Irene Graziosi
13 Novembre 2024
Chi scrive è abituato a muoversi lungo i bordi delle cose: quelli del desiderio, dell’amore, del senso di giustizia. Elif Batuman sta cercando, attraverso la sua letteratura e quella degli autori che ama, un suo equilibrio. Ed è determinata a non arrendersi di fronte alla realtà.
Incontro Elif Batuman in un pomeriggio di fine giugno a Roma. Lei e la sua fidanzata Lindsay alloggiano all’American Academy, che ha sede in una villa imponente circondata da giardini verdissimi sulla cima del Gianicolo. Accanto, altre ville. Per strada, nessuno. Batuman per messaggio mi ha avvisata che se mi va di partecipare c’è anche un barbeque di compleanno organizzato dagli altri borsisti. È molto alta, ma già lo sapevo. Ci eravamo conosciute a maggio al Salone del Libro di Torino, dove era venuta per ascoltare e parlare con Sayaka Murata, scrittrice giapponese edita in Italia da edizioni e/o. Batuman dovrebbe scrivere di lei sul «New Yorker». Ha la postura e le movenze goffe di chi nella vita ha sempre tentato di farsi più piccola di quanto non sia, forse per assecondare una naturale timidezza. Non riesce completamente nel suo intento però, perché il suo lungo collo la tradisce: sempre proteso verso l’esterno, come quello di un uccello d’acqua, perché la sua proprietaria possa osservare e ascoltare ciò che desidera del mondo.
La tavola è imbandita di resti di frutta, carne alla griglia, brandelli di pane, e bevande dai colori sgargianti di cui non si capisce la natura. Non tutti gli ospiti sono americani, ma tutti parlano inglese sforzandosi di non far sentire l’accento, forse per dare l’impressione di non sfigurare di fronte all’opulenza americanissima della villa, alla magniloquenza delle fontane. Adulti e bambini si industriano per appendere una pignatta a forma di scrofa. L’hanno costruita loro, con le mammelle e tutto il resto. Alcuni moscerini svolazzano sugli avanzi di cibo mentre a turno, genitori e figli, prendono a bastonate la scrofa di cartapesta lanciando grida eccitate. Un uomo con un cappello buffo suona il flauto traverso per accompagnare i partecipanti entusiasti. A ogni mazzata, l’ombra della maialina dondola impotente sul selciato sotto il sole impietoso di inizio estate.
Quest’anno è uscito in Italia per Einaudi Aut Aut, proseguio del college novel L’Idiota, dove ci si affeziona alla protagonista Selin – un alter ego di Batuman – alle prese con la vita, i libri, l’amore. Sempre Einaudi aveva pubblicato nel 2012 I posseduti, saggio autobiografico in cui la scrittrice esplora la propria passione per la letteratura russa, ma soprattutto per gli autori che l’hanno resa possibile. È curioso in effetti come I posseduti si tenga lontano dall’analisi dei testi, per concentrarsi invece sulle avventure e disavventure di chi li ha scritti. Questo interesse per le persone permea tutta la produzione di Batuman, che a volte sembra amare più gli scrittori delle loro opere. Lei stessa spiega più volte, come se fosse la cosa più naturale del mondo, che lei la letteratura l’ha sempre usata per imparare a vivere. Le chiedo come mai, o meglio, come mai proprio la letteratura e non le persone che le erano accanto, e ancora, come mai pensasse e pensi ancora che esista un modo più giusto di vivere rispetto a un altro.
“Questa è una domanda molto interessante”, dice, “di cui stavo discutendo con una studentessa che mi raccontava dei suoi modelli, che prima erano le insegnanti, poi il nonno, e ho pensato che io non ho mai sperimentato niente del genere. Ci sono state persone che ho ammirato – come ad esempio un’amica sfrontata rispetto a me che ero timida – ma non volevo essere come loro. E allo stesso tempo venivo da una famiglia niente affatto religiosa, e mi trovavo a fare i conti con il patriottismo americano, con cui non avevo nulla a che spartire; del resto non condividevo niente neanche con quello turco… e così se riguardo indietro alla mia infanzia noto un’assenza di ideologie. Inoltre mi pareva che le persone parlassero di cose non importanti, o meglio, non sapevano dire perché le cose di cui parlavano fossero interessanti. Insomma, non si capiva perché certe cose fossero così rilevanti, né se ne parlava in un modo che le rendesse tali. Le uniche persone che cercavano davvero di ascoltare ciò che le persone dicevano, di connetterle, di ordinarle in una struttura bellissima, divertente, tenera risiedevano nella letteratura, ed erano scrittori”.
