Francesca Serafini
Ieri sera Claudio Ranieri si è seduto per l’ultima volta sulla panchina della Roma, la squadra che più di tutte ha amato, ricambiato. Uomo generoso, di parola e allergico alla retorica, i romanisti (e non solo) sentono già la sua mancanza.
Quando è sceso sul prato a salutare il suo pubblico dopo la fine di Roma Milan (ultima partita all’Olimpico sulla panchina giallorossa), Claudio Ranieri teneva strette, con la sua destra e con la sua sinistra, le mani dei suoi nipoti. Il sottotesto – che fosse intenzionale o no – è stato subito chiaro a tutti (anche a quelli che fin lì ancora avevano sperato in un prolungamento del suo contratto): “vi voglio bene, ma ora lasciatemi fare il nonno”. Un nonno come quello a cui immediatamente mi ha rimandato nel pensiero. Mio nonno. Romano e romanista come lui. Come lui, figlio del popolo. E come lui, uomo di parola. E di parole: tante ne ha dispensate nei suoi novantaquattro anni di esuberanza affettiva.
Ancora oggi, a diciannove anni esatti da quando la biologia ha costretto alla dismissione la sua fucina instancabile, battute e aforismi di suo conio mi vengono a far visita nella memoria. Una in particolare mi è tornata in mente stasera, appena dopo la partita di congedo della Roma dal campionato e quella che chiude la carriera di allenatore di Claudio Ranieri (sarà poi così? si smette mai davvero di allenare anche quando non si siede più su una panchina? può arrestare la musica un pianista disposto ad abbandonare il suo piano?). Per capire perché, però, prima va fornito il contesto dell’uso rituale che ne faceva mio nonno, in un qualche raddoppio digressivo rispetto alle prime intenzioni di questo racconto. Immaginato come una lettera d’amore per un uomo speciale (Claudio Ranieri), a questo punto, mi rendo conto, rischia di diventare la lettera d’amore per due uomini speciali: Claudio Ranieri e mio nonno Vezio (se solo Ranieri mi avesse visto una volta con lui, se solo potesse sapere quanto bene gli ho voluto e gliene voglio ancora, capirebbe che invitarlo ad accomodarsi perfettamente congruo in questo paragone significa per me essergli affezionata proprio tanto).
A mio nonno piaceva stare a tavola, il luogo in cui poteva fare contemporaneamente tre delle cose che amava di più: mangiare, bere e conversare (chi mi conosce ma non ha conosciuto lui ora saprà da chi ho ripreso). E quando capitava che si stesse tutti insieme in quelle situazioni e lui era felice, contagiando con la sua euforia chi gli stava intorno, a un certo punto diceva sempre: “sarà pure una valle di lacrime, ma come ci si piange bene!” Un suo personalissimo ribaltamento laico della preghiera e insieme un frattale perfetto dell’uomo che è stato. Uno che per trovare espiazione alle proprie tribolazioni invece che appellarsi alla misericordia della Regina ha sempre preferito valorizzare gli sprazzi umanissimi di felicità che ci sono concessi e che ci possono rendere comunque grati alla vita.
“Quando è sceso sul prato a salutare il suo pubblico dopo la fine di Roma Milan (ultima partita all’Olimpico sulla panchina giallorossa), Claudio Ranieri teneva strette, con la sua destra e con la sua sinistra, le mani dei suoi nipoti”.
Qualcosa che andrebbe bene per tanti, e per tante situazioni diverse, ma che, a ripensarci stasera, sembra attagliarsi all’essere romanista come un abito cucito addosso. Il parallelo con la valle di lacrime – ahimè – non necessita di spiegazioni (troppi pochi titoli per una piazza così importante: sia pure nel tempo corto della cronaca per una città che per definizione se la gioca con l’eternità).
Se Claudio Ranieri poi è uno di quelli che ci ha fatto piangere bene è per il suo contributo tecnico, certo, fondamentale sempre e in particolare in certe partite memorabili (me ne vengono in mente diverse, certo, ma ora distoglierebbero l’attenzione): nessuno sa leggere le squadre avversarie come lui; e in pochi hanno la sua capacità di adattare a gara in corso la disposizione tattica della squadra.
Ma c’è molto altro, e la sua umanità su tutto. Il modo in cui ha sempre prestato attenzione a ognuno dei suoi ragazzi, anche solo con un gesto di conforto dopo una sostituzione. Perché Claudio Ranieri è uno di quegli allenatori – pochi, benché l’evidenza sia sotto gli occhi di tutti – che si rendono conto di avere a che fare come prima cosa con degli esseri umani, molto spesso giovanissimi: e comunque fragili ed esposti, di là dal fatto che quell’esposizione è molto ben retribuita (e nonostante questo, se venissero pagati per ogni insulto o fischio che gli vengono rivolti, molti di loro potrebbero addirittura triplicare il proprio ingaggio).
Qualcosa che Ranieri conosce bene. Infatti, quando quest’anno si è preso in carico una squadra impaurita e demoralizzata, ha fatto subito appello alla comprensione dei tifosi: e ha coinvolto anche loro (anche noi), per renderli consapevoli del ruolo che potevano avere nel cercare di cambiare di segno quello stato d’animo tutti insieme: e il risultato è noto.
