Pietro Minto
Il settore delle crypto è fiorito dalla controcultura libertaria californiana: era quasi inevitabile che prima o poi si legasse al populismo di destra di Trump. Ma cosa succederà ora che è entrato nelle stanze del potere?
Nel momento in cui scrivo, il valore di bitcoin, la principale criptovaluta del mondo, ha superato per la prima volta nella storia i 100mila dollari. È stata una crescita improvvisa ma continua che ha portato bitcoin dai 62mila dollari di inizio novembre a superare una barriera psicologica ritenuta impossibile fino a pochi mesi fa. A innescare questa esplosione è stata la vittoria di Donald Trump alle ultime elezioni presidenziali statunitensi, dopo che per mesi il settore crypto aveva puntato con decisione sul candidato repubblicano, creando una nuova alleanza tra politica, finanza e tecnologia.
Eppure non è sempre stato così. Sono abbastanza vecchio da ricordare quando Donald Trump definiva i bitcoin “una truffa contro il dollaro”. Non che sia necessaria una memoria di ferro per riuscirci: succedeva nel 2021. Ma negli ultimi mesi il cambiamento di posizione di Trump nei confronti delle criptovalute è stato radicale e abbastanza acrobatico da stupire molti osservatori. D’altra parte, il legame tra movimento trumpiano e criptovalute – che continua a rafforzarsi ogni giorno – era forse un’unione inevitabile. Scritta nelle stelle.
È di qualche giorno fa la notizia che Justin Sun, il criptomiliardario famoso per aver comprato Comedian, la discussa opera d’arte di Maurizio Cattelan composta da una banana fissata con nastro adesivo su una parete, ha investito in World Liberty Financial.
World Liberty Financial è la piattaforma per l’acquisto e lo scambio di criptovalute lanciata da Trump a settembre, durante la campagna elettorale, con la promessa di “rendere nuovamente grande la finanza”.
Come detto, è stata l’ultima corsa presidenziale a sancire il consolidarsi dell’alleanza tra il partito Repubblicano e il settore delle criptovalute (e, più in generale, quello Big Tech).
Decine di milioni sono piovuti dai wallet di investitori e CEO verso i comitati elettorali trumpiani; e, ora che Trump ha vinto, un caravanserraglio di personaggi che abbiamo imparato a conoscere durante la pandemia, in un momento di grande crescita per il crypto, è tornato all’attacco. E sono vicini quanto mai alle leve del potere. E pensare che sono passati appena due anni dal collasso di FTX, il servizio per lo scambio di criptovalute fondato da Sam Bankman-Fried, innesco di una reazione che ha portato il suo capo in prigione e costretto per parecchi mesi il crypto in letargo.
“Nel momento in cui scrivo, il valore di bitcoin, la principale criptovaluta del mondo, ha superato per la prima volta nella storia i 100mila dollari”.
SBF era un crypto bro diverso dagli altri, almeno a parole: la maggior parte delle sue donazioni, ad esempio, andavano ad aziende, enti e associazioni di area liberal. Certo, da allora abbiamo scoperto che SBF era in realtà solito donare anche ai repubblicani, di nascosto. Come si suol dire, è il pensiero che conta: per qualche motivo Bankman-Fried, all’epoca veniva ritenuto il volto “responsabile” del crypto, e ci teneva a dichiarare di essere di sinistra. Un “miliardario buono”, insomma.
Il crollo di FTX e del suo beniamino svelò una frode miliardaria nella quale, tra le altre cose, SBF “rubò 8 miliardi di dollari dai clienti del fondo da lui fondato”,. L’eventofu un trauma per l’intero settore, che in quel periodo stava già subendo le conseguenze della vittoria di Biden del 2020, che da presidente nominò la giurista Lina Khan alla presidenza della Federal Trade Commission (FTC), l’ente preposto alla tutela dei consumatori e alla prevenzione di pratiche commerciali anticoncorrenziali: donna, trentacinquenne, musulmana e al centro di una svolta statale interventista nei confronti di Big Tech, Lina Khan incarnava alla perfezione il ruolo di spauracchio della destra e del mondo della finanza.
A preoccupare davvero il mondo del crypto era però un’altra nomina bideniana, il Presidente della Commissione per i titoli e gli scambi degli Stati Uniti (SEC), Gary Gensler, noto per avere una visione critica del settore. La sua reputazione da Voldemort del crypto era notevole: la notizia delle sue dimissioni dopo la vittoria di Trump era bastata a far sfiorare a bitcoin i 100 mila dollari (cifra poi raggiunta successivamente, nelle scorse ore).