Aut aut, prima ancora del romanzo di Batuman, è il titolo di un’opera di Kierkegaard divisa di due parti: in una, viene esplorata la possibilità di una vita dedicata all’edonismo, alla frivolezza, alla seduzione, che infine sfocia nell’angoscia esistenziale. La seconda invece si concentra sulla vita etica. La protagonista del romanzo di Batuman, Selin, si trova a leggere l’opera di Kierkegaard e a optare per una vita estetica. È così che, rispetto all’Idiota, in cui di fatto Selin è sospinta unicamente dal suo amore virtuale per lo sfuggente Ivan, le cose in Aut Aut si fanno più interessanti: Selin perderà la verginità, partirà per la Turchia, intesserà una relazione sessuale con un ragazzo turco, tenterà di dare un nome all’assenza lasciata da Ivan. Ma non è solo questo a rendere Aut Aut più sofisticato dell’Idiota. Quest’ultimo Batuman lo ha scritto da molto giovane, quando frequentava Harvard nei primi 2000, riassemblandolo e rivedendolo più avanti, mentre Aut Aut si appoggia unicamente sulla memoria. Sarà per questo che leggendolo si ha la percezione che ci sia un’autrice nascosta tra le pagine che ne sa più del personaggio e che in qualche modo ne tradisce le certezze, seppur con delicatezza, cosa che invece non accadeva nel primo libro, in cui c’era una quasi totale sovrapposizione tra personaggio e autrice.
“È cambiato tutto tra L’Idiota e Aut Aut”, dichiara Batuman. “Credo che in qualche modo questo mutamente sia dovuto anche al periodo del tour, che è avvenuto in un momento assurdo: stavo compiendo 40 anni, mi ero da poco messa con Lindsay dopo una vita da eterosessuale, Trump stava andando al potere, la Turchia era in tumulto, c’era stata la Brexit e infine il Metoo. I media americani erano impazziti, volevano tutti parlare di politica o del perché il mio libro non era politico. E non lo era, non parlavo di politica o di genere perché quando ero una studentessa ad Harvard non se ne parlava così tanto. Oltretutto anche in Italia c’era Matteo Salvini quando sono venuta a presentarlo, quindi in ogni parte del mondo mi chiedevano la stessa cosa. Così mi tormentavo di non essere abbastanza impegnata e allora mi ero detta che Aut Aut avrebbe dovuto essere diviso in due parti: la prima sarebbe stata una college novel; la seconda… Beh avevo letto della compulsory heterosexuality [l’eterosessualità obbligatoria, così come teorizzata da Adrienne Rich, n.d.a.], del romanticismo usato come arma per depotenziare le donne nel momento in cui le coercizioni non erano più esterne ma interne, e ho pensato Ecco, deve essere questo ciò che mi è successo, ma quando mi è successo? E quindi la seconda parte sarebbe dovuta essere un saggio in cui io, da quarantenne intelligente, spiegavo tutte queste cose e giustificavo l’ingenuità della ragazzina poco impegnata. Grazie a Dio la mia editor mi ha detto ‘ti prego smettila subito’. Però il problema in qualche misura rimaneva: come fare a far intuire tutti questi pensieri che ho, questa conoscenza che ho ora, al lettore? Mi sono risposta allora che Selin avrebbe dovuto essere guardata dal lettore o lettrice con la consapevolezza che abbiamo oggi, mostrando cioè che certe dinamiche, certi sentimenti, esistono anche quando non abbiamo il vocabolario per esprimerli. E così la domanda è diventata: come fare a ricreare l’atmosfera, l’ambiente, in cui emerge la compulsory heterosexuality, la rape culture, senza usare quelle parole, facendo sì che sia il lettore a colmare quei vuoti?”
