Mario Fillioley
11 Febbraio 2025
Sono in arrivo le nuove indicazioni nazionali sulla scuola, e il ruolo della Storia è al centro del dibattito. Tra difficoltà di comprensione, apprendimento mnemonico e il disinteresse degli studenti, è tempo di ripensarne le modalità d’insegnamento (e la centralità nel percorso scolastico).
Le prime indiscrezioni trapelate sulle nuove indicazioni nazionali per il curricolo della scuola riguardano l’insegnamento della Storia. Quando gli editoriali hanno cominciato a fioccare e il dibattito a infuriare, ho tirato un sospiro di sollievo, perché quest’anno, per una delle tante alchimie che regolano la ripartizione delle classi nella scuola media, non insegno Storia.
Non è stata una decisione che ho subito, ma al contrario una proposta che a un certo punto ho avanzato io stesso: l’idea di potermi concentrare su Italiano ed evitare per un anno i rovelli che insegnare storia alle scuole medie comporta, mi dava sollievo.
Lettere, alle scuole medie, è un mostro a tre teste: Italiano (6 ore, con un’ora di “approfondimento” in più), Storia (2 ore), Geografia (1 ora). La quantità di ore sembra decisa a casaccio (l’italiano ha sei volte le ore della geografia e tre volte quelle della storia) ma in realtà non è proprio così: le sei ore complessive di italiano vanno suddivise in riflessione sulla lingua (la cosiddetta “Grammatica”), lettura e comprensione del testo (“Antologia” e “Narrativa”), Storia della letteratura italiana (“Letteratura”) e naturalmente produzioni scritte (temi, riassunti etc.). Dentro una sola disciplina ce ne sono almeno tre, quindi alla fine il monte ore è distribuito in maniera abbastanza equa.
Al fatto che Geografia sia ormai stabilmente la cenerentola della scuola italiana sembriamo esserci tutti rassegnati. Le ore di Storia, invece, continuano a sembrare poche. Io però sono di un’opinione più estrema: alle scuole medie le ore di Storia potrebbero serenamente sparire dal programma.
Sono di quest’idea perché sono pigro, e Storia è senza dubbio la materia per la quale fatico di più a organizzare le lezioni, a trasmettere dei contenuti (anche minimi), a verificare la comprensione e la preparazione dei ragazzi, a chiarirne il lessico specifico e a impostare un metodo di studio. Alla fatica si aggiunge la frustrazione, perché per quanti sforzi io faccia, i risultati degli alunni in Storia sono sempre deludenti, i progressi insignificanti, le ricadute positive sulle altre discipline (ad esempio la storia della letteratura o quella della lingua italiana) quasi inesistenti. Storia, che dovrebbe essere il più comunicante di tutti i vasi, è un recipiente a tenuta stagna: quel poco che ci finisce dentro, se ne sta tappato lì.
“Quando gli editoriali hanno cominciato a fioccare e il dibattito a infuriare, ho tirato un sospiro di sollievo, perché quest’anno, per una delle tante alchimie che regolano la ripartizione delle classi nella scuola media, non insegno Storia”.
Mi sono chiesto molte volte perché succeda, e molte volte ho cercato aiuto nelle linee guida ministeriali, nei testi di didattica della storia, nei corsi di aggiornamento, sui forum e sulle riviste di settore, ho chiesto a insegnanti che stimo moltissimo se anche loro avessero questo problema (sì, ce l’avevano) e come mai (visto che ce l’avevano) mantenessero questo omertoso silenzio al riguardo (la risposta che ne ho ricevuto costringerebbe anche me ad abbracciare quella stessa omertà), ho chiesto ai libri dei grandi storici che ho amato da studente e da adulto, al sapiente che viveva sul monte e all’imbianchino che fischiettava un motivetto, ho cercato nei chioschi del giardino, ho anche esplorato le rive del Tamigi e l’aria balsamica delle terme: niente. O quasi.
L’unico brandello di informazione utile che ho trovato è ancora confinata nel ristretto ambito delle neuroscienze, materia intricatissima e continuamente in via di ridefinizione, oltre che ostica per i profani. Per le lacune che ho sull’argomento, dunque, e per quelle che ho intellettivamente, riassumo in maniera barbara: il cervello di bambini e adolescenti non ha ancora terminato lo sviluppo, e i centri preposti alle categorie di spazio e tempo sono deboli e in via di definizione.
È chiaro che a questa tesi mi sono avvinghiato soprattutto perché deresponsabilizza me (sono pigro, sono un vigliacco e sono stipendiato a spese vostre), e deresponsabilizza anche i ragazzi (non è colpa loro se non hanno ancora terminato lo sviluppo). Al netto del mio opportunismo, però, è un’idea che sembra contenere una certa dose di verità, se non altro sul piano dell’esperienza in classe.
