Gabriele Gimmelli
I suoi capolavori, certo, e una personalità debordante e piena di contraddizioni. Ma anche un atteggiamento di sfida rispetto alle logiche dell’industria cinematografica, che oggi sembra assai raro.
“È una concezione egocentrica, romantica, ottocentesca che l’artista sia più interessante e importante della sua arte”, spiegava Orson Welles a Peter Bogdanovich intorno al 1970. “Questa enfasi sull’artista – la glorificazione dell’artista – è una delle brutte pieghe prese dalla nostra civiltà negli ultimi due secoli. In poche parole il senso stesso di un libro come questo è proprio quello che avverso”. Il libro in questione era quello che l’allora giovane Bogdanovich, critico cinéphile da poco passato dietro la macchina da presa, stava cercando di realizzare insieme con lo stesso Welles, sotto forma di lunga intervista. Una specie di versione americana del truffautiano Il cinema secondo Hitchcock, ma più divertente. Smarritosi nei meandri della vita e della carriera dei suoi autori, il libro vedrà la luce soltanto nel 1992, con il titolo This is Orson Welles (inizialmente apparso da Baldini & Castoldi come Io, Orson Welles, è ora disponibile per Il Saggiatore, reintitolato Il cinema secondo Orson Welles), a cura dell’esperto wellesiano Jonathan Rosenbaum.
Welles antiautorialista, dunque. Un paradosso: l’incarnazione stessa del concetto di auteur cinematografico che si schiera apertamente contro l’assioma di Giraudoux che i critici dei «Cahiers du Cinéma» avevano trasformato in un mantra: “Non esistono opere, solo autori”. “Per fortuna non sappiamo quasi niente di Shakespeare e molto poco di Cervantes”, diceva ancora a Bogdanovich, parlando di due dei suoi autori preferiti (il terzo era Montaigne, “lo scrittore più completo che sia mai esistito”, la quarta Karen Blixen, dalla quale prese spunto nel 1968 per Storia immortale, il suo primo film a colori ): “così è tanto più facile capire le loro opere. Più sappiamo degli uomini che le scrissero, più grande è l’occasione che si presenta a tutti gli Herr Professor dell’ufficialità accademica di fare bisticci e pasticci”.
Non era una posa. Anzi, il posto di Welles nel canone è stato per lungo tempo in discussione: in patria, dove la sua reputazione è tutt’ora oggetto di dispute, ma anche nella vecchia Europa, dove un suo fervente ammiratore, il critico francese André Bazin, constatava amaramente come fosse considerato “l’ispiratore di un grande bluff: il suo”. Può sembrare difficile crederlo, oggi, a quarant’anni dalla morte (10 ottobre 1985), con il suo nome da tempo ridotto a sinonimo di classico polveroso e in un certo senso “obbligato” (almeno per gli studenti dei corsi universitari di cinema); e con Quarto potere (1941) ormai spodestato dalla vetta dei migliori film di tutti i tempi, secondo la lista stilata ogni dieci anni dalla rivista britannica «Sight and Sound», in favore di titoli più radicali o più accattivanti come Jeanne Dielman (1974) di Chantal Akerman e La donna che visse due volte (1958) di Alfred Hitchcock (rispettivamente, primo e secondo posto del podio nell’ultima classifica del 2022). Sono gli scherzi amari della posterità.