Lo sguardo di Selin, seppur cieco alle intuizioni dell’autrice sull’humus culturale e sociale che ha abitato, è invece più attento quando si tratta di evidenziare alcune ingiustizie, soprattutto di natura economica, palesi nel campus – ad esempio la retta praticamente inesistente per gli studenti stranieri, pure quando principi o figli di sceicchi. C’è un momento particolarmente riuscito in cui Selin descrive la sua insofferenza per coloro che usano la Storia e il passato per sostenere che le cose, le società, le persone, andranno come devono andare, senza che si possa davvero fare molto per cambiare il corso degli eventi. In questo senso per Batuman un universo diverso, migliore, più giusto, è sempre possibile, quanto meno nell’immaginazione.
Le racconto che c’è una cosa che mi è successa leggendo Simone Weil, e che a onor del vero mi succede sempre con lei. Si trattava di un libretto intitolato La persona e il sacro in cui Weil a un certo punto si scagliava contro il diritto romano. Ma come il diritto romano? Una delle più grandi rivoluzioni nell’ambito civile, giuridico, politico. Non per Simone Weil. Per lei i romani, rispetto ai greci, erano dei volgari politicanti. Lo stesso termine “diritto”, assente nella Grecia Antica, secondo lei implicava l’esistenza di un mondo sommerso fatto di avidità, proprietà privata, istinti belligeranti. Come se la parola “diritto” fosse una sorta di lasciapassare per non essere migliori, per non puntare al cielo, per rimanere sulla terra a trafficare con le leggi e la nostra mediocrità. Ho dovuto rileggere quelle righe più volte. Non perché non le avessi capite, ma perché ogni volta che le leggevo avvertivo la stessa sensazione, quella di avere, al posto della corteccia cerebrale, un rivestimento di orrido linoleum che grazie alle parole estreme di Weil si scollava dalla mia materia grigia, facendola, per un attimo, respirare. Il linoleum era il diritto. Il linoleum è tutto quello che accettiamo nella vita per come è senza provare a cambiarlo, finché il nostro pensiero sarà completamente avvoltolato in un pavimento adesivo da quattro soldi.
“Simone Weil confonde molto anche me”, asserisce pensierosa. “Quando la leggo mi sento in colpa, come succede a De Beauvoir quando dice a Weil che il vero problema del popolo cinese è che ha bisogno di trovare un nuovo senso dell’esistenza, e Weil le risponde, disprezzandola, che la pensa così solo perché non è mai stata affamata. A volte la comodità mi pare una condanna. E poi però quando penso che alla fine Weil è andata a lavorare in fabbrica ed è morta giovane mi chiedo se ne sia valsa la pena. Alla fine la sua è la parabola della santa, no? Ad ogni modo io faccio fatica a non credere che tutto sia, potenzialmente, possibile. Voglio dire, sono esistite civiltà non violente, che certo, sono state polverizzate da quelle violente, ma sono esistite”.
Qualche volta le è capitato di discutere con persone che votavano Trump, e quando chiedeva loro perché accettassero tutta una serie di ingiustizie senza credere di poterle cambiare, queste le rispondevano che bastava guardare la Storia: sono mai davvero state contrastate le ingiustizie?
“Mi fa impazzire questa arrendevolezza, questa rassegnazione”, dice. “In generale penso di essere sensibile alle ingiustizie perché mi sento troppo fortunata. Mia madre mi racconta questa storia di quando era piccola: in Turchia la sua famiglia era benestante: organizzavano feste, sapevano dove acquistare cibo di qualità, anche le pesche, che gli venivano consegnate a casa da alcuni ragazzini. Un giorno le capitò sotto mano una statistica che diceva che in media in Turchia in quel periodo si mangiava una pesca a testa, mentre lei ne mangiava un centinaio in estate, e questi ragazzini che le consegnavano probabilmente non ne mangiavano nessuna. Credo mia madre fosse ancora bambina quando realizzò questa cosa, e mi chiedo ancora oggi come avesse fatto ad arrivarci già allora. Quando mi domando ‘ma perché ho avuto così tanto dalla vita? E perché proprio io?’, credo di aver ereditato il suo senso di colpa”.
