uomo che la gestisce, o con gli interessi di uno Stato estero, in un contesto internazionale sempre più complesso?
Se il sistema nervoso del nostro corpo fosse manipolato o danneggiato, il corpo intero ne soffrirebbe, diventando incapace di rispondere agli stimoli o perdendo il controllo di se stesso, mettendo a rischio la propria sopravvivenza. In modo simile, se uno Stato perde il controllo delle proprie infrastrutture o le affida a entità esterne, diventa più vulnerabile. Si sottopone a rischi come spionaggio, paralisi operativa e manipolazione.
È mai successo qualcosa di simile?
È già successo. Pensiamo al Datagate, partito nel 2013 dalle rivelazioni di Edward Snowden a «Der Spiegel». Uno scandalo che ha coinvolto l’NSA (l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti) e altre agenzie di intelligence affiliate per attività di intercettazione, spionaggio e sorveglianza di massa di cittadini, diplomatici, politici e capi di Stato in tutto il mondo. I servizi segreti americani erano riusciti a violare una delle infrastrutture critiche di internet. Un sistema di comunicazione via cavo sottomarino, lungo diciannovemila km, che dall’Europa, passando per il Nordafrica e il Medioriente arriva a Singapore, nel sud-est asiatico, e veicola il 99% delle comunicazioni e del flusso di dati intercontinentali. Stabilito il collegamento, le agenzie di intelligence hanno usato software di spionaggio, come PRISM, per avere accesso ai sistemi di comunicazione di governi, ambasciate, così come ai server delle principali società di telecomunicazione e di colossi tecnologici come Facebook, Apple, Yahoo!, Microsoft e Paltalk. Ciò ha permesso all’NSA di intercettare documenti criptati, monitorare in tempo reale e-mail, conversazioni, video e messaggi, accedere a immagini, suoni, metadati e trasferimento di informazioni.
Tra le molte questioni aperte, una riguarda proprio i metadati. Chi controlla un’infrastruttura di comunicazione, come SpaceX nel caso di Starlink, può avere accesso a queste informazioni. Si tratta di dati che descrivono le caratteristiche di una comunicazione, seppure non il suo contenuto. Per esempio, nel caso delle connessioni internet, gli indirizzi IP ci dicono chi comunica con chi, rivelando relazioni personali, professionali o, in caso di attività politiche o militari, la presenza di attività organizzative o strategiche; i timestamp, gli orari e la frequenza delle comunicazioni, e ancora la durata e il tipo di dati trasmessi. Sempre grazie agli IP è possibile tracciare i movimenti fisici di singoli individui o gruppi, come la localizzazione e gli spostamenti delle truppe di un esercito. In più, in molti paesi, Stati Uniti compresi, governi e agenzie di intelligence possono obbligare gli operatori a fornire accesso ai metadati, anche se conservati all’estero su server di società di diritto americane.
Infine, l’ipotesi che un’impresa privata decida in modo del tutto arbitrario di limitare l’uso delle proprie infrastrutture – influenzando operazioni militari o compromettendo la sicurezza interna di un paese – non è così remota.
“Credo sia un’operazione molto rischiosa, sia dal punto di vista politico che tecnico. Significa mettere la sicurezza e l’indipendenza strategica del paese non solo nelle mani di un’impresa privata, ma di un singolo, forse in parte anche di un governo estero, ora che Musk è a tutti gli effetti un politico”.
Mi pare sia successo nel conflitto russo-ucraino.
Quando alla fine del 2022 molte delle infrastrutture di telecomunicazione ucraine erano state compromesse, SpaceX ha fornito a Kiev i propri servizi satellitari. Il supporto di Starlink è stato cruciale, ma condizionato dai cambiamenti di opinione e dalle decisioni unilaterali del suo fondatore. Musk ha negato l’accesso alle proprie connessioni nelle aree vicine alla Crimea, compromettendo le operazioni offensive ucraine contro la flotta russa nel Mar Nero, motivando questa decisione con la volontà di evitare un’escalation del conflitto.
Possiamo davvero lasciare che una grande impresa tecnologica e il suo leader si arroghino il diritto di determinare le azioni di uno Stato sovrano, di decidere quali operazioni può o non può compiere un esercito in un conflitto armato?