È arrivato a novembre, quando eravamo a tre punti dalla zona retrocessione. Ci lascia a maggio (il percorso a ritroso dei fiori regalati in Verranno a chiederti del nostro amore di Fabrizio De André) a un solo punto dalla Champions League: che per diversi minuti, nel corso di quest’ultimo turno di partite finalmente in contemporanea (quanti danni ha causato la tv anche alla magia estemporanea del calcio), sembrava essere alla nostra portata. Nel mezzo, Ranieri ha ricreato un gruppo solido e affiatato, scovato risorse inespresse in tutta la rosa a disposizione, fatto crescere i giovani, rivitalizzato giocatori pronti a partire e rasserenato l’ambiente, con un Olimpico che è tornato a cantare.
Già gli era capitato di arrivare in corsa, nel 2009, quando una doppia sconfitta nell’esordio di campionato aveva indotto Luciano Spalletti a rassegnare le dimissioni; e tutti noi che lo avevamo amato a rimpinguare di lacrime la nostra valle giallorossa. Anche quell’anno, però, con l’arrivo di Ranieri, cominciammo a piangere bene (lacrime di gioia, in sostanza): una vittoria dopo l’altra fino a un passo dallo scudetto, sfumato nell’epilogo che ancora mi fa male rievocare (tanto siete in rete: se non ve lo ricordate, ci mettete poco a scoprirlo), in una stagione che comunque resta una tra le più emozionanti nei miei ricordi di tifosa. E le emozioni, in fatto di calcio, valgono quanto e più dei trofei (perché allora dovrebbero avere tanti tifosi partecipi squadre che non ne hanno conquistati mai?): proprio come succede per i film (ci ricordiamo le storie, gli attori e i loro personaggi, le battute: mica i premi vinti, no?).
“Ma c’è molto altro, e la sua umanità su tutto. Il modo in cui ha sempre prestato attenzione a ognuno dei suoi ragazzi, anche solo con un gesto di conforto dopo una sostituzione. Perché Claudio Ranieri è uno di quegli allenatori – pochi, benché l’evidenza sia sotto gli occhi di tutti – che si rendono conto di avere a che fare come prima cosa con degli esseri umani”.
Ma insomma. C’è che Ranieri sempre ha portato luce ovunque sia andato. Anche quando ha avuto il coraggio di assumersi la responsabilità di un impianto elettrico nel pieno di un blackout, come la Roma di quest’anno.
Pensiamo alla sua esperienza al Cagliari alla fine degli anni Ottanta: dalla serie C alla serie A nell’arco di due stagioni. Oppure resistente nella stessa serie appena un anno fa, quando il suo percorso di allenatore sembrava essersi concluso, evitando la retrocessione lo stesso 19 maggio – proprio il giorno in cui è morto mio nonno Vezio, per dire in quanti modi i numeri possono prendersi gioco di noi – che trentatré anni prima lo aveva portato a salvare la sua squadra sulla stessa panchina.
Pensiamo, per citare in assoluto l’esperienza più esaltante, a quello che è stato in grado di fare in Premier League con il Leicester. Una piccola squadra operaia di provincia arrivata a vincere lo scudetto contro le avversarie blasonate e alimentate a petroldollari. Una squadra così simile al suo allenatore.
Quel ragazzino avviato a portare avanti la bottega del padre macellaio a Testaccio e che si distingue per il suo talento fin da giovanissimo (quando giocava portiere nell’oratorio del San Saba, suo quartiere d’origine), diventando presto un professionista: prima nel ruolo di attaccante e poi di difensore (sarà per questo che conosce così bene tutte le fasi del gioco). Roma, Catanzaro, Catania, Palermo; poi, nel 1986, la prima panchina col Vigor Lamezia. E di seguito tutte le altre, molte delle quali internazionali (Valencia, Atletico Madrid, Monaco, Marsiglia, Nantes, Fulham, Watford, passando per l’esperienza al Leicester con lo scudetto). Ogni tappa del percorso di Ranieri, a ripercorrerle in una carrellata, si presta a calarsi in una dimensione epica. Che è il tono che generalmente si assume per cantare le gesta di questi eroi moderni che sono gli sportivi.
E però, se penso all’uomo, alle sue dichiarazioni, tutte nel segno dell’autenticità e lontane da ogni forma di retorica (spesso neutralizzata dalla sua ironia romana), sono portata a cercare un’altra forma. E a riflettere più in generale sul senso delle storie in base a come ci vien fatto di raccontarle, appunto, lavorandoci di mestiere (o di maniera, più propriamente). Su come certi impulsi automatici dell’atto del narrare e della stessa fruizione delle narrazioni ci portino più o meno consapevolmente a cercare in ogni storia una qualche forma di riscatto e di redenzione. Perché è quella la posa che per inerzia si corre il rischio di assumere, sia da scrittori e sia da lettori.
Parlo dell’epica dell’uno su mille ce la fa, che mi sembra quanto di più lontano da quella che è la mia percezione di Ranieri: un allenatore che ha fatto in modo, sempre, che ce la facessero tutti (ciascuno secondo le sue capacità, ciascuno secondo i suoi bisogni, sarebbe il caso di dire).
