Da dove viene il talento musicale? - Lucy
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Giancarlo Cinini

Da dove viene il talento musicale?

05 Agosto 2024

Esiste qualcosa di innato che determina il talento musicale? O è una questione sociale, economica, ambientale? In altri termini: dipende da come si nasce o da come si cresce? Le storie degli enfant prodige e le ricerche scientifiche sul tema dipingono un quadro più complesso di quello che ci si può aspettare.

1. Da dove viene il talento musicale?


Nel febbraio del 2012 comincia a circolare un video di YouTube in cui un diciassettenne di Londra – Jacob Collier – si replica sei volte sullo schermo. Canta, e riarmonizza, con soluzioni creative, Isn’t She Lovely di Steve Wonder. Quincy Jones, storico produttore, compositore e arrangiatore statunitense, commenta: “this young man is incredible!”. Nel giro di poco è proprio Jones a contattare il giovane talento, e a lanciarlo nel mondo discografico.

Ecco una possibile definizione di prodigio: this young man is incredible! Di talenti precoci è costellata la mitologia della storia della musica occidentale. A undici anni Herbie Hancock suona un concerto per pianoforte e orchestra di Mozart con la Chicago Symphony Orchestra. A tre anni Vladimir Horowitz, tra i più importanti compositori e musicisti del Novecento, rompe un vetro nel tentativo di suonarlo, percuotendolo. Da piccolissimo Art Tatum, parzialmente cieco, impara da autodidatta a volare sul piano. Insomma, il prodigio sembra scritto nel sangue e i segni dell’eroe si vedono nella culla, come per i semidèi della mitologia greca.

Ma è davvero così? Il genio musicale è tutto già scritto nel DNA? Oppure c’entra come si cresce? Jacob Collier è nipote di un violinista d’orchestra e figlio di una direttrice d’orchestra – “a casa cantavamo le corali di Bach”, racconta oggi. Lo stesso Horowitz fu instradato sulla tastiera dalla madre. Molti dei grandi della musica erano figli di musicisti di professione, come Mozart. Si può dire, scientificamente, se esiste una predisposizione, qualcosa di innato che determina il prodigio, oppure se sia soprattutto una questione di come si cresce, di come si coltiva un talento? Ridotta ai minimi termini: geni si nasce o si diventa? O vale magari l’ipotesi di mezzo, che c’entrino entrambe le cose?

“Tra le questioni che riguardano la musica e il cervello, questo è il tema meno studiato”, mi spiega Laura Ferreri, neuroscienziata che si occupa proprio di musica all’Università di Pavia. Anzitutto va definito chi possiamo considerare un prodigio, un talento naturale. Per forza di cose, la definizione resta generica per quanto ovvia: “Consideriamo un talento chi riesce ad avere performance superiori agli altri attorno ai 5, 6, 7 anni, performance sensorimotorie a volte pari a quelle di adulti con ore di pratica alle spalle”, chiarisce Ferreri. E ci sono alcuni fatti che sembrano indicare un coinvolgimento di marcatori genetici nella predisposizione ereditata. Prendiamo l’esempio del cosiddetto GATA2, un fattore di trascrizione che regola altri geni, regola l’espressione del gene SNCA, un gene che codifica una proteina particolare, nei neuroni dopaminergici, i neuroni che trasmettono la dopamina. GATA2 e SNCA sono coinvolti nello sviluppo dell’orecchio interno e di funzioni cerebrali musicali. Con tratti evolutivi comuni: si è osservato che mutazioni nella SNCA, che nell’umano aumentano il rischio di Parkinson, negli uccelli influenzano in modo negativo le loro capacità canore.