Ci sono delle alternative?
In parte. Nel tentativo di mantenere la propria indipendenza o di conquistare nuovi territori e mercati, la corsa allo spazio per costruire galassie di satelliti in orbita intorno alla Terra vede paesi e aziende di tutto il mondo impegnati a costruire la propria infrastruttura, dall’indiana TATA al progetto Kuiper di Amazon. La risposta europea si chiama IRIS2. Un progetto pubblico-privato affidato a SpaceRise, un consorzio che riunisce operatori satellitari e aziende europee, attive nei settori della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza. Il problema è che al momento IRIS2 è un progetto in corso. Il suo completamento, previsto per il 2024, è slittato al 2027 e infine al 2030.
Da fonti vicine al governo mi sembra di capire che proprio questo ritardo ci porterebbe a non avere alternative.
Il presunto accordo di Palazzo Chigi è solo una soluzione ponte a fronte del grave ritardo strategico? Non ne sono certa. Ciò che stupisce è che il governo Meloni concluderebbe con Musk un contratto da 1,5 miliardi. L’investimento su Starlink è circa il doppio dei fondi che l’Italia ha investito per la realizzazione di IRIS2. In più, esistono, almeno in parte, alternative europee come per esempio OneWeb, della francese Eutelsat, con una costellazione di circa 650 satelliti in orbita bassa.
È vero che le prestazioni di Starlink sono migliori rispetto a quelle dei suoi concorrenti. Tuttavia, affidarsi a realtà europee avrebbe chiari vantaggi strategici e politici, come dimostra il caso dell’Ucraina.
Non credo che mettere decisioni che riguardano la sovranità dei dati, la sicurezza e l’indipendenza di un paese, la pace e la guerra, la vita e la morte delle persone nelle mani di un singolo individuo sia una buona scelta. Ma questo è un fenomeno più profondo e complesso, che non riguarda solo la sicurezza.
È di questi stessi giorni la notizia che Mark Zuckerberg ha deciso di fermare il fact-checking su Meta. Che cosa significa?
È parte del sistema di controllo, nato dopo il coinvolgimento di Cambridge Analytica e Facebook nello scandalo delle presidenziali americane del 2016, per identificare e correggere notizie false, ingannevoli o distorte.
I fact-checker possono essere giornalisti, organizzazioni indipendenti come l’International Fact-Checking Network (IFCN), Full Fact o Pagella Politica in Italia, ma anche università e istituti di ricerca che studiano la diffusione della disinformazione. Oppure possono lavorare per le piattaforme. Fino a ieri, Facebook e Instagram avevano collaborazioni con gruppi esterni che si occupavano di analizzare i contenuti. Tutti questi gruppi si dedicano professionalmente alla verifica delle informazioni.
Come funziona il fact-checking?
Generalmente si articola in diverse fasi. Si identifica un contenuto, come una dichiarazione politica o una notizia virale. Si analizzano le fonti disponibili, quindi i documenti ufficiali, i dati statistici o gli articoli scientifici. E, dopo aver confrontato la notizia con le prove raccolte, la si classifica come vera, falsa, parzialmente vera, fuorviante o non verificabile. Le conclusioni vengono condivise pubblicamente, insieme a spiegazioni dettagliate. Nei casi di collaborazione diretta con le piattaforme, come nel caso di Facebook e Instagram, i contenuti vengono etichettati per segnalare agli utenti il problema, ma mai, in nessun caso, i fact-checker possono censurare l’informazione. Gli utenti sono liberi di leggere o vedere i contenuti classificati e nel caso ricondividerli. Solo le piattaforme possono decidere di oscurarli.
Zuckerberg sostituirà il fact-checking con lo stesso sistema di Twitter, basato sulle “Community Notes”, che non si basa più sul lavoro di persone formate per verificare l’attendibilità di notizie e informazioni, ma sulla valutazione degli utenti.
Lo stop al fact-checking viene motivato dall’esigenza di favorire la libertà d’espressione. Per tutti noi ovviamente la libertà d’espressione è sacra. Ma qui mi sembra si stia configurando qualcosa di diverso.