L’idiota, mi spiega Batuman, ha venduto parecchio, molto più di quanto non si aspettasse, perché è finito nel trend, molto in voga su TikTok, dei “sad girl book”, (di cui fanno parte anche aluni dei romanzi di Ottessa Moshfegh, Emma Cline, Sally Rooney). Le chiedo se secondo lei questo significa che molte ragazze si sono identificate con Selin, e se si aspettava questa immedesimazione. Il discorso però scivola quasi subito in acque più profonde. Cosa significa identificarsi in un personaggio? In fondo, anche nelle opere di Kafka ci si immedesima: c’è un uomo che deve portare un messaggio all’imperatore, e quell’uomo è tutti gli uomini, tutti gli esseri umani che hanno un compito da portare a termine. Eppure oggi con il termine “immedesimazione” intendiamo qualcos’altro. Se nel romanzo europeo, secondo Kundera, il protagonista (o la protagonista) è un simbolo che sta per “l’uomo” e quindi per l’umanità tutta, nel romanzo contemporaneo questo livello di astrazione è venuto a cadere a favore di un’identificazione più intima, personale. Le chiedo se anche lei percepisce questo tipo di differenza, e come se lo spiega.
“Capisco ciò che dici… Devo dire che nel mio caso, cioè nel caso di Selin e dell’Idiota, io sono partita da basi completamente differenti. Da bambina, per dirti, ero convinta di essere completamente diversa da tutti gli altri. Sentivo che nessuno avrebbe potuto capire davvero cosa significava andare a scuola, che ci fosse una sorta di incomunicabilità ontologica. Tra l’altro avevo anche il problema delle lingue, cioè del turco e dell’inglese, e spesso le cose che dicevo in una lingua non erano perfettamente coincidenti con ciò che dicevo nell’altra, e quindi credo davvero che parte della mia personalità si sia formata sulla convinzione di non poter essere capita. Poi con la pubblicazione dell’Idiota, quando ho visto quanta gente, soprattutto ragazze, si era immedesimata in Selin, mi sono chiesta se gli esseri umani non siano poi molto più simili tra loro di quanto io non pensassi. E allora ho riflettuto anche sulle mie letture: per esempio, quando Isaak Babel parla di un uomo emarginato a Odessa, forse tutti noi possiamo essere quell’uomo emarginato a Odessa. E mi chiedo quanto questa impressione che descriviamo, di una scrittura simbolico/universale e di una più individuale non sia anche negli occhi di chi legge più che nell’opera in sé. Ad ogni modo è una domanda bellissima, mi ricorda le domande che si pongono Selin e Svetlana quando si chiedono in quali classici compaiono più oggetti e di che tipo: Tolstoi le descrive, in Nabokov c’è sempre un qualche oggettino elegante, Dostoevskij invece ha un tavolo e un bicchiere d’acqua”.
Svetlana è sì un personaggio dell’Idiota, ma anche una persona vera. È stata la migliore amica di Selin (e di Elif) durante il college, ed è un personaggio strano. Nel senso che si percepisce che il suo peso nella vita emotiva di Batuman e il suo doppio letterario è maggiore di quanto non venga dato a vedere. In più momenti, soprattutto in Aut Aut, Svetlana liquida Selin sminuendo ciò che l’amica prova; o ancora, smette di mangiare e comincia a controllare le calorie che assume, un tipo di comportamento che ha un effetto sulle amiche, e che pure non viene approfondito. Mi chiedo come mai, lo chiedo a Batuman.