Gli insegnanti delle medie si misurano con questo fenomeno soprattutto al primo anno: i ragazzi faticano con il meccanismo dei compiti per casa, in particolare col diario. I giorni, con i loro numeri e i loro nomi (lunedì 7, martedì 8, mercoledì 9), le settimane, i mesi sono per loro una nuvola gassosa, e quando rintracciano la data esatta sul calendario o sul registro elettronico, quasi mai sono in grado di valutare la distanza che la separa dall’oggi. È una cosa che chi ha bambini in età scolare può osservare anche a casa: provate a dire a un bambino frasi per noi semplicissime come “Questa cosa la faremo la settimana prossima” oppure, “No, l’abbiamo già fatto la settimana scorsa”, e poi soffermatevi sulla sua espressione. In molti casi, gli indicatori temporali per bambini e preadolescenti (ma anche adolescenti, questa cosa va avanti anche dopo i vent’anni) sono puro suono: oggi, domani, l’altro ieri, tra un anno e mezzo, l’estate prossima, alle orecchie di un giovanissimo sono figure retoriche, intercalari che gli adulti usano per abbellire il discorso.
Eppure, è a ragazzi di questa età che chiediamo quasi ogni mattina di confrontarsi con distanze spazio-temporali assai più vaste, la cui misurazione sfugge anche a moltissimi adulti dal cervello già ben formato (e in effetti, quando il cervello comincia a sfaldarsi, nella vecchiaia, ricominciano i problemi con lo spazio-tempo), senza accorgerci che si tratta di una richiesta molto impegnativa, che difficilmente sarà possibile soddisfarla e che probabilmente genererà in loro frustrazione, senso di inadeguatezza, rigetto. La soluzione che storicamente la scuola ha adottato per questo genere di problemi è nota a tutti perché è ancora la più pervicace: la storia viene mandata a memoria dagli studenti e gli insegnanti si limitano a valutare le capacità mnemoniche degli studenti.
I manuali stessi sembrano pensati a questo scopo: sono testi che compendiano intere epoche in poche pagine, un paragrafo può riassumere (quasi unicamente per mezzo di date e toponimi) mezzo secolo di avvenimenti, un capitolo può contenere anche più secoli di avvenimenti, che si svolgono in luoghi anche molto distanti tra loro. Se pensate che questo modo di insegnare e studiare Storia sia oramai superato e abbandonato, date un’occhiata al libro di vostro figlio: la sintesi è un’ossessione. A fine capitolo, le pagine vengono suntate in schede, le schede in schemi, gli schemi in mappe, le mappe in elenchi per punti, gli elenchi per punti in parole chiave. Tutto questo riduzionismo può avere una sola spiegazione: meno saranno le parole, minore sarà lo sforzo per memorizzarle. E siccome a una buona memorizzazione corrisponderà un buon voto, eccoci alla questione dell’omertà: quanti sono gli insegnanti che chiedono ancora di studiare a memoria? Tanti, ma non lo ammetteranno mai.
Se interrogati dalla CIA e con l’ausilio di un paio di sedute di waterboarding, si difenderebbero così: ascoltate, i nessi causali e quelli temporali in classe li capiscono in tre, come faccio a dare un’insufficienza a Verdi Beatrice, che ha passato tre giorni murata in casa a memorizzare? Come convinco gli studenti (e le loro famiglie) che ripetere le cose con le stesse parole del libro è male? E soprattutto, come faccio a mettere 5 a Verdi Beatrice quando De Rossi Alessio e la gang dell’ultima fila hanno consegnato in bianco o scritto delle cose che neanche Buddha in braccio a Don Milani riuscirebbe ad ascoltare senza dare di matto?
A questi insegnanti cosa possiamo mai rispondere io e i fratelli rivoluzionari per l’abolizione dello studio a memoria? Ce l’abbiamo noi un sistema per ottenere che il 70% della classe capisca i nessi causali e spazio-temporali? Io non ce l’ho, e infatti quest’anno sono piuttosto felice di non dover insegnare Storia.
La seconda soluzione che in un secolo e mezzo la scuola dell’obbligo ha escogitato per ovviare a un problema che riguarda più che altro lobi parietali e corteccia frontale, si chiama attualizzazione. Consiste nel far misurare ai ragazzi la distanza che li separa dal passato (qualsiasi passato, recente o remoto che sia) in termini di sottrazione, mancanza, privazione. Viene richiesto loro di calarsi, con uno sforzo dell’immaginazione, in un periodo in cui agli uomini, ai cittadini, ai loro coetanei del tempo che fu mancava qualcosa che loro invece adesso hanno: come faceva Colombo a navigare per l’oceano senza Google Maps? Come facevano a spostarsi senza macchine, aerei, treni?