È un passo indietro pericoloso e credo che la motivazione sia pretestuosa. Strumentalizzando l’etica liberale per migliorare i propri modelli di business, le piattaforme vogliono presentarsi come il mezzo con cui tutti possono esercitare la propria libertà di espressione con pochi o nessun vincolo, mentre il loro obiettivo è sempre stato trarre più profitto possibile, ospitando contenuti e raccogliendo informazioni sugli utenti da vendere agli inserzionisti, enti pubblici o privati, per cui le piattaforme funzionano da casse di risonanza.
Le piattaforme hanno preso in prestito dal costituzionalismo americano la metafora del libero mercato delle idee, che per molto tempo ha trattato la regolamentazione della rete esclusivamente come una questione di libertà di espressione. L’idea è che in un mercato competitivo e libero, anche le idee peggiori, e quindi anche quelle false, possono avere cittadinanza, nella convinzione che le migliori, e dunque anche la verità, infine prevarranno. Si tratta di una fiducia cieca nella capacità autocorrettiva del “mercato”. Ciò che a volte dimentichiamo è che esiste anche un contraltare, un lato passivo della libertà di espressione, che è il diritto all’informazione, cioè il diritto a essere informati in modo verificabile. E i diritti non dovrebbero essere variabili delle dinamiche di mercato.
Quello a cui stiamo assistendo sempre più è un pericoloso allineamento tra centri di potere pubblici e privati.
In che senso?
Prendiamo la Cina, dove le grandi piattaforme tecnologiche come Apple, Google e LinkedIn hanno modificato i propri servizi o censurato contenuti su temi come Taiwan, Hong Kong e i diritti umani, adeguandosi alle richieste del governo. Le disposizioni della Repubblica Popolare chiedono alle aziende private di promuovere attivamente informazioni “positive” che seguano la linea ufficiale del Partito. Questo significa, da un lato, promuovere contenuti patriottici e allineati con i valori del Partito Comunista Cinese e, dall’altro, censurare tutto ciò che non è in linea con le politiche del governo centrale di Pechino.
Non è certo una novità. Anche durante la Primavera Araba i social media sono stati cruciali, e non solo positivamente. Hanno giocato un ruolo chiave nell’organizzazione delle proteste contro i regimi autoritari di Tunisia, Egitto e Libia, ma hanno anche amplificato la propaganda governativa e applicato forme di censura selettiva, rimuovendo contenuti a seconda delle pressioni da parte dei governi locali e riducendo la visibilità delle proteste in alcuni contesti.
“Le piattaforme hanno preso in prestito dal costituzionalismo americano la metafora del libero mercato delle idee, che per molto tempo ha trattato la regolamentazione della rete esclusivamente come una questione di libertà di espressione”.
Torniamo alle democrazie occidentali. Come tutto questo potrebbe influire sull’opinione pubblica che ormai si informa sempre meno dalle fonti novecentesche (quelle che venivano considerate autorevoli) come giornali e tv?
In un mondo in cui il miglior test della verità diventa il potere di un’idea di prevalere sulla concorrenza, nel libero mercato delle idee, queste pratiche portano alla polarizzazione delle opinioni e alla frammentazione del dialogo pubblico. Amplificano i divari sociali e politici, possono minare la legittimità dei governi, portando a proteste violente o a crimini d’odio, fino a compromettere l’intero ambiente informativo e la nostra capacità di distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è. Tutto questo favorisce il raggiungimento di obiettivi propagandistici e mette a rischio le nostre democrazie. Pensiamo allo scandalo di Cambridge Analytica che ha condizionato non solo le presidenziali americane del 2016, ma i processi elettorali di più di 60 paesi, o all’assalto a Capitol Hill del 6 Gennaio del 2021.
Più di recente, in un documento intitolato Defending Ukraine: early lessons from the cyber war, l’unità di Intelligence di Microsoft ha mostrato come, la sorveglianza online, il furto di dati, le attività di spionaggio, la veicolazione mirata di fake news e la manipolazione dell’opinione pubblica siano tra le principali strategie del governo russo. Tra le vittime, oltre all’Ucraina, ci sono più di 128 organizzazioni internazionali e 42 paesi, molti dei quali alleati NATO.
