Sandra Cane
La scena rave, i corpi trans, il fermento delle sottoculture, i romanzi di Kathy Acker. Una conversazione con McKenzie Wark, autrice di culto che ha mescolato teoria critica e autofiction. E che, nel suo ultimo libro, "Raving", ha cercato di inventare una lingua nuova.
McKenzie Wark è una scrittrice e studiosa di teoria dei media, teoria critica e studi culturali. Ha scritto a lungo di capitalismo nell’era dell’informazione, di cultura hacker, di antropocene e di marxismo. È l’autrice, tra gli altri, di Un manifesto hacker e Il capitale è morto. Il peggio deve ancora venire.
Negli ultimi anni la scrittura di Wark si è mossa verso l’autofiction e l’autotheory: raccontando la propria esperienza di donna trans, ha teorizzato nuovi modelli di vita comunitaria. Nel 2023 ha pubblicato un memoir in forma epistolare, Love and Money, Sex and Death (di prossima pubblicazione per NERO, nella collana Not). In Raving, uscito in Italia lo scorso anno, sempre per NERO, Wark porta i lettori nei luoghi della scena rave underground queer e trans di New York, proponendo nuove pratiche, linguaggi e modi di stare insieme.
Pubblichiamo un estratto dalla conversazione tra Sandra Cane e McKenzie Wark che si è tenuta a Milano, alla Libreria Antigone.
In Raving catturi la natura effimera dei rave queer e delle situazioni che si creano all’interno di questi spazi senza romanticizzarli. Allo stesso tempo, grazie alla tua scrittura, che è ricca di dettagli, racconti personali e teoria, dai al testo un ritmo che ti accompagna di rave in rave. Puoi raccontarci un po’ la tua esperienza nei rave e come questa entra poi nel testo?
Frequentavo i rave e la scena techno berlinese già negli anni Novanta, ma non la capivo. Non coglievo fino in fondo le sue sfumature, all’epoca. Era tutto molto, molto strano, ma interessante. Mi ci sono voluti una ventina d’anni per abbandonare quella incomprensione.
Mi sono innamorata di una persona di New York e mi sono trasferita lì. Io ho sempre preferito il rock alla musica techno e house, per intenderci; quindi, avevo una cultura del ballo molto diversa. Poi ci siamo lasciati, io ho iniziato la transizione ed è così che il rave è davvero entrato nella mia vita.
Come molte donne trans di New York, ho una madre trans che mi ha fatto un po’ da guida. Un giorno le stavo dicendo: la transizione funziona. Mi sento molto meglio. Sento solo ancora un ronzio bassissimo di disforia di genere per cui niente funziona, tranne ballare. E lei mi ha detto: “Stanotte tu vieni con me a un rave! Ti aspetto a casa mia alle due di notte”.
L’abbiamo fatto, e mi ha cambiato la vita. All’improvviso sentivo che ne avevo bisogno, che funzionava davvero. E ho trovato altre persone che ne avevano bisogno. Non è divertimento, è un modo di vivere. E, come racconto nel libro, è molto meglio di come lo ricordassi dagli anni Novanta. Mi sembra che quello che sta succedendo adesso sia interessante e diverso. Perciò volevo documentarlo, anche per ricambiare il dono di aver avuto accesso a questo mondo che è un po’ difficile da trovare. Non si fa troppa pubblicità.
Nel libro parli dei rave come di una situazione costruita. Scrivi che il modo di vivere il rave è il K-time, il tempo ketaminico, dove non c’è una visione del futuro, nessuna utopia, ma solo il presente. Mi ha fatto pensare a quello che scrivevi in Molecular Red: “There is no other world, but it can’t be this one”.