Il mondo che ci ha preceduto viene presentato come menomato, ancora privo di questa o quella invenzione, alla cui mancanza bisognava sopperire con metodi che inevitabilmente appaiono oggi come rudimentali, o approssimativi o faticosissimi o del tutto inefficaci Stessa presentazione viene riservata a idee, credenze, stili e abitudini di vita, mentalità: esseri umani in versione beta, incompleti, monchi, un po’ tonti, di cui noi siamo l’upgrade. Attualizzare (mantra ministeriale da decenni) significa più o meno enumerare le differenze tra noi e loro, impegnare i ragazzi in uno sforzo di fantasia, per raffigurare se stessi in un mondo (letteralmente) minus habens.
Non so quanto tutto questo aiuti i ragazzi a sviluppare il senso del tempo o i nessi causa-effetto. Non lo voglio nemmeno sapere, perché è una cosa che mi avvilisce, e se anche fosse efficace, mi avvilirebbe lo stesso.
Quando in classe, pilotato dal libro di testo o dal mio stesso Es che tenta di farmi sopravvivere all’ora di Storia, mi ritrovo a fare lezione in questo modo, tutto comincia a sfocarsi anche per me, e le epoche che stiamo affrontando finiscono per somigliarsi (tutte incivili, tutte scomode, tutte antiquate) e annoiarmi allo stesso modo: no grazie, allora mi tengo la mia. Certo, è vero, attualizzare gli avvenimenti storici non consiste solo in questo marcare le differenze, ma anche e soprattutto nel valorizzare tutte le somiglianze, i punti di contatto e di permanenza tra le varie epoche, che ci sono – e sono tanti.
Il fatto è che le comparazioni, specie quelle storiche (ma anche quelle letterarie) sono rebus per solutori esperti, studiosi seri e specializzati, fuori portata per un insegnante delle medie. Voglio dire, anche a me sembra che la guerra tra Melo e Atene abbia qualcosa di simile a quella tra Ucraina e Russia, ma come faccio a esserne sicuro? Ne so abbastanza? Il rischio di depistare con anacronismi è molto alto, e non è l’unico. Ce n’è un altro.
“Quando in classe, pilotato dal libro di testo o dal mio stesso Es che tenta di farmi sopravvivere all’ora di Storia, mi ritrovo a fare lezione in questo modo, tutto comincia a sfocarsi anche per me, e le epoche che stiamo affrontando finiscono per somigliarsi”.
Quando in classe accostiamo due vicende lontane nel tempo, io subito vengo rapito da un afflato, un moto di solidarietà del mio animo verso quegli esseri umani vissuti prima di me. Una bellissima sensazione, che di sicuro me li avvicina, me li fa sentire contemporanei. Ma possiamo studiare gli afflati a scuola? Ha senso chiedere agli studenti di riconoscersi una certa situazione? E se non ci si riconoscono? Se i miei studenti in piena pubertà questo afflato non lo provano, che faccio? Gli do un’insufficienza? Se l’identificazione non scatta, se l’analogia non si palesa, se la magia non si compie, lo studente ha la sensazione (piuttosto esatta) che gli si stia impartendo un insegnamento morale, valoriale, esemplare, cosa che alle scuole medie significa: noioso.
La noia è quanto di più controproducente: lo studente delle medie la combatte a colpi di azioni a gratificazione immediata, tipo sottrarre l’astuccio al compagno e nasconderlo dentro lo zaino di un altro compagno ignaro di tutto. Il furto con destrezza di un astuccio e il suo occultamento sono affronti che andranno lavati col sangue a ricreazione: eri partito per dimostrare l’inutilità delle guerre e ti ritrovi ad averne fomentata una.
Ho a disposizione ancora qualche mese per provare a chiarire almeno alcuni di questi dubbi, poi, dal prossimo anno scolastico, volente o nolente, tornerò a insegnare Storia. Le nuove indicazioni nazionali non sono ancora state pubblicate, quindi ancora per un po’ posso sperare che conterranno dei suggerimenti per sbrogliare questa matassa. Al momento però, come ogni volta che ne escono di nuove, tutti stanno litigando sull’unica cosa su cui in fondo siamo stati sempre tutti d’accordo, cioè gli argomenti da studiare. E anche stavolta come fare per studiarli sembra non importare a nessuno.
Mario Fillioley
Mario Fillioley è scrittore e insegnante di lettere alle scuole medie. Il suo ultimo libro è Sesso più, sesso meno (66thand2nd, 2021).
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