Qual è la vera strategia di Musk? In nostre precedenti conversazioni mi parlavi delle differenze sostanziali di X rispetto agli altri social, tipo Meta.
Temo che nessuno lo sappia fino in fondo, ma dietro le sue aziende e i suoi investimenti si intrecciano enormi interessi economici e politici. Se il detto “segui il denaro” è ancora valido, possiamo fare qualche considerazione partendo proprio da qui.
Facebook e Instagram dipendono per lo più da entrate pubblicitarie basate sulla personalizzazione dei contenuti. Per X l’approccio alla monetizzazione è diverso, la dipendenza dalla pubblicità infinitamente minore. Le entrate arrivano principalmente da servizi come gli abbonamenti Premium (che offrono la spunta blu, una maggiore visibilità e opzioni di personalizzazione); la vendita di licenze dati a società private e istituzioni (che accedono ai dati in tempo reale, permettendogli di analizzare tendenze e comportamenti e fare analisi predittive); e nuove funzionalità per i creator, che possono guadagnare da donazioni, condivisione di ricavi pubblicitari o abbonamenti ai loro contenuti, e su cui la piattaforma trattiene una percentuale. Musk vuole trasformare l’ex Twitter in un sistema multifunzionale, con servizi che vanno ben oltre i social media, come l’integrazione di siti di e-commerce, servizi di prenotazione, pagamenti, messaggistica, fino ad arrivare a servizi governativi, diventando un hub per micro-transazioni e comunicazioni critiche. Sfruttando l’integrazione con Starlink si trasformerebbe in una piattaforma geopolitica a tutti gli effetti.
Mi sembra una cosa piuttosto inquietante.
Spostiamoci per un momento dalla Terra. Negli anni ’60 la rivalità tra due grandi potenze portò l’umanità nello spazio. Dopo il 1972, più nessuno ha camminato sulla superficie lunare, ma tolta di mezzo la politica, a guadagnarci è stata la scienza. Oggi però, la mancanza di fondi governativi ha portato a un’altra trasformazione, aprendo un nuovo mercato alle forze del capitalismo e spalancando le porte a una generazione di imprenditori, forse visionari, ma certamente spregiudicati. La tecnologia di Starlink è, infatti, uno dei pilastri della strategia politico-economica di Musk. Se è vero che la Cina è tra i pochi paesi ad avere una catena industriale completa di cavi sottomarini, SpaceX è in grado di portare internet in aree rurali e remote, spesso trascurate perché economicamente svantaggiose, creando opportunità economiche e politiche in regioni sottosviluppate come l’Africa e parti dell’Asia.
Qui, il suo piano di espansione è iniziato nel 2023, portando internet in circa 29 Stati africani. Economicamente, significa avere un business scalabile in un settore a bassa concorrenza. Politicamente, accrescere la propria influenza, così come quella americana, consolidando rapporti con governi locali e stabilendo una presenza infrastrutturale di lungo termine, entrando in competizione con la Cina e limitandone l’influenza.
Musk può offrire a governi e popolazioni in difficoltà un accesso indipendente e decentralizzato a Internet, acquisendo un ruolo centrale nella diplomazia digitale e diventando un attore strategico nei conflitti globali, capace di influenzarli come nel caso dell’Ucraina.
Ma SpaceX punta molto più in alto. Mi riferisco al dominio e alla militarizzazione spaziale: dai servizi di lancio alla deterrenza satellitare, offrendo resilienza contro attacchi cibernetici e sabotaggi fisici delle reti di comunicazione, fino alle collaborazioni con il Dipartimento della Difesa americana per lo sviluppo di sistemi missilistici avanzati.
Infine Tesla, che ha uno dei più grandi impianti produttivi a Shanghai, grazie alla concessione di incentivi dal governo cinese. Musk si è assicurato un ruolo fondamentale nella transizione energetica del paese, posizionando Tesla come leader nel mercato dei veicoli elettrici. Questa dipendenza è un rischio geopolitico, un equilibrio delicato tra il governo cinese e i rapporti con gli Stati Uniti. Ma è da qui che nasce il suo atteggiamento di “neutralità” strategica. Musk si muove sempre in una zona grigia tra cooperazione e competizione con le nazioni, usando le proprie tecnologie per preservare una posizione di autonomia e acquisire potere nella politica internazionale.