“Tocchi un tema che è stato motivo di molti dubbi. Inizialmente credevo che la trama principale dell’Idiota riguardasse Ivan e l’innamoramento di Selin. Svetlana invece era una sorta di sottotrama. Poi mi sono resa conto che Svetlana era molto più importante di Ivan, e mi sono detta ‘allora deve diventare lei la trama principale’. Ma poi ho pensato ancora a ciò che scrive Adrienne Rich su quanto la cultura patriarcale distolga l’attenzione delle ragazze per le altre ragazze per reindirizzarla verso gli uomini – e non parla neanche di relazioni romantiche, ma proprio di un ridirezionamento dell’energia – e questa cosa è stata così vera per me… E l’amicizia con Svetlana è un’amicizia che ne ricalca una vera, che è finita così, d’improvviso, in un modo violento quasi, anche se ai tempi non mi resi conto di questa cosa. E così mi ero detta che in Aut Aut avrei descritto la fine di questo rapporto, ma poi, parlando con la vera Svetlana, ho percepito che questo per lei avrebbe rappresentato una sorta di tradimento. Ferrante raccontava che le sarebbe piaciuto dire che era stata Lila a scrivere il libro, perché comunque era una hacker, e anche io ho avuto questo desiderio di co-scrittura con Svetlana, e gliel’ho anche chiesto, le ho chiesto se avesse voluto scrivere qualcosa con me, ma lei ha detto di no”.
Una cosa curiosa, già emersa in questa chiacchierata, ma che Batuman ripete spesso, è che per lei è impossibile conoscere se stessa e mettere ordine nel caos che regna dentro di lei: come ci si può aspettare, dunque, di poter capire dei personaggi?
Questo però deve essere uno scrupolo piuttosto comune al giorno d’oggi, quando molti dei romanzi che escono e di cui si parla di più sono opere di autofiction o memoir. Sempre Kundera, tra le sue riflessioni sul romanzo, asseriva che quest’ultimo riflettesse l’ipotesi ontologica dell’autore sul mondo e sull’uomo che agiva in quel contesto. Dal mondo libero (sebbene illusorio) di Don Quichotte, si passa via via a un mondo più chiuso, fino al Novecento, in cui l’uomo diventa vittima della Storia. Oggi sembra che il campo si sia ristretto ulteriormente. Non si può più tracciare un’ipotesi di mondo collettivo o immaginare un personaggio che abbracci l’intera umanità, ma solo qualcuno di così simile a sé da confondere le acque tra realtà e finzione.
“Di recente ho riletto la biografia di Kafka scritta da Max Brod, e sai che al tempo c’era questo tema del: ‘ah, se solo non avessi un lavoro d’ufficio potrei scrivere’, e Kafka dice: ‘Se solo potessi smettere di lavorare per la compagnia d’assicurazioni potrei finalmente scrivere la mia autobiografia!’ [Ride]. Non è assurdo? Difficile associare Kafka alla scrittura autobiografica. Una volta, tantissimi anni fa, ebbi questo scambio con Jonathan Franzen, durante il quale io gli stavo illustrando le mie difficoltà nel costruire dei personaggi, e lui mi disse: ‘Ma non sei grata del fatto che Kafka abbia scritto Le metamorfosi, libro dove il protagonista Gregor Samsa si trasforma in uno scarafaggio, invece di parlare in prima persona della sua famiglia disfunzionale?’ Ecco, io ho sentimenti contrastanti in proposito. A me sembra che Kafka stia raccontando di sé molto di più di quanto tante persone non credano. Poi certo, non è quello che sta accadendo ora. Ora credo che almeno negli Stati Uniti questo trend dell’autofiction – fermo restando che Proust diceva che dovendo scegliere un nome per il suo protagonista della Recherche avrebbe scelto Marcel, quindi diciamo che non è una cosa mai vista prima – derivi tanto dalla wokeness, dal check your priviledge e la relativa consapevolezza che ciascuno proviene dalla propria esperienza personale e che c’è un valore politico nell’esperienza di ognuno, quindi dall’idea secondo la quale ci si doveva astrarre da se stessi per trarre una storia universale dalla propria esperienza, è invalsa la retorica del ‘chiunque ha una storia unica da raccontare’”.