Una modalità di racconto che certo è d’impatto immediato e coinvolgente, se solo, però, con uno sforzo di straniamento, non si provi a spostare lo sguardo di poco per svincolarsi dal fascino incantatorio di quella che in definitiva è solo una forma di giudizio (e dunque di un qualche moralismo: cioè l’opposto della postura di Ranieri). Il sortilegio di farci concentrare su quello che ce la fa nel quale tutti noi finiamo per identificarci, e che ci fa dimenticare degli altri novecentonovantanove (che al contrario, e più verosimilmente, sono quelli che ci corrispondono). Ma è una malia, appunto. Perché, a esercitare la logica, la conseguenza di quella narrazione è: voi novecentonovantanove avete fallito perché non vi siete impegnati così tanto come quello che ce l’ha fatta.
In qualche caso può essere vero: e se questo tipo di racconto può avere una funzione maieutica per far brillare le nostre potenzialità a beneficio della comunità di cui facciamo parte, allora ben venga. Ma il fatto è che si può brillare ovunque (o non brillare mai), compreso in un laboratorio di precisione come quello dove ha lavorato mio nonno per cinquant’anni; o nella bottega di un macellaio: che peraltro, in epoca di distribuzione industriale, è in via di estinzione, con grande rimpianto di tutti quelli che non sono vegetariani o vegani e avrebbero ancora piacere a farsi spiegare i tagli della carne da un artigiano.
E qui, di nuovo, mi viene da piangere bene pensando a Gino Voltolini di Invernale, riflettendo sulla circostanza, nel contesto, che il racconto di un macellaio che muore per essersi infettato con un batterio ferendosi con un gancio per la carne – l’antitesi dell’eroe – può essere ugualmente coinvolgente e affatturante a patto che si tengano nascosti nella forma tutti gli elementi patetici (e Dario Voltolini, che di scrittura se ne intende, ha aspettato cinquant’anni per non raccontare suo padre da emozionato: il modo giusto per emozionare tutti noi che lo abbiamo letto).
Ora, lo capirete bene, tutto questo (è domenica notte e scrivo emozionata dopo la fine del campionato) ha un intento preciso che è quello di tenere a bada il demone della retorica e le sue tentazioni mirate, dato che mi sto congedando da uno degli allenatori che ho amato di più nella mia storia di tifosa. Perché, anche se considero Ranieri un eroe (per il suo talento, la sua intelligenza: l’umanità; ancora prima che per le imprese che grazie a questi suoi talenti ha saputo realizzare), per raccontarlo non voglio cedere alle sofisticazioni del genere: che lettera d’amore sarebbe altrimenti?
E allora piuttosto mi soffermo su un episodio piccolissimo come una battuta: quella che ha fatto durante la conferenza stampa che ha preceduto l’incontro tra Roma e Parma, il 20 dicembre 2024.
A un certo punto, riferendosi ai due giocatori esterni in una difesa a tre, che si possono allargare sulla fascia o stringersi a seconda della fase tattica della partita, Ranieri ha contestato l’espressione con cui da qualche tempo vengono definiti (per analogia col movimento delle braccia ad aprirsi e a chiudersi): “Braccetto… che brutto nome che hanno tirato fuori a Coverciano…”
Fin qui, quello che colpisce da subito è che nella valle di lacrime delle interviste sportive (una risorsa per anni per la Gialappa’s band e il loro Mai dire gol) un allenatore che ruba tempo a disquisizioni tattiche in una conferenza stampa pre-partita per una glossa metalinguistica fa piangere bene di per sé (lo so, per i linguisti non esistono parole belle o parole brutte se non in associazione alla nozione di contesto, ma capite bene che in questo contesto ricordarlo suona un po’ come una pedanteria).
Ma c’è di più: perché subito dopo Ranieri ha spiegato perché quella definizione non gli piace. E cioè per l’assonanza che gli ispira con l’espressione “avere il braccetto corto”, generalmente intesa come segno di avarizia e di difetto di generosità (per evitare di essere definitivamente pedante, sull’origine del modo di dire rimando a questo link.
Per me, per capire chi è Claudio Ranieri basterebbe questo. Perché la lingua in cui ci esprimiamo è spia di quello che siamo, e la sua idiosincrasia nei confronti di braccetto (peraltro condivisa) ci racconta due cose: la sua riluttanza nei confronti di chi non è generoso (e per converso l’importanza che invece attribuisce alla generosità); e il suo senso di protezione nei confronti dei suoi giocatori (i difensori, in questo caso), dal momento che neanche in un’associazione giocata sul significante può tollerare, pensando a loro, il significato a cui rimanda. Non può tollerare che i suoi ragazzi siano associati a una mancanza di generosità, dato che, da quando ha cominciato ad allenarli, non se l’è mai vista negare.
Grazie di tutto, Mister.
Francesca Serafini
Francesca Serafini è scrittrice, sceneggiatrice, saggista. Il suo ultimo libro è Tre madri (La nave di Teseo, 2021).
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