Negli anni Novanta, parlare di rave significava parlare di utopia, resistenza, sovversione. Di trascendenza. Il problema è che queste parole mettono molta pressione. I rave invece sono una cosa per persone ai margini: non c’è bisogno che diventino un’allegoria per i bisogni politici di tutti gli altri. È troppo. E quel linguaggio quindi mi sembra ormai logoro. Perciò volevo creare a una lingua diversa, per parlare oggi di rave, più vicina a quella che già le persone usano, quindi più appropriata, ma che poi fosse mia, che emergesse dalla mia esperienza. È parte del mio lavoro di scrittrice, rendere strana la lingua. Ci abituiamo a ripetere le stesse cose allo stesso modo. Cambiamole un po’, le parole…
Nel libro c’è però anche una componente più sotterranea, un’incursione nella filosofia del tempo. Parlo di “tempo laterale”, una sacca nel tempo che contiene altro tempo: è il tempo dissociato che si vive nel rave. È dentro questo tempo che si crea quello che definisco il “rave continuum“, cioè quell’unico flusso che unisce tutti i rave a cui si è andati, un flusso dove i momenti confluiscono l’uno nell’altro e dove tutti i rave passati, presenti e futuri sembrano connettersi.
Il rave continuum l’ho usato anche come espediente retorico, per poter raccontare di alcune feste senza doverle raccontare davvero. Perché alcuni di questi rave sono ancora sotterranei. Non sono segreti, intendiamoci, ma non sono neanche pensati per attirare turisti. Perciò nel libro descrivo un evento che ho vissuto a una festa e poi ricorro all’espediente del rave continuum per far sì che una cosa successa a un’altra festa sembri avvenire nello stesso luogo e nello stesso momento. Mi prendo una certa libertà con gli aneddoti raccontati nel libro e metto in guardia le lettrici fin da subito che no, non si tratta di un memoir. Non è un’autobiografia. Mi sono presa certe libertà con il materiale biografico. Ma spero sia comunque emotivamente e concettualmente sincero.
“Negli anni Novanta, parlare di rave significava parlare di utopia, resistenza, sovversione. Di trascendenza. Il problema è che queste parole mettono molta pressione”.
Nel libro c’è anche il concetto di “enlustment”, tradotto in italiano come “libidinazione”, che risuona in modo particolare con la mia esperienza trans: è quando ti ritrovi in un party a ballare, fatta, e senti un eccesso di femminilità e una nuova esperienza di sensualità e sessualità, in cui scopi con il suono e con la macchina. Ce ne puoi parlare?
Nella tragedia di Nietzsche c’è sia l’apollineo sia il dionisiaco. E spesso si dice che la cultura rave appartiene al dionisiaco. Ma Nietzsche parla anche di un “dionisiaco dei barbari”, e ne prende le distanze, perché per lui è una baldoria troppo sessuale, troppo selvaggia. Non è quello che vogliamo, dice Nietzsche. E invece è proprio quello che voglio io. Datemi la versione barbara!
Volevo addentrarmi nel senso occidentale del dionisiaco. Sembra spesso che non abbiamo abbastanza sfumature per descriverne l’estetica, perché si dà per scontato che nel dionisiaco si perda il senso di sé, che sia un’ebbrezza completa. Ma io penso invece che la si possa analizzare e raccontare.
Per questo ho cercato di scomporre nel dettaglio alcune particolari esperienze dissociative: dopo aver ballato per diverse ore al ritmo di una musica estremamente ripetitiva, e ad alto volume, e dopo aver assunto delle droghe, in quali stati ci si ritrova?
La libidinazione è uno di questi. Consiste nel trovare il nucleo erotico della fisicità, che zittisce tutti i pensieri superflui e ti permette di essere presente a te stessa, nel tuo erotismo. È uno stato che si alimenta della presenza delle persone intorno a te. E non è per forza sessuale: l’erotico e il sessuale non sempre coincidono. Quando sperimenti la libidinazione senti una carica erotica che ti connette agli altri corpi e al tempo stesso un’intensa intimità. A volte, mentre ballo in pista, è quasi troppo forte. “Non possiamo semplicemente scopare?”, mi viene da dire. Perché mi mette meno alla prova. Mi è successo… “Oddio, troppe informazioni sui corpi, sulle relazioni tra i corpi… Andiamo nella dark room, è più semplice”.
Poi c’è quello che chiamo “spaziorave”. Un’altra parola che ho coniato. È un’esperienza che si prova quando c’è un monologo interiore che non riesci a zittire. Un discorso che continua nella tua testa, ma tu non sei soggettivamente al suo interno. È come se andasse avanti senza la tua presenza. Il linguaggio non si ferma, ma tu ne sei libera. Quello va avanti, e il tuo corpo va avanti. Mi piace da pazzi!