Nell’introduzione ai Posseduti compare la madre di Batuman – che a dire il vero è presente anche nei successivi lavori della scrittrice. Batuman racconta di come la madre, quando lei era piccola, le chiedesse in continuazione cosa volessero dire le cose “in realtà”. Cosa volesse dire Anna Karenina in realtà, cosa volesse dire questo o quel film. In generale sembra una donna certa che sotto la verità apparente ve ne sia un’altra, nascosta, ma soprattutto vera. Mi chiedo, e le chiedo, se questo mettere in discussione ciò che si ha di fronte da parte di un genitore non contribuisca a sviluppare uno sguardo acuminato nel figlio o nella figlia, se non sia questa la cosa che è successa anche a lei.
“Guarda, assolutamente sì, e credo che questa cosa abbia molto a che fare con la religione. Mi spiego: pur essendo laica, sono sempre stata attratta e ho sempre finito per diventare intima di persone religiose e spirituali, e quando ho pubblicato I posseduti mi è stato detto che avevo scritto un libro religioso. Lì per lì questa cosa mi ha stupita, ma poi pensandoci credo sia vera. Mi pare ci sia una sorta di imprinting religioso derivante dal fatto che sia io sia mia madre abbiamo perso quella dimensione che però si insinua in ogni caso, trapassa il nostro sguardo, e ci suggerisce che ci sia sempre un senso o una verità nascosti dietro le apparenze ”.
Il cuore della ricerca di Elif Batuman, quello che pulsa attraverso le pagine di tutti i suoi scritti, è l’amore. O meglio, il conflitto tra ciò che ci è stato raccontato fosse amore e cosa poi effettivamente l’amore è. Come se fosse una detective a cui un sospettato ha mentito sulla natura dell’innamoramento, e che ora deve andare a caccia della verità. È un tema, questo, che si intravede già nei Posseduti, quando Batuman si interroga sulla illogicità del suo amore per i russi, che già aveva sperimentato da ragazzina con un eccentrico maestro di musica russo, e che resiste e si intensifica nel corso degli anni fino a spingerla a studiare la letteratura russa per ben sette anni. È la stessa domanda che si pone Selin in Aut Aut, quando va in Turchia e i turchi le chiedono perché mai, essendo lei turca e con buone scuole americane alle spalle, invece di studiare la letteratura turca abbia scelto una lingua, un popolo, una nazione non sua. Pare quasi un affronto, un tradimento inflitto alla sua famiglia, alla sua storia, forse anche a quel senso di ingiustizia ereditato dalla madre. E così forse si spiega la curiosa scelta di scrivere con così tanta passione degli scrittori russi, degli uomini più che delle loro opere: in fondo, pare dire Batuman, nella vita ci si innamora delle persone prima ancora che delle cose. E l’amore, pensa invece Selin, non è qualcosa che si sceglie.
Eppure, una scelta viene indicata a noi tutti fin da quando esaliamo il primo respiro. La scelta della monogamia, la scelta di abitare in un mondo in cui si dà per scontato un corteggiamento maschile violento, brutale, in cui è difficile per le persone mettere in discussione ciò che dovrebbe piacere a favore di ciò che davvero piace. E così si spiegano tutti i discorsi di Batuman sull’eterosessualità obbligata così come teorizzata da Reich, ma si spiega anche il suo interesse per Sayaka Murata, che nel suo racconto Troppie, descrive un bacio tra tre ragazzi che aderiscono al nuovo modo di stare assieme e di fare l’amore, completamente diverso da quello tradizionale. Ma più di tutto questo, è il suo profilo della regista Céline Sciamma a rivelare quanto Batuman sia alla ricerca della libertà quando si tratta di amore. La regista francese, bravissima, ha diretto e sceneggiato molti film, tra cui Portrait de la jeune fille en feu. Siamo alla fine del XVIII secolo, in Francia. Marianne è una pittrice a cui viene dato il compito di dipingere il ritratto di Héloïse, giovane promessa sposa a un uomo che non ama. Le due si innamorano a dispetto di ogni convenzione, scoprendo dunque una forma di amore mai codificata prima. È forse grazie a questa nuova energia che le due trascendono anche i confini della classe del ceto, stringendo amicizia con Sophie, che vuole abortire. In una delle scene clou del film, le tre donne si trovano a una festa di sole femmine che cantano e che sembrano libere davvero. Non è difficile capire come mai il film abbia colpito così tanto Batuman, che ha dedicato molto tempo della sua vita a studiare la donna che l’aveva immaginato, come se così facendo potesse carpire il segreto di come immaginarsi l’amore lontano da ciò che di esso conosciamo.