Welles sapeva tutto questo e anche altro. “Guardo le vecchie pellicole che stai raccogliendo per il libro”, aveva scritto una volta al fedele Bogdanovich, “e non credo che oggi potrei apprezzare la persona che mi restituisce lo sguardo. Vedo un saputello sprezzante (e un po’ musone)…”. Sono del resto questi gli anni in cui Welles elabora le tesi poi al centro di F for Fake (1973), in cui, dietro il brillante film-saggio su creazione artistica e falsificazione, fa continuamente capolino il rapporto fra autore e opera – ovviamente del tutto a vantaggio di quest’ultima. Lo stesso tema tornerà, in maniera ancora più radicale, anche in The Other Side of the Wind, l’ultimo suo progetto cinematografico di ampio respiro, distribuito postumo da Netflix nel 2018. “Il più costoso home movie mai realizzato”, a detta dello stesso regista, nonché suo unico film ambientato nel mondo del cinema. Protagonista, un anziano e autoritario regista della vecchia guardia, J.J. Hannaford, interpretato dall’amico John Huston. “Un dio terribile e geloso”, maschilista, misogino, fallocentrico e col complesso del demiurgo, di cui Welles si diverte a smontare pezzo dopo pezzo la finzione virile (il grande seduttore si scopre innamorato del suo primattore), fino a metterlo a morte in un misterioso scontro automobilistico (incidente o suicidio?).
Un ritratto spietato che è al tempo stesso un parziale, impietoso autoritratto; come se Welles volesse definitivamente abdicare al ruolo di autore uccidendo una parte di se stesso. Contraddizioni di una personalità bigger than life (la formula è dell’interessato), a suo tempo messe molto bene in luce da uno dei suoi maggiori studiosi, James Naremore: “Da un lato”, scrive nel suo Orson Welles ovvero la magia del cinema, “era quello che Antonio Gramsci definiva intellettuale tradizionale: antiborghese, con gusti tipicamente europei, con un atteggiamento di cinico rifiuto nei confronti dell’industrialismo e del progresso, nostalgie della grande letteratura drammatica, incapace di abbandonare certi valori ottocenteschi”. Dall’altro, osserva ancora Naremore, somigliava anche alla categoria opposta, “quella dell’intellettuale organico, dato che era un democratico e un populista del Midwest americano, strenuo oppositore di ogni fascismo e razzismo, abile imprenditore dell’epoca della riproducibilità tecnica, e brillante personalità dello spettacolo”.
Contraddizioni presenti fin dagli esordi, da quando Welles (classe 1915) era un ventenne dal volto tondeggiante che alternava con successo il teatro engagé con i microfoni della CBS; che sfidava la censura mettendo in scena The Cradle Will Rock, dramma musicale à la Brecht-Weill di Mark Blitzstein, e mandava nel panico la costa orientale degli USA (vabbé, quasi) con un’originale trasposizione radiofonica in chiave mockumentary de La guerra dei mondi di H.G. Wells. Anche il suo leggendario debutto nel lungometraggio, Quarto potere (1941), si colloca nel segno della contraddizione: un racconto al tempo stesso implacabile e partecipe di un mogul del capitalismo americano, amalgama di William Randolph Hearst, Howard Hughes e Basil Zaharoff, ma realizzato grazie ai soldi della RKO, che aveva messo ai suoi piedi “il più favoloso trenino elettrico che un ragazzo potesse sognare”, garantendogli ampia discrezionalità nella scelta dei collaboratori (lo sceneggiatore Herman J. Mankiewicz, il direttore della fotografia Gregg Toland) e soprattutto il diritto al final cut, ovvero ad avere l’ultima parola sul montaggio del film: un fatto quasi inaudito nella Hollywood dello Studio System.
“Ho scritto questo film e l’ho diretto: il mio nome è Orson Welles”, recita l’inconfondibile voice over al termine dei titoli (letti e non scritti) del suo secondo lungometraggio, L’orgoglio degli Amberson (1942). Una sorta di sigillo d’autore all’interno di un sistema di produzione industriale improntato per lo più alla trasparenza stilistica, al minimalismo estetico e, soprattutto, al lavoro di équipe. Non poteva funzionare. E se Quarto potere, comunque lo si voglia considerare – opera di un dilettante di talento o trionfo dello Studio System? Momento culminante classicismo hollywoodiano o atto di nascita della modernità cinematografica? – poteva essere tollerato in virtù della propria eccezionalità, una seconda infrazione alle regole non poteva e non doveva essere tollerata. Gli Amberson verranno quindi impietosamente tagliuzzati e rimontati, passando dagli originari 132 minuti agli attuali 88. Troppo pessimista e cupo, si disse all’epoca; troppo esplicitamente politico, possiamo ben dire oggi: nel raccontare la decadenza e il crollo dell’aristocrazia agraria del Midwest dietro la spinta di un capitalismo più moderno e spregiudicato, Welles forniva, sempre secondo Naremore, “una delle interpretazioni più mature e intellettualmente complesse della storia americana che il cinema ci abbia dato”.