L’estrazione dei dati da noi utenti, sta avvenendo in modo diverso rispetto a quello che scriveva Shoshana Zuboff nel Capitalismo della sorveglianza?
Il sistema descritto da Zuboff è ancora attuale, ma ci sono alcuni cambiamenti. La raccolta di informazione e la veicolazione di contenuti è sempre meno visibile e più pervasiva.
Le grandi piattaforme integreranno presto le IA generative, come GPT e altri modelli, nei social network. Ciò significa poter raccogliere informazioni molto più intime e dettagliate sulle nostre credenze, desideri e intenzioni, stati d’animo e vulnerabilità. Tutto grazie all’analisi di conversazioni e richieste apparentemente innocue.
Se prima gli utenti venivano classificati in categorie predefinite, sulla base di grandi cluster, per esempio fasce d’età e orientamenti politici (“conservatore” o “progressista”), l’IA generativa è in grado di creare etichette personalizzate, grazie a combinazioni uniche di caratteristiche comportamentali, linguistiche ed emotive. Una granularità che permetterà di scoprire correlazioni complesse tra utenti apparentemente diversi, creando reti di interesse trasversali e adattive, che cambiano insieme a noi, grazie all’analisi in tempo reale dei nostri comportamenti e delle nostre emozioni. Potremmo avere, ad esempio, i “conservatori religiosi” motivati da fede, precetti morali o spirituali; gli “economico-pragmatici” favorevoli alla riduzione delle tasse e a politiche imprenditoriali; o i “culturali ambientalisti” interessati alla protezione delle tradizioni locali, ma anche a politiche di tutela del territorio e sostenibilità ambientale. Dall’altra parte, i “progressisti sociali anti-establishment” sostenitori delle riforme sociali ma critici verso le istituzioni tradizionali e inclini a sostenere candidati outsider; o i “riformisti pragmatici” a favore di un progresso graduale attraverso riforme praticabili, un po’ meno ambiziose o orientate a slogan ideologici e più inclini al compromesso.
A questo punto non è difficile immaginare forme di disinformazione iper-personalizzata. Poco dopo il rilascio di GPT3, durante le fasi di test, alcuni ricercatori hanno chiesto al modello di generare contenuti da pubblicare come post sui social network, per convincere le donne tra i 30 e i 40 anni, che risiedono nell’area di S. Francisco, che abortire significa mettere a rischio la propria vita. Il risultato è Stato una serie di testi molto convincenti, che citano incidenti mai avvenuti in cliniche a volte reali, a volte inesistenti. Lo stesso è successo quando l’obiettivo del post era incoraggiare il maggior numero di persone possibili a diventare parte dell’organizzazione terroristica di Al Qaida. Il modello ha generato una serie di variazioni, tutte contenenti narrative fuorvianti, quando non del tutto false, sui paesi occidentali. Invece che mirare alle donne tra i 30 e i 40 anni in una certa area geografica, immaginate tutto questo generato sulla base dei nostri desideri, stati d’animo, delle nostre credenze e paure più intime.
“L’Intelligenza Artificiale, e più in generale la tecnologia, ha due identità, una economico-tecnologica e una scientifico-tecnologica. Oggi la prima è di gran lunga prevalente”.
Come i social (o meglio, questa nuova oligarchia economico-politica di cui i social sono forse lo strumento più evidente) hanno già in maniera comprovata (e scorretta, pericolosa) influito sugli equilibri internazionali?
