Daniele Pieroni ha scelto di morire. Perché la Chiesa deve giudicarlo? - Lucy sulla cultura
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Valerio Magrelli

Daniele Pieroni ha scelto di morire. Perché la Chiesa deve giudicarlo?

Quello dello scrittore Daniele Pieroni è il primo caso di suicidio assistito in Toscana. Una scelta che la Chiesa (e non solo) non accetta. Freghiamocene del loro giudizio: chi coltiva e feticizza il dolore, non può gioire per la libertà.

Quando abitavo con i miei genitori, avevamo un vicino di rara gentilezza e discrezione. Era sposato con una donna altrettanto “distinta” (allora si diceva così), e vivemmo a lungo gli uni accanto agli altri in un bell’accordo. Poi la moglie morì, e da quel momento il nostro amico si fece via via più dimesso e silenzioso. La sua fine fu spaventosa e improvvisa: andò a trovare un’amica, non lontano da casa, le chiese di andare in gabinetto, spalancò la finestra e si buttò di sotto. Rimasi talmente colpito dall’accaduto, che visitai il cortile dove quell’uomo mite e disperato, si era tolto la vita. Nello stesso modo, e sempre a Roma, si erano uccisi i registi Carlo Lizzani e Mario Monicelli.

Questa vicenda mi ritornò in mente quando la nostra Corte costituzionale rifiutò di accogliere il tema dell’eutanasia tra le questioni referendarie. Feci fatica a scriverne per l’indignazione, di più, per il ribrezzo che mi provocò una decisione tanto barbara. Mentre l’antico tribunale dell’Inquisizione condannava a morte, la sua versione attuale condanna a vita. A ben vedere, però, non c’è alcuna differenza: in un caso come nell’altro, ciò che conta è togliere al suddito la possibilità di scegliere. 

Perché il mio povero vicino, Lizzani e Monicelli non hanno avuto diritto a una morte dignitosa? Perché si sono ridotti a scegliere un trapasso tanto violento come quello di chi si ritrova costretto a scavalcare un davanzale? Semplice: a causa della cappa di un cattolicesimo che, dopo due millenni, continua a esercitare la sua sopraffazione. Ma forse qualcosa si muove, visto che pochi giorni fa un mio amico scrittore, Daniele Pieroni, ha potuto scegliere di morire – medicalmente assistito – in Toscana. Era nato a Pescara nel 1961, si era trasferito a Roma e poi aveva girato mezzo mondo, prima di ritirarsi a Chiusi. Lo ricordo entusiasta, colto, curioso e sereno, malgrado una malattia che lo torturava da anni. 

È stato il primo caso di eutanasia registrato in Toscana, dopo l’approvazione della legge regionale che il governo Meloni, del resto prevedibilmente, ha deciso di impugnare alla Consulta. Dal 2008 Pieroni era affetto dal morbo di Parkinson, a cui ha finalmente potuto sottrarsi con “lucidità e serenità”: lo ha dichiarato l’associazione Luca Coscioni, che lo ha accompagnato in questo percorso di liberazione. Scegliere della propria vita dovrebbe essere un diritto inalienabile, per rivendicare il quale non bisognerebbe aspettare il beneplacito di alcuna autorità.

Pieroni era uomo acutissimo, magro, elegante, deciso a non piegarsi alla sofferenza. Per quale motivo non avrebbe dovuto seguire il proprio desiderio? Avrebbe forse danneggiato qualcuno? Macché, avrebbe solo urtato il senso di dominio della nostra Chiesa, o meglio di quei sedicenti laici a cui i comandamenti della Chiesa sono ormai inavvertitamente entrati in circolo. La vita è un valore, tuonano. E chi lo ha detto mai? Lo sarà per te, e infatti tu sei libero di crederlo. Per quale ragione, però, vuoi imporre questa idea a chi non la condivide?

“Perché il mio povero vicino, Lizzani e Monicelli non hanno avuto diritto a una morte dignitosa? Perché si sono ridotti a scegliere un trapasso tanto violento come quello di chi si ritrova costretto a scavalcare un davanzale? Semplice: a causa della cappa di un cattolicesimo che, dopo due millenni, continua a esercitare la sua sopraffazione”.

Ecco, per me religione significa sopruso, qualcuno che decide cosa io debba fare o non fare, senza ovviamente che, a mia volta, io possa decidere cosa lui debba fare o non fare. Non c’è simmetria possibile con questo modo di pensare paleozoico, predatorio; non c’è reciprocità. Logica vorrebbe che chi si oppone all’eutanasia avesse come oppositori gente decisa a imporla a tutti quanti. Tu vieti il suicidio legale? E io allora pretendo la soppressione obbligatoria della popolazione a, mettiamo, ottanta anni. Idem con l’aborto: l’avversario dell’antiabortista non è chi, come me, lascia chiunque libero di decidere. No, l’avversario che l’antiabortista meriterebbe sarebbe chi pretendesse, con il suo stesso ottuso rigore, di obbligare ogni donna all’aborto.

Capisco che è difficile capire, infatti sono cose che andrebbero insegnate sin dalle scuole elementari, sotto la voce: Lezione di tolleranza. Si chiama libertà, e andrebbe sempre concessa. Ma per me, religione è appunto sinonimo di intolleranza. Pertanto, ripetiamo le parole dell’unico Dio che io riconosca, cioè Kant: “La mia libertà finisce dove comincia quella degli altri”. Detto per esteso: “Nessuno mi può costringere ad essere felice a modo suo […] ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo”.