E poi c’è un’altra estetica dissociativa, che ho chiamato “xeno-euforia”. Ti senti presente nel tuo corpo, ma il tuo corpo ti sembra alieno – alieno ma in un modo accogliente. La tua carne è strana ma ben accetta. Xeno è l’altro, l’altro come dono. E vale in particolare per il corpo trans, che è un corpo strano, ma è favoloso.
Queste sono tre diverse configurazioni, tre diversi stati all’interno del dionisiaco barbaro. Che cosa succederebbe se cominciassimo, per il diosnisiaco, a creare un linguaggio che sia sfumato e dettagliato come quello dell’apollineo? Iniziare ad aprire questa dimensione, ecco cosa cerco di fare nel libro.
In Raving i party sono una sorta di esperienza estatica, una catarsi. Anche se il rave non è di per sé trans, noi trans siamo molto brave a interpretarlo e a perderci in esso, ricorrendo a una sorta di spiritualità, di misticità…
Ci sono diversi linguaggi che si possono utilizzare per riflettere su questi fenomeni: estetico, politico e teologico. Nessuno da solo funziona fino in fondo. Io volevo inserirmi in ciascuno di essi, e in quello teologico ho cercato di farlo con particolare delicatezza, perché non è proprio il mio campo. Sono un’atea di terza generazione. Nonostante questo, devo ammettere che nei rave c’è qualcosa di spirituale. Qualcosa di “arcano” – forse questa è la parola giusta, più che spirituale. Lo riscontro soprattutto nella storia.
La musica house nasce a Chicago come musica nera queer. Gli uomini gay quando parlavano di andare al club, dicevano “going to church”, andare in chiesa. Erano persone cresciute in un ambito religioso, scomunicate. Quindi il club divenne il luogo dove provare la stessa spiritualità, la stessa sensazione di comunità. E i dj e le dj house, arrivata l’alba della domenica, poi suonavano gospel. Forse proprio per riempire quel vuoto.
“Quando sperimenti la libidinazione senti una carica erotica che ti connette agli altri corpi e al tempo stesso un’intensa intimità. A volte, mentre ballo in pista, è quasi troppo forte”.
Anche nella mia comunità, a New York, ci sono donne trans cresciute con la chiesa. Se sono Latinas probabilmente sono cattoliche, se sono nere probabilmente vengono dalla chiesa battista. È una ricca formazione culturale da cui poi sono state escluse.
Nel libro parli anche di “style extraction”, ‘estrazione di stile,’ e di gentrificazione: una gentrificazione di razza, di classe, una gentrificazione queer, che in questo momento è anche una gentrificazione del rave. Anche in Italia il rave è gentrificato. Recentemente a Milano, durante una settimana della moda, un brand ha utilizzato un’estetica rave, con location di rave e musica rave per la propria sfilata. È un modo di tradire la filosofia rave, traendone l’essenza e rivendendone l’essenza.
Già, penso che sia inevitabile. È sempre stato così. Questo tipo di estrazione estetica è iniziato almeno negli anni Trenta del Novecento, quando le sottoculture e le culture di strada sono state saccheggiate di tutto quello che poteva essere trasformato, semplificato e venduto al mercato di massa. Fa parte della storia della moda.
Per fortuna l’energia dell’estetica popolare è illimitata. Cosa possiamo fare quando ci sfruttano e rubano le nostre estetiche? Ce ne andiamo da un’altra parte, e proviamo a tenerlo segreto per un altro po’. Quando il segreto trapela, perché è così che funzionano i segreti, allora passeremo a qualcos’altro. Al momento la scena rave techno di New York è fantastica. Ma niente è per sempre.