“È che io ho un rapporto particolare con il desiderio. Mi rendo conto che tante persone che sono gay da quando sono piccole hanno provato in tutti i modi a non esserlo senza riuscirci. Cioè il loro desiderio era imprescindibile, potentissimo. Per me invece è stato diverso. Certo, ricordo alcune cose, come quando da ragazzina qualcuno diceva che questo o quel ragazzo erano bellissimi oppure molto brutti, e io li guardavo e mi chiedevo: ‘come fanno a sapere se sono belli o brutti?’ Mia madre vedeva Tom Cruise e lo definiva attraente, e io proprio non capivo, e magari indicavo qualcuno e chiedevo se quel qualcuno fosse bello e tutti mi prendevano in giro. Poi a un certo punto ho imparato, ho capito che c’era un canone e cosa quel canone includeva. E a quel punto non penso che i miei sentimenti riguardo gli uomini e il loro carisma fossero posticci, ma che fossero costruiti socialmente sì. Ed è stato bellissimo con Lindsay, perché era tutto nuovo. Sai, quando sei in una relazione eterosessuale c’è un copione… Perfino quando non ti piace davvero l’altra persona viene molto facile recitare il tuo ruolo, perché in fondo vieni trascinata dal desiderio altrui. E questo ho provato a mostrarlo in Aut Aut, quando Selin manifesta il proprio desiderio e le dicono ‘Per carità smettila subito’ [ride].
Sai, poi comunque anche le relazioni omosessuali possono ricalcare in parte i ruoli di quelle eterosessuali, evidenziando per esempio come origine del desiderio uno squilibrio di potere. E la cosa che mi ha colpita di Sciammà è che lei mi ha detto che una relazione può essere eccitante anche se manca questo squilibrio. E astrattamente lo capisco, ma nella realtà invece faccio fatica, perché siamo talmente abituati a desiderare ciò che sappiamo che esiste, che abbiamo visto, che diventa impossibile desiderare qualcosa che non c’è”.
A qualche giorno dal nostro incontro, Batuman mi invierà una piccola sceneggiatura che raccoglie e amplia alcuni di questi ragionamenti, arrivando a toccare Auerbach, Freud e Proust. Ma l’attenzione si sofferma soprattutto su Dante, – il Dante-autore, che è colui che la Commedia l’ha scritta, e il Dante-personaggio, che è un Dante passato, che deve ancora percorrere la strada che lo condurrà a diventare autore. Il Dante-personaggio inizia a scrivere la Commedia nel momento di massima umiliazione, quando è costretto a rivedere la sua vita, la sua carriera, le sue credenze. E così non stupisce poi tanto che il “cuor gentile” di Francesca sia una citazione di un poema d’amore scritto da Dante stesso anni prima, suggerendo di fatto che ponendo Francesca all’Inferno, fatto che impressiona molto il Dante-personaggio, il Dante-autore stia rifiutando le sue concezioni passate dell’amore.
Forse tutti gli scrittori non fanno altro che correggere l’illusione del passato, in nome di quella nuova che stanno ricamando nel presente, riflette Batuman.
Quando ci separiamo, Batuman mi guarda un attimo e mi chiede: “anche tu hai trovato inquietante la faccenda della pignatta?”
Irene Graziosi
Irene Graziosi è autrice, scrittrice e vicedirettrice di Lucy. Il suo ultimo romanzo è Il profilo dell’altra (Edizioni E/O, 2022).
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