A proposito di ereditarietà, poi, “si è osservato che l’abilità di identificare l’altezza di un suono senza punti di riferimento, quello che chiamiamo orecchio assoluto, è una caratteristica che, se presente tra gemelli monozigoti, allora è sempre condivisa tra i due”, racconta Ferreri. Certo, per quanto l’orecchio assoluto non basti a fare il genio, di certo è un vantaggio anch’esso ereditabile. Esiste poi il caso opposto, l’amusia, cioè l’incapacità di discernere l’altezza del tono e dunque di distinguere una persona che sta cantando intonata o stonata, o persino di distinguere tipi diversi di musica. Lo scrittore Nabokov che era amusico confessava che per lui la musica era niente più che “una successione arbitraria di suoni più o meno irritanti”. Anche l’amusia secondo uno studio del gruppo di Isabelle Peretz, neuroscienziata che si occupa di questi temi, presenta una componente ereditaria che potrebbe essere determinata da numerosi geni nell’interazione tra loro e nell’interazione con l’ambiente.

2. Il genio nella lampada

Ma a determinare ciò che siamo è l’interazione tra geni, e tra geni e ambiente, e quest’ultima interazione è ben più complessa. Dobbiamo fare dunque attenzione a una lettura letterale che ci faccia pensare che a una manciata di geni corrisponda precisamente una certa caratteristica. In campo musicale, per smentire questa lettura semplicista, possiamo citare una prova. Uno studio pubblicato su «Current Biology» ha frugato nel genoma di Beethoven e ha scoperto che, stando ai geni, il musicista tedesco non sembrava particolarmente predisposto a stare a tempo: il suo livello di quegli indici poligenici che hanno a che fare con la sincronizzazione al ritmo si colloca nel percentile più basso della popolazione. Insomma, se Beethoven è Beethoven nonostante questi suoi indici genetici apparentemente sfavorevoli, non possiamo spiegare il talento soltanto sulla base di combinazioni genetiche ereditate: “ci possono essere fattori determinati da una certa predisposizione genetica forte, ma senza pratica musicale, senza l’influenza dell’ambiente certe caratteristiche non avrebbero esito”, conclude Ferreri.

3. L’interazione gene-ambiente

Tornando a ciò che può aiutarci a individuare i caratteri del prodigio c’è il tempo dedicato alla pratica: “coloro che chiamiamo talenti sembrano più motivati dei loro coetanei musicisti, si dedicano più ore e possono entrare in stati di assorbimento cognitivo”, spiega la neuroscienziata. L’enfant prodige è insomma un bambino che, grazie ai risultati che ottiene, si dedica soltanto a suonare e dunque diventa ancora più bravo: può sembrare un serpente che si morde la coda, eppure non esclude il fatto che quel prodigio sia innato. In ogni caso, però, più ore di pratica risultano banalmente in maggior esperienza e maestria: e questo sposta inevitabilmente la questione all’interazione con l’ambiente.

L’interazione con l’ambiente riguarda la persona, nella sua psicologia, nel suo apprendimento, ma riguarda anche direttamente l’interazione gene-ambiente, che è determinante per lo sviluppo di certe abilità a partire da certe strutture. “La musica è proprio uno degli esempi più chiari dell’interazione gene-ambiente”, racconta Ferreri. In uno studio che ha coinvolto vari dipartimenti spagnoli e canadesi, l’attivazione di una certa predisposizione in relazione all’ambiente musicale è stata osservata sottoponendo un gruppo di non-musicisti a risonanza magnetica e poi a un breve allenamento al pianoforte. “I dati di risonanza strutturale, in particolare del volume della sostanza bianca, predicono quanto meglio alcuni tra i non musicisti eseguiranno dei compiti di apprendimento ritmico e melodico sulla tastiera. Esistono dunque strutture e connessioni che determinano una certa predisposizione anche in persone che non hanno mai praticato musica, ma la predisposizione necessita di fattori ambientali, in caso, banalmente, la pratica”, continua Ferreri.

Un altro fattore ambientale può essere persino un ambiente deprivato: è il caso limite delle persone che soffrono di cecità, le cui abilità cognitive si ridirezionano sull’ambiente sonoro. Come nel caso del genio di Steve Wonder, bambino prodigio, cieco ma anche figlio di una cantante soul – per sottolineare ancora che si fatica a ridurre tutto quanto a un solo aspetto.