Da quel momento in poi, le battaglie (tutte perdute) con la produzione per conservare l’integrità dei suoi film saranno una costante della carriera di Welles. Rimangono memorabili i casi de La signora di Shanghai (1948), da lui stesso in parte rigirato su pressioni della Columbia, che voleva farne il veicolo divistico per l’ex moglie Rita Hayworth, e infine amputato di oltre mezz’ora nella parte finale; e de L’infernale Quinlan (1958), l’ultimo film che Welles girò per uno studio hollywoodiano e probabilmente il suo capolavoro insieme a Quarto potere: tagliato e in parte rigirato per volere della Universal, verrà ricostruito (in maniera inevitabilmente congetturale) soltanto nel 1998, a partire da un suo memorandum di 58 pagine e grazie agli sforzi congiunti di un gruppo di appassionati e studiosi wellesiani, capeggiato da Rick Schmidlin e Walter Murch.
Le cose non vanno comunque meglio in Europa, dove Welles si trasferisce nel 1947 in fuga dal maccartismo, per rimanervi fino alla fine degli anni Sessanta, prendendo casa dapprima in Italia e poi in Spagna. Se Otello (1952) vince a Cannes dopo una lavorazione a singhiozzo durata oltre quattro anni, tra finanziamenti che tardano ad arrivare (o non arrivano affatto) e cambi in corsa nel cast principale (la vicenda è accuratamente ricostruita in un bel libro di Alberto Anile, Orson Welles in Italia, riedito un paio d’anni fa da La Nave di Teseo), Rapporto confidenziale (1955), girato a spizzichi e bocconi per mezza Europa, gli viene ancora una volta sottratto dalla produzione e rimontato più volte (Ciro Giorgini, autore storico di Fuori Orario, ne aveva censite almeno sette differenti versioni).
“Il posto di Welles nel canone è stato per lungo tempo in discussione: in patria, dove la sua reputazione è tutt’ora oggetto di dispute, ma anche nella vecchia Europa, dove un suo fervente ammiratore, il critico francese André Bazin, constatava amaramente come fosse considerato ‘l’ispiratore di un grande bluff: il suo'”
“Per fare film ci vogliono troppo tempo e troppi soldi”, dirà sconsolato a Bogdanovich, “Ho passato la maggior parte della mia vita, ormai, a tentare di fare dei film”. Forte è la tentazione di leggere l’opera multimediale di Welles come lo stanzone ingombro di oggetti del finale di Quarto potere, in cui convivono, stipati alla rinfusa, assoluti capolavori e cianfrusaglie di scarso valore, progetti irrealizzati e opere abbandonate al loro destino. È il caso, fra gli altri, di The Other Side of the Wind, ma anche dello slapstick giovanile di Too Much Johnson (1938), ritrovato una dozzina d’anni fa in Friuli; del famigerato Don Chisciotte, iniziato nel 1955 e di fatto mai portato a termine, oggetto nel 1992 di un maldestro tentativo di completamento da parte di Jesus Franco; del thriller The Deep, (1969) e del melodramma The Dreamers (1982), di cui rimangono soltanto alcune sequenze. Senza contare le sceneggiature non prodotte (alcune pubblicate anche in italiano, come l’adattamento de Il piccolo principe di Saint-Exupéry, o il notevole La posta in gioco, satira a sfondo politico ambientata negli anni di Reagan), i lavori televisivi, i testi teatrali (alcuni ancora inediti, come il dramma giovanile Bright Lucifer, scritto nel 1933), gli elzeviri di argomento politico, i copioni radiofonici, l’opera grafica (bozzetti di costumi e scenografie, ma anche ritratti, disegni, caricature) e via elencando.