Facile a dirsi, ma intanto le voci della Chiesa e dei cattolici esprimono grande preoccupazione per quanto accaduto a Chiusi. Per esempio, il presidente dei vescovi toscani, cardinale Augusto Paolo Lojudice, ci tiene a sottolineare il principio dell’inviolabilità della vita umana, dal concepimento alla morte naturale: “La vicenda ci lascia con una profonda amarezza”. Strano, io invece ho reagito con una profonda gioia all’idea che il mio amico (col sondino nasogastrico per sei anni e segnato da lancinanti dolori alla schiena) sia finalmente uscito da questa valle di lacrime. Ho festeggiato, ho brindato alla sua salvezza. Ma la questione, ripeto, non è stabilire se la sofferenza sia un bene: il punto da stabilire è perché tu mi voglia obbligare a seguire le tue convinzioni, vietando le mie.

Il cardinale Augusto Paolo Lojudice chiede un confronto a livello nazionale, affinché la solitudine e il dolore trovino una rete a cui aggrapparsi. Da parte mia, io rifiuto il confronto; non mi interessa fargli cambiare idea. Si goda lui solitudine e dolore, nei quantitativi che riterrà opportuno: l’importante è che non li imponga a me, come a nessun altro. Se di un confronto a livello nazionale c’è bisogno, sarebbe piuttosto quello sul tema dell’imposizione. Capisco bene che oggi non si possano più bruciare gli eretici o i dissidenti come nel Seicento. Sono i danni collaterali della democrazia. Ricordiamo però che l’ultima sentenza di morte inflitta nello Stato Pontificio fu eseguita il 4 luglio del 1870, poco prima della Presa di Roma.

Quanto poi alla pena di morte in sé stessa, è stata formalmente abolita dalla Città del Vaticano solo il 12 febbraio 2001. E questa sarebbe la religione basata sull’amore per il prossimo! Non voglio immaginare cosa sarebbe successo se fosse stata basata sull’odio! Diciamo insomma che la Chiesa ha sempre avuto una certa predisposizione alla violenza. Basti pensare all’infelice uscita di Bergoglio, che dopo i fatti di “Charlie Hebdo” ebbe il coraggio di dichiarare: “Se uno mi offende la madre, gli do un pugno”. Strana interpretazione dell’invito a porgere l’altra guancia. Ma aveva mai letto il Vangelo? Torno però al confronto nazionale sul tema dell’imposizione: questo sì, che mi interesserebbe veramente. Infatti vorrei risalire alle radici di tale irresistibile inclinazione alla prepotenza.

Il cattolico (direi però il cristiano, o meglio ancora, il religioso tout court) ha l’insopprimibile necessità di legiferare in casa altrui. Il sogno del papa, difatti, consisterebbe nel decidere il mio menu, i miei vestiti, le mie letture (ovviamente), insomma, tutto quanto. Ecco che cosa occorre limitare, questa sorta di colonizzazione forzata delle coscienze– e i missionari erano appunto degli esploratori mandati a convertire le popolazioni lontane. Il punto sta nel bloccare la perenne invasione dell’altro che caratterizza tutte o quasi le religioni.

Se voglio morire, perché devo saltare dalla finestra del gabinetto di un’amica? Perché non posso farlo tranquillamente con un’iniezione, circondato da medici caritatevoli? E poi, diciamola tutta, non serve affatto che io sia malato. Se sto in gran forma e ciononostante desidero scomparire, perché non permettermelo? Perché qualcuno deve decidere della mia vita? Chi gli concede – a questo qualcuno – un potere del genere? La cosa è talmente rilevante, da spingermi a definire “religione” quell’insieme di credenze appositamente concepito per impedire l’autonomia intellettuale del prossimo. Il religioso, insomma, concepisce solo un rapporto di prevaricazione.

Di conseguenza, non accetterebbe mai l’idea che preferisco Kant a Lojudice. Da italiani, però, dobbiamo tutti sottostare al secondo, ossia subire una situazione che non è troppo lontana dalla teocrazia. Eppure sarebbe così facile convivere senza angherie: Lojudice abbracci il dolore, io l’eutanasia, e ognuno vada per la sua strada. La Chiesa, invece, non tollera il dissenso. Ricordiamoci che la sua apparente dolcezza nell’ultimo secolo è stata il frutto dell’invasione militare sabauda. Infatti, il Vaticano non ha mai rinunciato al proprio potere temporale; si è solo rassegnato a ciò che gli è stato strappato con la forza a Porta Pia.

Ma non dimentichiamo le cose buone che accadono! Daniele Pieroni, per la prima volta in Italia, ha potuto sottrarsi dolcemente all’orrore di una vita malata. Bisogna celebrare questo giorno, sperando che l’esercizio dell’eutanasia continui e si allarghi alle altre regioni, consentendo a chi vuole andarsene di farlo liberamente, senza cioè doverne rispondere a nessuno. Preghiamo dunque il nostro vero Dio, un Dio democratico e laico: “Nessuno mi può costringere ad essere felice a modo suo”.

Valerio Magrelli

Valerio Magrelli è poeta, scrittore, francesista, traduttore e critico letterario. Il suo ultimo libro Exfanzia (Einaudi, 2022).

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