4. Ambienti sonori, ambienti sociali

L’osservazione di quello che succede a contatto con l’ambiente si può allargare al processo di apprendimento in generale: in quello musicale, come in tutti i processi di apprendimento, sono importanti i feedback e lo sviluppo di processi emozionali positivi legati al fare musica. In questo caso, quindi, anche la relazione pedagogica è un fattore ambientale discriminante.

“Possiamo chiederci che cosa sia la genialità. Chiederci quanto ciò che consideriamo genio provenga dal prodigio che si era da bambini. E poi chiederci se sia possibile essere geni senza essere prodigi”.

Non c’entra con la musica ma un esempio celebre – e anche molto criticato – è quello dello scacchista e psicologo ungherese László Polgár che, convinto che geni si diventa, sottopose di fatto le tre figlie all’esperimento di una vita: elaborò una strategia per esporre le bambine agli scacchi, avviarle e crescerle nella disciplina. L’esperimento riuscì: in un mondo scacchistico prevalentemente maschile, le tre ragazze smentirono la frase del campione Kasparov, secondo cui le donne non sono portate: divennero da adolescenti tre eccellenti scacchiste, due addirittirua Gran Maestro Internazionale.

Lo stesso, di fatto, fece Leopold Mozart, crescendo nella musica entrambi i figli, Maria Anna e Wolfang Amadeus, di cinque anni più giovane. Entrambi prodigi, entrambi presto impegnati in tournée organizzate dal padre nelle corti europee. Ma se sappiamo di Wolfang, il Mozart che conosciamo, dobbiamo anche sapere che all’epoca Maria Anna era altrettanto riconosciuta come genio, da tutti, dal fratello e dal padre che la riteneva una degli migliori esecutrici d’Europa. Secondo il musicologo australiano Martin Jarvis, persino due dei cinque concerti per violino di Mozart sarebbero in realtà opera della sorella maggiore. Il problema è che nel Diciottesimo secolo una ragazza poteva suonare il fortepiano o il clavicembalo e magari essere acclamata quanto lei, ma non poteva comporre. Così oggi non sappiamo se e cosa abbia composto. Sappiamo però che la sua carriera finì superati i diciott’anni: doveva trovare marito e dedicarsi a essere donna, come volevano i costumi sociali dell’epoca. L’ennesimo caso che ci dice quanto la relazione con l’ambiente sociale ed economico sia determinante nello sviluppo del talento.

Esiste così anche un limbo di genialità manifeste nei primi anni ma nel tempo mal riposte, di promesse mancate oppure impedite. Come il caso di David Helfgott, pianista la cui vita è diventata celebre col film Shine, interpretato da Geoffrey Rush. La carriera di Helfgott, prima bambino un prodigio e poi musicista promettente, nel tempo viene compromessa da disturbi d’ansia. Il lungo trattamento a elettroshock non gli impedisce di riprendere a suonare; non riuscirà però mai a diventare un gigante.

E così possiamo chiederci che cosa sia la genialità. Chiederci quanto ciò che consideriamo genio provenga dal prodigio che si era da bambini. E poi chiederci se sia possibile essere geni senza essere prodigi, senza essere bambini eclatanti.

5. Il cervello musicologo

“Parlare del talento è interessante, certo”, commenta Ferrari queste mie domande. “Ma è più interessante vedere il talento come un continuum: vale per tutti, tutti abbiamo un cervello da musicologi”. Già i bambini di due giorni rispondono agli stimoli musicali, discernono frasi musicali, ritmo. Anzitutto la struttura stessa della nostra coclea fa sì che certi rapporti tra note siano percepiti come consonanti o dissonanti. Certo, poi esiste il contesto musicale culturale entro cui si regolano questi rapporti tra note e si costruiscono sintassi musicali.