Il modello di business basato sulla raccolta e la monetizzazione dei dati, il cui prodotto è ciò che diventeremo, quali saranno le nostre scelte e i nostri comportamenti futuri, ha favorito un’enorme concentrazione di potere e denaro nelle mani delle grandi compagnie private, come dimostrato dal ruolo geopolitico chiave dei social media e delle Big Tech nei processi sociali, politici e democratici degli ultimi decenni: dalla Brexit alla guerra in Siria, gli attacchi religiosi in Sri Lanka, i conflitti in Asia e in Africa centrale. Qui, per esempio, le inchieste delle Nazioni Unite e Amnesty International hanno dimostrato il ruolo centrale di Facebook nel promuovere contenuti di incitamento all’odio e alla violenza, che hanno favorito la campagna di pulizia etnica delle forze armate locali, portando al genocidio della minoranza Rohingya in Maynmar.
Gli esempi sono tantissimi. Nel 2021, un’inchiesta giornalistica di «New York Times» e «ProPublica» ha portato alla luce la campagna di disinformazione e censura del governo cinese, sulla repressione della minoranza musulmana degli Uiguri nella regione dello Xinjiang. Oltre 3000 videoclip falsi, diffusi attraverso piattaforme come TikTok, Twitter e YouTube, che riprendono membri della minoranza etnica impegnati a negare le politiche repressive e le violazioni di diritti umani subite.
Pensiamo ancora al progetto Nimbus. Un accordo da 1,2 miliardi di dollari tra Google, Amazon e il governo israeliano per la fornitura di servizi cloud e tecnologie di spionaggio, utilizzati per sorvegliare e identificare dissidenti e civili palestinesi, e che contribuisce al trattamento illegale e disumano della popolazione da parte dell’esercito israeliano.
Che differenze ci sono tra Stati Uniti e UE in tutto questo?
Hanno due visioni molto diverse sul rapporto tra tecnologia, politica, mercato e diritti fondamentali. Negli ultimi anni, l’Europa ha adottato molte iniziative per costruire un quadro etico e normativo che regoli gli ecosistemi digitali, quindi lo sviluppo e l’uso di tecnologie e limiti al tempo stesso il potere e l’influenza delle grandi imprese tecnologiche. Se per noi le Big Tech sono forze da controllare, per gli Stati Uniti sono una parte cruciale dell’economia e della geopolitica del paese. L’idea è che le aziende debbano mantenere il controllo sullo sviluppo industriale e sui criteri di governance. Quindi, il governo federale ha scelto un approccio non interventista, basato per lo più sull’autoregolamentazione delle imprese. L’innovazione e la crescita economica sono prioritarie rispetto a una serie di valori e diritti, come per esempio la privacy. I dati personali sono una risorsa economica e le poche leggi americane sono frammentarie. Abbiamo norme simili a quelle europee come il California Consumer Privacy Act, ma l’assenza di una regolamentazione unificata a livello nazionale.
L’approccio governativo non è solo più permissivo, ma spesso collaborativo, come nel caso dei programmi di sorveglianza dell’NSA nel progetto PRISM.
Quali rischi corre l’Europa e cosa dovrebbe fare?
Abbiamo appaltato a una manciata di società americane, che operano in condizione di monopolio o quasi-monopolio, le infrastrutture chiave su cui si poggiano le nostre società, cioè quelle per la trasmissione, l’elaborazione e l’archiviazione delle informazioni. È da qui che passano la politica, l’economia, gli equilibri sociali e larga parte delle nostre interazioni personali. La dipendenza tecnologica dagli Stati Uniti riduce la nostra autonomia e ci rende vulnerabili. Nonostante le riforme normative, l’Europa fa molta fatica a intervenire, a causa del ruolo geopolitico marginale che ha ricoperto fino a questo momento rispetto a paesi come Stati Uniti e Cina. Rischiamo di essere esclusi dai processi decisionali da cui dipende il futuro delle nostre società.
Ci serve un ecosistema tecnologico europeo, capace di essere competitivo, e per raggiungere questo risultato abbiamo bisogno di lavorare su molti aspetti, tra cui la nostra capacità di investimento, il tipo di sviluppo e i diritti.
Tanto per avere un’idea della sproporzione, le agenzie governative americane, a eccezione del Dipartimento della Difesa, spendono circa 1,5 miliardi di dollari annui in ricerca e sviluppo dell’IA, la Commissione Europea circa 1 miliardo di euro, l’industria a livello mondiale 340 miliardi di dollari. Secondo un rapporto dell’università di Stanford, nel 2023 gli Stati Uniti hanno raccolto investimenti privati pari a 62,5 miliardi di euro, contro i circa 9 di Europa e Regno Unito insieme.