Ti faccio un’ultima domanda su Kathy Acker e L’impero dei non sensi, un libro appena ripubblicato in italiano, sempre da NERO. Kathy Acker è stata una scrittrice di culto, un’autrice estrema, un’icona della controcultura. Con lei hai avuto una relazione personale profonda. L’impero dei non sensi è un romanzo fantascientifico viscerale e allucinato, che non lascia molta speranza o spazio all’utopia. Leggendolo, ci ho ritrovato qualcosa del tuo Raving. Il mondo allucinato che crea Kathy Acker mi sembra una sorta di K-time dissociativo, in cui la violenza si mischia al piacere.
Io e Kathy abbiamo avuto una storia per circa un mese. Era tipico di lei, le è capitato con diverse persone: si innamorava perdutamente di qualcuno, fino a che quel qualcuno non finiva, inevitabilmente, per deluderla. Era uno schema ricorrente nella sua vita. È stata anche sposata un paio di volte, ma aveva questi innamoramenti folli, le è capitato anche con me. L’unica cosa che rende la nostra storia diversa è che io ho tenuto le email che ci siamo scambiate, e ne è venuto fuori un libro, I’m Very Into You. Per questo mi invitano ancora alle conferenze su Kathy Acker. Ma a me vien da dire: “Ah, abbiamo scopato, ma non conosco così bene la sua letteratura”. Kathy evitava di fare sesso con i suoi ammiratori, cosa molto saggia. L’ho imparato da lei. Io la rispettavo come scrittrice, ma non ero fan. E nemmeno lei era mia fan. Ma il suo astrologo le aveva detto che si sarebbe innamorata di una persona australiana. E io ero lì a cena. Quindi deve aver pensato: “Ecco!”
Abbiamo iniziato una corrispondenza, siamo state insieme a San Francisco per un po’, e poi abbiamo ripreso la corrispondenza. Lei voleva che mi trasferissi a San Francisco, ma era troppo presto per me. E probabilmente non sarebbe cambiato nulla. Penso però ci sia un aspetto particolare dei nostri scambi epistolari: all’epoca eravamo due persone trans che non sapevano di esserlo. E questa incomprensione aggiunge pathos. Tutti si fraintendono nelle relazioni, no? Ma qui c’era un’incomprensione ulteriore che riguardava il nostro genere.
E poi mi hanno chiesto di pubblicare la corrispondenza. Chris Kraus voleva scrivere una biografia a cui poi sarebbero seguite una serie di ripubblicazioni, una conferenza, un progetto che aveva l’obiettivo generale di canonizzarla. E inserire questa scrittrice sperimentale, queer, punk, dai molti generi, nel canone della letteratura americana mi sembrava una bella idea. Sono felice di aver contribuito.
I lettori e le lettrici continuano a cercare i suoi libri perché lì trovano una pratica anarchica di scrittura e pensiero, di citazioni, di riscrittura, di mix e ricomposizione. Leggere Kathy Acker è un’esperienza meravigliosa, disorientante. Perché stai leggendo una storia, e all’improvviso ti ritrovi con una storia completamente diversa. Mentre leggi una frase, all’improvviso quella frase si trasforma in qualcos’altro. Acker ti insegna a leggere in maniera diversa. Ho dovuto imparare molto sul suo conto per diventare non dico un’esperta, ma almeno una lettrice consapevole.
“Leggere Kathy Acker è un’esperienza meravigliosa, disorientante. Perché stai leggendo una storia, e all’improvviso ti ritrovi con una storia completamente diversa”.
L’impero dei non sensi è uno dei miei preferiti, con la sua strana componente cyberpunk. In quel periodo Kathy leggeva William Gibson. È venuto fuori un romanzo legato a temi coloniali, di violenza coloniale. Affronta questioni legate ai limiti dell’umano – uno dei personaggi è un cyborg. Molti di questi temi sono molto attuali, oggi. Kathy si informava parecchio sulla guerra in Algeria, era molto interessata alla letteratura africana, introduceva nei suoi libri cose su cui al tempo gli altri non lavoravano affatto.
Quindi evviva Kathy Acker. Penso che tutti, tutte, dovrebbero leggerla.
Sandra Cane
Sandra Cane è una scrittrice e ricercatrice indipendente di studi queer. Scrive per riviste e piattaforme online. Il suo ultimo libro è La grammatica della frammentazione (Einaudi, 2023).
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