Gabriella Grasso
Il 50% della popolazione mondiale attraversa la menopausa. Incide sul lavoro, sulle relazioni e sul benessere delle donne, eppure se ne parla poco a livello istituzionale, ma anche tra amiche. Come mai?
The M Factor è il titolo di documentario presentato negli Stati Uniti il 17 ottobre. Generation M quello di un libro in uscita, sempre negli Usa, a dicembre (autrice: Jessica Shepherd), preceduto di pochi anni da The M Word di Ginni Mansberg.
In tutt’e tre i casi, la M sta per menopausa.
Cito questi titoli perché mi sembra che l’utilizzo della M maiuscola già da solo indichi l’importanza che il tema ha acquisito di recente. Nel mondo anglosassone si parla da un po’ di Menopause Revolution, un spinta globale alla demolizione dello stigma connesso a una fase dell’esistenza femminile che oggi, grazie all’aumento dell’aspettativa di vita, in Occidente dura praticamente trent’anni. La saggistica sul tema è in grande espansione. Le già citate Jesse Shepherd e Ginni Mansberg sono ginecologhe, come lo sono le italiane Anna Paola Cavalieri e Rossella Nappi che nel 2024 hanno mandato in stampa, rispettivamente, Senza paura di cambiare (Mondadori) e Vivere bene in menopausa (Fabbri), mentre Lisa Mosconi, autrice sempre quest’anno di The Menopause Brain, è una neuroscienziata.
Poiché parliamo di un radicale cambiamento dell’assetto ormonale, qualche riferimento alla medicina è imprescindibile. Tuttavia ciò che mi interessa qui non è addentrarmi nella fisiologia, ma indagare il fenomeno dal punto di vista sociale – che impatto ha sulla vita delle donne, in che termini e con quanta libertà se ne parla, se dovrebbe o meno far parte del dibattito femminista – e per questo ho scelto di non intervistare medici (anche se ne citerò diversi) ma persone che fanno advocacy sul tema.
Piccola premessa personale. Ho scoperto che la menopausa è ancora un tabù quando ho iniziato a sperimentare in prima persona sintomi di cui non avevo mai sentito parlare. Sostanzialmente io conoscevo il rischio di osteoporosi e le vampate. Quando avevo chiesto a mia madre di descrivermele aveva risposto, agitando le mani a mimare le repentine oscillazioni verso l’alto e il basso della temperatura: “Prima caldo caldo caldo – poi freddo freddo freddo!”. Poco rassicurante. Epperò, contando sull’evoluzione generazionale, avevo sottovalutato. Finché ho iniziato a perdere massa muscolare, avvertire dolori al collo e alle spalle così forti da non poter stare davanti al computer più di tre ore, indossare con fatica le lenti a contatto (perché no, la secchezza non è solo vaginale). A quel punto ho iniziato a cercare spiegazioni. E conforto amicale. Ma proprio dalle amiche è arrivato il colpo basso. Perché non solo non mostravano alcuna sorpresa, ma aggiungevano alla lista nuovi sintomi: insonnia, crampi notturni, dolori durante i rapporti sessuali. C’erano già passate o ci stavano passando pure loro. Ma com’è che non ne avevano mai parlato? Ecco: quest’articolo, il terzo che scrivo sull’argomento, è il frutto delle riflessioni e delle indagini seguite a quel mio sbigottimento.
The (M) Factor: Shredding the Silence on Menopause (questo il titolo completo) non è il primo documentario realizzato sulla menopausa. Nel 2021 la rete britannica Channel 4 ha mandato in onda Sex, Myths and the Menopause, seguito l’anno successivo da Sex, Mind and the Menopause, entrambi di Davina McCall. L’anno scorso in Francia sono usciti Menopositive di Anne Cutaia e Menopauses di Julie Talon (che è possibile vedere sul canale Arte).
Ma negli Stati Uniti è più facile fare le cose in grande, specialmente con la sponsorizzazione di un personaggio influente come Oprah Winfrey (qui l’articolo su Oprah Daily con il trailer del doc), così The M Factor sta diventando un caso. Una delle produttrici è Tamsen Fadal (tamsenfadal.com), giornalista televisiva (a marzo 2025 uscirà, tra l’altro, il suo libro How to Menopause) che ha risposto alle mie domande via zoom da New York.