Ma in quelle ore è successa anche un’altra cosa significativa: XRP, un token al centro di una disputa con la SEC per via della sua vendita al servizio Ripple (che è assieme valuta online e una piattaforma pensata per permettere transazioni rapide), ha cominciato a crescere di valore, per la speranza che una ventura SEC trumpiana potesse mettere una pietra sopra a quella storia. Così è stato: nella notte tra mercoledì e giovedì è arrivata la conferma della nomina di Paul Atkins, astronauta, imprenditore e pro-crypto, alla SEC, che ha ispirato lo storico picco di bitcoin (e di altre criptovalute).
Gli interessi politici del mondo crypto sono agitati però da qualcosa di più profondo di un banale trasformismo: il settore in questione è diverso dagli altri, è un miscela rarissimo di tecnologia, politica, finanza e sottocultura, che scorre in profondità nella società statunitense (e non solo). Per capire da dove viene questa commistione di interessi e settori diversi , occorre tornare all’inizio di tutto: il white paper di Satoshi Nakamoto, l’anonimo creatore di bitcoin, che immaginò una valuta decentralizzata, sicura e anonima, a partire da una nuova tecnologia chiamata blockchain.
Era il 2008 ma tanta strada era stata fatta nei decenni precedenti da alcuni movimenti underground che univano la controcultura e il movimento hippie con la nascente informatica. Tra tutti, quello dei cypherpunk, che volevano usare la crittografia informatica come parte di un percorso di cambiamento sociale e politico, nel nome della privacy e della libertà personale. Un terroir anti-sistema e – diremmo oggi – tecno-utopostico, o tecno-ottimista, che sin dagli albori aveva materiale genetico in comune con una corrente di pensiero politico tra le più americane: il libertarismo.
Per capire il rapporto tra crypto e politica è allora più congruo parlare di tecno-libertarismo. Di questa filosofia si possono individuare tre colonne portanti: la difesa delle libertà civili; il rifiuto del ruolo dello stato e della regulation; una fiducia cieca nel mercato. Se vi chiedete com’è stato possibile che San Francisco, un tempo indiscussa capitale hippie, gay e liberal d’America abbia covato per decenni gli spettri neri di Elon Musk, Marc Andreessen e Mark Zuckerberg, la risposta sta proprio qui. Ben prima di bitcoin, il tecno-libertarismo cercava un modo di liberarsi da uno dei suoi più acerrimi nemici: la Fed, Banca Centrale d’America, che ha il vizio di controllare e dare ordini quanto di più prezioso e,americano ci sia: il Dollaro.
Prima delle criptovalute, ci fu così la stagione delle valute digitali o elettroniche. La prima, del 1982, si chiamava eCash e fu inventata da David Chaum, crittografo statunitense che sognava il “contante elettronico”. Seguirono esperimenti e dibattiti che si svolsero online e su newsletter specializzate con pubblico ridottissimo ma influente e partecipe. Fu in una di queste mailing list, metzdowd.com, che il 31 ottobre del 2008, giorno di Halloween, fu pubblicato “Bitcoin: A Peer-to-Peer Electronic Cash System”, il white paper di Nakamoto.
Mliardari con tonnellate di contante (digitale e non) hanno passato gli ultimi anni nel tentativo di costruire un mondo digitale parallelo al nostro, come dimostra il Web3, la fantomatica nuova versione della rete che nel biennio pandemico attirò miliardi di investimenti per poi generarenumerosi fallimenti. Criptovalute, metaverso, NFT, DAO, blockchain: tutto convergeva in questo sogno febbrile tecno-libertario, una realtà parallela in cui politica, cultura, leggi, finanza, cittadinanza venivano ridotti a una cosa, la tecnologia.
“Gli interessi politici del mondo crypto sono agitati però da qualcosa di più profondo di un banale trasformismo: il settore in questione è diverso dagli altri, è un miscela rarissimo di tecnologia, politica, finanza e sottocultura, che scorre in profondità nella società statunitense”.
Cosa succederà ora che questo settore nato dalla controcultura e con pulsioni lievemente sovversive è arrivato nelle stanze del potere. A giudicare da alcune dichiarazioni dei crypto bros, si direbbe che il loro obiettivo inconscio sia di diventare proprio il nemico di sempre, la Fed. Questa pulsione giustificherebbe il piano di alcuni di loro di costruire una riserva federale di bitcoin: “Vogliono che acquisti token per miliardi di dollari e poi li tenga per decenni nella speranza che il loro valore salga e possano aiutare a ridurre il debito pubblico”, racconta il «Washington Post».
Per citare una delle espressioni più care al settore, HODL: comprare e non vendere, nella speranza che i numerini sullo schermo continuino a salire. Fino alla Luna, come dice un’altra frase che va forte da queste parti: “To the moon!”. Per ora sono arrivati a Mar-a-Lago.
Pietro Minto
Pietro Minto è scrittore e giornalista. Dal 2014 cura una delle più diffuse newsletter italiane, «Link Molto Belli». Il suo ultimo libro è Cosa sognano le IA (UTET, 2024).
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