Questa spesa dà, non solo agli Stati Uniti, ma all’industria privata, la possibilità di concentrare potere e ricchezza nelle proprie mani, esercitando una presa soffocante su tre aspetti strategici: potenza di calcolo, disponibilità di dati, acquisizione di talenti.
E qui veniamo al secondo aspetto. L’Intelligenza Artificiale, e più in generale la tecnologia, ha due identità, una economico-tecnologica e una scientifico-tecnologica. Oggi la prima è di gran lunga prevalente. La maggior parte delle ricerche più all’avanguardia e di alto profilo avvengono dietro le porte chiuse di aziende private, per lo più americane. La ricerca scientifica non può avere origine da un imperativo esclusivamente economico. Se guidata dall’urgenza di accumulare profitti e potere, il risultato non può che essere un disallineamento tra sviluppo e benefici sociali, portando a tensioni distruttive per la società.
Provo a fare qualche esempio. Gli investimenti e le applicazioni su problemi a cui siamo chiamati a far fronte, come il cambiamento climatico, l’assistenza sanitaria e le tensioni sociali e democratiche che sono state amplificate dalle tecnologie digitali, sono infinitamente più basse rispetto allo sviluppo di tecnologie di sorveglianza. Per esempio, rispetto alla generazione e all’uso di energia, dovremmo investire molto più in tecnologie che ci aiutino a ridurre le emissioni di carbonio, prevedendo misure che sfavoriscano chi inquina, come una maggiore tassazione rispetto alla quantità di CO2. In più è la ricerca accademica che generalmente si occupa di valutare e mitigare i rischi tecnologici.
“Abbiamo appaltato a una manciata di società americane, che operano in condizione di monopolio o quasi-monopolio, le infrastrutture chiave su cui si poggiano le nostre società, cioè quelle per la trasmissione, l’elaborazione e l’archiviazione delle informazioni”.
C’è un’alternativa a tutto questo?
Mark Fisher aveva ragione quando parlava di realismo capitalista. Lì il problema era aver introiettato l’idea del “There is no alternative”, per cui il capitalismo non è solo il modello economico dominante, ma l’unico possibile. Nel determinismo tecnologico c’è la stessa convinzione, l’idea che sia la natura stessa della tecnologia a renderne impossibile il controllo. E dunque è la tecnologia a guidare lo sviluppo sociale e a determinarne i valori. Un percorso inarrestabile e ineluttabile per il progresso umano, indipendente da volontà politiche o sociali, che modella il modo in cui pensiamo, ci relazioniamo gli uni agli altri, lavoriamo, progettiamo e utilizziamo strumenti tecnologici. Anche qui, stiamo assistendo a una colonizzazione dell’immaginazione, che relega altre visioni ai margini. Se ci si pensa, i parallelismi sono tantissimi. Molte delle questioni tecnologiche più dibattute vengono spesso depoliticizzate, trattate come problemi o necessità puramente tecniche, invece che come problemi o scelte politiche, economiche e sociali.
Le Big Tech, la cui espansione non è il risultato naturale dell’innovazione ma di una serie di politiche neo-liberiste e dinamiche di potere, incarnano a perfezione questa convergenza tra realismo capitalista e determinismo tecnologico.
Io non credo in questa visione riduzionista, ma ho l’impressione che in molti l’abbiano fatta propria.
Nicola Lagioia
Nicola Lagioia è scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico e direttore editoriale di Lucy. Il suo ultimo libro è La città dei vivi (Einaudi, 2020).
Francesca Lagioia
Francesca Lagioia è Professoressa associata di Informatica giuridica, intelligenza artificiale e Diritto ed etica per l’intelligenza artificiale presso l’Università di Bologna, e Professoressa part-time presso l’Istituto Universitario Europeo di Firenze. Si occupa di intelligenza artificiale, etica e diritto, privacy e protezione dei dati, diritto dei consumatori, AI e democrazia e di modelli computabili del diritto.
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