Inoltre nel cervello ci sono aree particolarmente attive quando si tratta di sintassi musicale. “Osservando l’attività cerebrale – racconta Ferreri – notiamo che quando c’è una violazione della sintassi musicale si attivano le stesse aree interessate alle violazioni linguistiche sintattiche. Non sono sovrapponibili al 100 % e però questo vuol dire che il cervello interpreta la musica proprio come un linguaggio”. Quando ascoltiamo musica si attiva una molteplicità di processi che riguarda la corteccia uditiva, la memoria, il linguaggio, il sistema limbico e mesolimbico, legato alle emozioni. “Parliamo di una vera e propria sinfonia neurale”. E ancor più, in chi suona uno strumento, questi processi sono amplificati. E coinvolgono processi sensorimotori, coordinati e sofisticati, come comprendere uno stimolo, associare un suono a un certo movimento, rispondere a feedback.

Per questa ragione la pratica musicale, anche per chi non è prodigio, ha degli effetti visibili sul cervello, un potere trasformativo. Per esempio, si è scoperto che la materia grigia nella regione sinistra della corteccia motoria primaria è più densa tra i pianisti se confrontati con non-musicisti. Un altro esempio è quello del corpo calloso, un tratto di fibre che connette i due emisferi cerebrali e ne garantisce la coordinazione: è sostanzialmente più largo nei musicisti e ancor di più nei musicisti che hanno cominciato la pratica prima dei sette anni. “Inoltre, dagli anni Novanta abbiamo cominciato a studiare i musicisti con la risonanza magnetica e le regioni cerebrali implicate non sono soltanto quelle legate alla pratica, cioè quelle motorie”, continua la studiosa: per esempio è coinvolto il fascicolo arcuato, una connessione neuronale che collega l’area di Broca con quella di Wernicke: si tratta di centri essenziali per il linguaggio. Insomma, la complessità di stimoli e di azioni che richiede la pratica musicale può portare nel tempo a differenze strutturali, nel volume delle aree o in adattamenti delle connessioni.

Da dove viene il talento musicale? -

Suonare può generare anche cambiamenti comportamentali. È un terreno di ricerca dibattuto e i risultati sono contrastanti ma oggi, mi racconta Ferrari, con una certa sicurezza possiamo dire che la pratica musicale ha effetti positivi sulla memoria di lavoro. Questa plasticità cerebrale può inoltre dar luogo a effetti di near transfer, termine che si usa quando abilità di un tipo sono reimpiegate in contesti differenti. “La plasticità determinata dalla pratica musicale può rallentare certi fenomeni di invecchiamento cerebrale: un esempio curioso è quello dei musicisti anziani che sono molto più abili nel cosiddetto speaking in noise, cioè nel distinguere e comprendere il linguaggio in contesti rumorosi”. Infine, dal punto di vista psicosociale, fare musica attiva processi di comprensione e di bonding sociale.

Insomma, siamo dotati di un cervello capace di elaborare, interpretare, costruire e inventare gli stimoli complicati della musica. Per alcuni, certe precondizioni e assieme una pratica, una dedizione e un grado di assorbimento nella fase cruciale dell’infanzia, determinano il talento superiore: this young is incredible! Poi se l’enfant prodige cresciuto maturerà fino a diventare qualcuno capace di suonare, interpretare o inventare in modo significativo, questa è questione che riguarda il contesto culturale, gli incontri e anche la fortuna. Comunque sia, conlude Ferreri, “al netto di persone che interagiscono meglio con l’ambiente musicale, il talento non è per pochi. Tutti nasciamo portati per la musica. È una precondizione dell’umano”.

Questo articolo è stato realizzato in collaborazione con 01 Distribution, che distribuisce in Italia il film “La vita Accanto” , al cinema dal 22 agosto 2024.

Giancarlo Cinini

Giancarlo Cinini è giornalista e collabora con diverse riviste, tra cui «Il Tascabile» e «Galileo, Giornale di scienza e problemi globali».

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