“Vogliamo che il documentario dia inizio a un movimento globale. Sta già succedendo: dal Sudafrica alla Giamaica centinaia di donne organizzano proiezioni collettive del film – di cui forniamo gratuitamente il link – seguite da dibattiti. Il nostro obiettivo è che il maggior numero di persone lo veda e riceva un’informazione corretta”, racconta. In The M Factor le voci di donne comuni che raccontano la propria esperienza si alternano a quelle di esperte che forniscono spiegazioni e sciolgono dubbi. Perché di dubbi ce ne sono ancora moltissimi. “L’argomento è stato sempre coperto da una coltre di vergogna. Sono molte le cose che non si sanno e di cui si parla a fatica: la menopausa è associata al sessismo, all’ageismo, alla paura che la fine della capacità riproduttiva segni l’inizio dell’irrilevanza sociale. Perché bisogna ‘normalizzarla’? Perché esistono donne che soffrono in silenzio, che non sanno in che modo il calo ormonale incide sulla salute di cuore, cervello e ossa, che abbandonano il lavoro o rinunciano a chiedere una promozione. È urgente cambiare la narrazione”, conclude Fadal.
Alcune delle esperte intervistate nel documentario danno, a mio parere, un contributo particolarmente efficace alla causa. Penso all’urologa Kelly Casperson quando afferma: “Quello che succede è che le ovaie smettono di produrre ormoni – e noi, semplicemente, abbiamo un’aspettativa di vita maggiore di quella delle nostre ovaie”. O ancora, a proposito della resistenza a intervenire sui sintomi in nome della “naturalità” dell’evento: “Quando i nostri occhi invecchiano ci mettiamo gli occhiali, quando le nostre orecchie smettono di funzionare utilizziamo gli apparecchi acustici… insomma nel corso della vita ripariamo diverse parti del corpo. Quando si tratta delle ovaie, invece, il messaggio è: finita qui, sorry, vivi più a lungo di loro. Perché assumiamo questo atteggiamento unicamente verso una parte del corpo?”. Volendo accennare una risposta potremmo ricordare come la ricerca medica abbia tradizionalmente ignorato le differenze di genere. D’altra parte, se secondo la Mayo Clinic (sempre citata nel documentario) la Food and Drug Administration ha approvato un numero imprecisato di rimedi farmacologici per la disfunzione erettile maschile e solo due per il calo della libido femminile, qualche dubbio sull’interferenza del patriarcato sorge spontaneo.
“Ma proprio dalle amiche è arrivato il colpo basso. Perché non solo non mostravano alcuna sorpresa, ma aggiungevano alla lista nuovi sintomi: insonnia, crampi notturni, dolori durante i rapporti sessuali”.
Lo stesso nome “menopausa” – che fa riferimento al termine del ciclo mensile – fu inventato nel 1821 da un uomo, il medico francese Charles de Gardanne. A tal proposito Jen Gunter, ginecologa statunitense con sguardo femminista e autrice di The Menopause Manifesto del 2021, afferma di preferire il termine, ormai poco usato, “climaterio”, perché contiene l’idea di un climax, un apice esistenziale. “Ed è decisamente meglio che definire buona parte della mia vita sulla base di quando ho avuto l’ultimo ciclo mestruale, non il dato più rilevante nella mia esistenza”, ha dichiarato. Poteva andarci peggio, comunque: nella lingua araba, tra i vari termini per indicarla ne esiste – o meglio esisteva – uno che si traduceva con “ètà della disperazione”. Tre anni fa, con una geniale campagna di marketing il brand Tena ha lanciato in Arabia Saudita un concorso per adottare un nome meno punitivo. Ha vinto “età del rinnovamento” che è stato anche inserito in un dizionario.