“Per quali fra queste ‘tracce’ siamo autorizzati a parlare di ‘opere’ di Orson Welles?”, si domandava Naremore, facendo il verso a Foucault. Insomma, oltre a metterci in guardia dal mito dell’autore-demiurgo, Welles ha messo in discussione un altro mito romantico, quello della “purezza” dell’opera d’arte. Non esiste un “puro Welles”, così come non esiste film che non sia il risultato di una serie di scelte economiche e produttive ben precise. Ben prima di Godard, aveva capito che l’importante non è fare film politici, ma fare film politicamente. In questo senso, al di là dell’argomento (dalla critica del capitale in Quarto potere a quella dell’industria culturale in F for Fake), tutti i film di Welles sono “politici”, ora per lo stile, ora per i modi di produzione. Non a caso gli studios hollywoodiani ne compresero immediatamente il potenziale pericolosamente eversivo, laddove la critica, anche quella di orientamento marxista (da Lawson a Adorno, da Aristarco a Burch), ha impiegato molto più tempo.
In un suo saggio di qualche anno fa, Jonathan Rosenbaum ha notato una curiosa coincidenza: i due maestri indiscussi del cinema americano moderno, Kubrick e Welles, hanno entrambi portato a termine tredici lungometraggi in settant’anni di vita. Ma mentre il primo ha agito da stratega, pianificando accuratamente ciascuna mossa con largo anticipo, il secondo ha preferito la tattica della guerriglia, con rapide incursioni oltre le linee nemiche. Come saggiamente fa notare Rosenbaum, Welles ha saputo operare all’interno dello Studio System alla stregua di un infiltrato, piegandone le regole a proprio vantaggio fino a quando le circostanze glielo hanno consentito. Poi, una volta scacciato da Hollywood, era diventato un maverick, un cane sciolto, scandalizzando ora l’intellighenzia ora lo showbiz: l’una sconcertata dalla disinvoltura con cui Welles sembrava accettare qualsiasi ingaggio come interprete (dal ruolo da protagonista in Cagliostro al cammeo in Ecco il film dei Muppet) pur di finanziare i progetti a cui teneva davvero; l’altro indispettito dall’intelligenza perfino eccessiva di molti dei suoi lavori.
Welles talvolta rimpiangeva di non essere mai stato popolare come gli artisti che amava di più, Shakespeare in primis. Il suo destino era evidentemente un altro: quello di essere una spina nel fianco, a ideological challenge, come lo definisce giustamente Rosenbaum. Non un classico inamovibile, ma un maestro eretico e ribelle. Più che interrogarsi su quale sia stata l’eredità di Welles nel cinema statunitense, dai movie brats Scorsese e Coppola (insieme al compianto Cimino, forse il più wellesiano di quella generazione), al Brady Corbet di The Brutalist, passando per i due Anderson (Paul Thomas e Wes), credo che occorra semmai riflettere bene su quali film e quanti cineasti, in questi quarant’anni, abbiano davvero raccolto la sua sfida all’industria mediatico-culturale. Gli estremi, del resto, ce li ha già dati lui, più di mezzo secolo fa: “Bisogna ‘tenersi aggiornati’, naturale, ma con tutto il vasto mondo, non solo con i film… C’è una corrente principale della nostra cultura, uno spirito del tempo a cui apparteniamo, certo; alla fine, però, non saremo giudicati in base al grado della nostra partecipazione, ma in base alla qualità della nostra risposta individuale”.
Gabriele Gimmelli
Gabriele Gimmelli è ricercatore presso l’Università di Bergamo e redattore della rivista «Doppiozero». Il suo ultimo libro è American. Orson Welles, il mito, la letteratura (Quodlibet, 2024)
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