La visione obsoleta della menopausa come inizio della fine rimanda a un’identificazione della donna con la sua funzione riproduttiva, quindi con il suo utero. Ma, come scrive la francese Sophie Kune in Game is not ovaire (Marabout): “L’utero è un organo, non un essere a sé stante, così come non lo sono il cuore, lo stomaco, il polmone. Guardare alla donna attraverso il suo utero corrisponde a un periodo della conoscenza in cui il fattore psicologico non era preso in considerazione”. Per secoli, spiega ancora l’autrice, la funzione riproduttiva ha costituito una ricchezza per le donne perché la capacità di generare era l’unico potere che detenevano. Finché avevano la fertilità erano appetibili, desiderabili. Il tempo è passato, lo stigma mica tanto. E contribuisce a spiegare la reticenza ad affrontare apertamente l’argomento. Kune, che intorno alla sua pagina Instagram @menopause.stories riunisce una comunità di 34mila follower, mi spiega via zoom dalla Francia: “C’è ancora un’idea di menopausa performante. Quelle donne che si percepiscono tuttora oggetto dello sguardo maschile che le vuole giovani e seducenti, non solo tacciono su cosa accade loro in menopausa, ma fingono davanti al mondo che la questione non esista. Lo stesso approccio viene utilizzato sul lavoro, specialmente dalle donne che ricoprono ruoli apicali, dove una minima debolezza può costare la carriera. Lo racconta bene la serie tv Borgen con il personaggio di Brigitte Nyborg: quando durante le riunioni viene assalita dalle vampate esce di corsa dalla sala, si nasconde”.
La correlazione tra menopausa e lavoro è cruciale e sottovalutata. Manuela Peretti, la cui pagina Instagram @manupausa conta più di 19mila follower mi spiega che non esistono dati sul nostro Paese, ma poiché il numero delle italiane occupate e in menopausa è simile a quello delle britanniche (intorno ai 4-5 milioni), è realistico pensare che le due situazioni siano sovrapponibili. E quindi: “Un’inchiesta condotta in UK su 3mila e 500 lavoratrici ha rivelato che per il 99% di loro i sintomi hanno avuto un impatto negativo sulla carriera; il 59% si è dovuta più volte assentare dal lavoro. Il 21% ha rinunciato a una promozione, il 12% ha dato le dimissioni”, mi racconta. Il 18 ottobre, Giornata mondiale della menopausa, Peretti è stata invitata a partecipare all’evento Io non sono la mia menopausa organizzato a Montecitorio dalla deputata Martina Semenzato, firmataria di una mozione di legge per la tutela delle donne in menopausa e promotrice di un intergruppo di studio. “Le proposte che ho portato riguardano proprio i luoghi di lavoro”, spiega Peretti. “Occorre fare formazione nelle aziende affinché creino un ambiente inclusivo per le donne alle quali la menopausa crea problemi. Personalmente sono contraria ai permessi mirati, che rischiano di diventare ulteriore motivo di svalutazione e ghettizzazione delle lavoratrici. Non è di questo che abbiamo bisogno, ma di stare bene ed essere informate: le aziende potrebbero farsene carico fornendo consulenze mediche specifiche. Perché quando una donna rinuncia a una promozione o si sottrae a un incarico, è l’azienda a perdere il suo talento e la sua esperienza”.
Stando a quanto riferiscono Sophie Kune e Manuela Peretti, ciò che le loro follower lamentano maggiormente è la difficoltà di trovare medici – ginecologi inclusi – con una preparazione specifica. Il fatto che vengano inondate di messaggi è la prova che esiste un enorme bisogno di ricevere informazioni e condividere esperienze. Va detto, naturalmente, che non tutte affrontano la menopausa con difficoltà. Alcune fortunate avvertono nessuno o pochissimi sintomi. Sulle percentuali, però, mi sembra che non si possa fare troppo affidamento: se le statunitensi di The M Factor sostengono che un qualche tipo di malessere compaia nell’85% dei casi, secondo la femminista catalana Anna Freixas il 65% delle donne non sperimenta nemmeno una vampata.
“La visione obsoleta della menopausa come inizio della fine rimanda a un’identificazione della donna con la sua funzione riproduttiva, quindi con il suo utero”.
Freixas ha da poco mandato in stampa Nuestra Menopausia (Capitàn Swing), edizione aggiornata di un testo uscito nel 2007. La sua, rispetto alle altre che ho ascoltato per scrivere questo articolo, è una voce in (parziale) dissonanza. Perché se l’opinione predominante è che le donne debbano ricevere tutto l’aiuto medico possibile – terapie ormonali incluse, laddove non ci siano controindicazioni – per far fronte a un momento fisicamente ed emotivamente complesso, esercitando il proprio diritto al benessere, Freixas denuncia un’eccessiva medicalizzazione della menopausa, pilotata dalle case farmaceutiche, che porta le donne a percepirla e temerla come una malattia e ad assumere ormoni pericolosi per la salute. Gli stessi argomenti, mi fa presente, che compaiono in una serie di articoli pubblicati in marzo sulla rivista scientifica The Lancet. Una digressione sulle differenti opinioni esistenti all’interno della comunità scientifica sulla Terapia Ormonale Sostitutiva (Tos) risulterebbe lunga e complessa, quindi la evito. Dirò solo che le ginecologhe intervistate in The M Factor ritengono che in un soggetto sano i benefici superino i rischi, mentre Freixas, citando ancora The Lancet, si concentra sull’esistenza di un nesso tra la Tos e il cancro al seno (nesso su cui la comunità scientifica non è concorde).
In collegamento da Barcellona, la psicologa ed ex docente universitaria mi chiarisce il suo pensiero: “La menopausa è un fatto tanto fisico quanto psichico e sociale. Avviene in un momento della vita in cui ci sono molte questioni aperte: la tenuta o meno di una coppia di lungo corso, l’abbandono del nido da parte dei figli, l’accudimento dei genitori anziani, l’avvicinarsi della pensione. Tutti fattori che andrebbero presi in considerazione per comprendere eventuali difficoltà esistenziali, prima di attribuirne la responsabilità alla menopausa e proporre terapie farmacologiche”. Secondo Freixas la via giusta passa dal concedere al corpo il tempo di abituarsi a funzionare con un livello inferiore di ormoni e dall’approfittare di questo momento di transizione per guardarsi dentro, conoscersi. “L’invecchiamento scatena un vero e proprio panico da esclusione sociale: è tra le donne che più aderiscono al modello etero-patriarcale di femminilità, al mito della bellezza e della giovinezza che i segni – non li chiamo mai sintomi, perché non parliamo di una malattia – si fanno sentire più forti. Bisogna cambiare la narrazione sottolineando non solo che si tratta di una fase naturale dell’esistenza, ma che può addirittura essere la migliore, come mi confessano molte donne mayores con cui parlo. Non l’inizio della fine, ma il principio di un periodo di grande potenza e libertà”.
Pur continuando ad avere l’impressione che Freixas tenda a sminuire l’impatto sul corpo e che la sua opposizione a ogni terapia a base di ormoni sia troppo radicale, trovo invece convincente l’ultima parte del suo discorso. Mi pare si connetta con quello di Sophie Kune quando, nel suo libro, utilizza la parola apaisement. Poiché significa pacificazione, all’inizio ha suscitato in me una certa diffidenza. Mi pareva un invito a mettermi tranquilla, della serie: “Hai fatto il tuo tempo”. Lei smentisce: “Assolutamente no. Significa che puoi guardarti indietro, tra l’altro finalmente libera dal ciclo e dagli sbalzi ormonali mensili, valutare il cammino che hai compiuto finora e acquisire consapevolezza della tua piena potenza: oggi sei te stessa al tuo apice”.
Secondo Manuela Peretti, per arrivare a sostituire la vecchia concezione di menopausa con una più empowering, occorrono modelli femminili a cui guardare. Le ricordo che tra le star – hollywoodiane e nostrane – c’è una gara ad associare il proprio nome a un re-branding della menopausa. “Ma Jennifer Lopez e Drew Barrymore sono troppo lontane da noi. Abbiamo bisogno di colleghe, politiche, amiche che condividano il loro percorso di transizione. Ognuna di noi può dare il suo contributo allo smantellamento del tabù e abbiamo il dovere di farlo per chi verrà dopo”. Concludo con le parole di Sophie Kune: “Oggi possiamo scegliere di uscire dal silenzio, di essere soggetti delle nostre esistenze e non più oggetti dello sguardo patriarcale. Se non lo facciamo, la responsabilità è solo nostra”.
L’idea che si potesse organizzare una proiezione di “The (M) Factor: Shredding the Silence on Menopause in Italia” ha entusiasmato sia me sia Manuela Peretti, dunque ci siamo subito messe all’opera.
La proiezione avrà luogo a Milano, alla Cascina Nascosta domenica 19 gennaio 2025 alle ore 17.
La proiezione sarà seguita da un dibattito cui parteciperanno la stessa Manuela Peretti, la ginecologa Stefania Piloni, l’antropologa Cristina Cassese e la psicoterapeuta Laura Turuani.
Gabriella Grasso
Gabriella Grasso è giornalista e traduttrice. Scrive soprattutto di libri, tematiche femminili e interculturali.
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