Di Cpr si muore - Lucy
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Luigi Mastrodonato

Di Cpr si muore

23 Dicembre 2024

I Cpr (Centri di permanenza per i rimpatri) versano in condizioni pietose e chi vi è recluso vive in condizioni indegne di un Paese civile, tra sporcizia, suicidi e violenze di ogni tipo. Le istituzioni fanno finta di nulla, ma qualcosa deve cambiare.

A inizio dicembre la cooperativa Sanitalia, medical partner della squadra di calcio del Torino, ha vinto la gara d’appalto al ribasso per gestire il Centro di permanenza per il rimpatrio “Brunelleschi” del capoluogo piemontese. I Cpr sono strutture di detenzione amministrativa dove vengono rinchiusi i cittadini non comunitari privi di regolare documento di soggiorno o già colpiti da un provvedimento di espulsione. In Italia al momento sono operativi nove centri e le persone possono rimanerci recluse fino a 18 mesi, un limite ampliato nel 2023 dal governo Meloni.

Il Brunelleschi non è un centro qualunque. Qui nel 2008 è morto Hassan Nejl, recluso da una decina di giorni. Stava male, i compagni hanno chiamato per tutta la notte i soccorsi ma non è arrivato nessuno. Nel 2019 la stessa fine è toccata a Faisal Hossein. Era stato trasferito all’Ospedaletto, il reparto d’isolamento della struttura, dopo la denuncia di una violenza sessuale subita. Stava male ma non è stato sorvegliato adeguatamente e quando la situazione è precipitata con un arresto cardiaco nessuno ha fatto in tempo a salvarlo. Nel 2021 nel Cpr di Torino si è poi suicidato Moussa Balde. 23 anni, aveva subito un pestaggio da persone italiane a Ventimiglia. Trovato senza documenti, non aveva ricevuto alcun supporto psicologico e anzi, era stato portato nel Cpr di Torino. Anche lui si trovava in isolamento all’Ospedaletto, ufficialmente per una psoriasi. Nel 2025 la direttrice della società che gestiva la struttura e il responsabile medico saranno processati per omicidio colposo.

La strage del Brunelleschi e le condizioni terribili di detenzione hanno portato a un’esplosione di rabbia a inizio 2023. Le rivolte si sono concluse col danneggiamento dei locali, la chiusura del centro e il trasferimento dei reclusi in altre strutture. Pochi mesi dopo Monica Cristina Gallo, garante dei diritti dei detenuti di Torino, ha definito il centro “il simbolo del fallimento dei Cpr”, auspicando una chiusura definitiva. Ora però, con la vittoria della gara d’appalto di Sanitalia, il Brunelleschi è pronto a riaprire. L’era dei “lager di Stato”, così vengono chiamati a ragione i Cpr italiani, non è finita.

Il modo migliore per raccontare la drammaticità della riapertura imminente del Cpr di Torino sarebbe quello di entrarci. Di raccontare questo, come altri,  universo parallelo alla democrazia esercitando il diritto di cronaca e cercando di accendere  nel modo più abbagliante possibile i riflettori sul tema. La legge italiana prevede esplicitamente la possibilità di ingresso per i giornalisti nelle strutture. Mi occupo di carceri, privazione della libertà personale e abusi di potere da tanti anni e in tanti anni ogni mia richiesta di accesso in un Cpr non ha ricevuto risposta, è stata rifiutata o è stata accettata per poi essere rigettata il giorno precedente alla visita. Una prassi comune a tanti colleghi e tante colleghe, un gioco dell’oca di passaggi burocratici che hanno quasi sempre lo stesso esito.

Lo stato italiano fa di tutto perché quello che avviene nei Cpr resti nei Cpr. Non è un caso.  Riporterò allora qui le voci che ho raccolto di chi si trova recluso nei centri e le denunce sulle condizioni di detenzione dei pochi che sono riusciti a fare ispezioni.

“C’è questo ragazzo, lo hanno portato via dopo averlo riempito di botte, non riesce neanche ad alzarsi dal letto. Gli hanno messo un pannolino perché non riesce ad andare in bagno e ho chiesto come farà a cambiarselo, visto che non si muove. Mi hanno detto che non lo sanno, di lasciarlo così”.

Audio da un Cpr italiano

Il 13 dicembre il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti ha pubblicato il rapporto sulla sua visita condotta in quattro Centri di permanenza per i rimpatri italiani – Milano, Gradisca d’Isonzo, Potenza e Roma. Il ritratto che ne emerge è terribile, tanto più se si pensa al peso istituzionale dell’organismo da cui arriva, che fa parte del Consiglio d’Europa.

Nel rapporto si parla di maltrattamenti fisici e di un uso eccessivo della forza da parte del personale di polizia nei confronti dei cittadini stranieri trattenuti. Viene criticata la diffusa somministrazione di medicinali psicotropi diluiti in acqua senza prescrizione medica e il fatto che i cittadini stranieri, durante i trasferimenti da una struttura all’altra, restano ammanettati per ore, senza cibo e acqua. Si denunciano la scarsa qualità del cibo fornito alle persone trattenute e la mancanza di scorte di articoli da toilette. Gli ispettori internazionali sottolineano che i reclusi sono come parcheggiati nei centri, senza che venga loro offerto alcun tipo di attività e nonostante le specifiche del capitolato d’appalto lo prevedano.

Questi e altri elementi presi insieme spiegano l’alto livello di eventi critici – rivolte, episodi di autolesionismo, suicidi, morti sospette – che si sono verificati all’interno dei Centri di permanenza per il rimpatrio, scrive il Comitato europeo.

“Prima mi hanno chiamato che mi volevano dare delle gocce. Mi hanno detto che è… come si chiama… ruvitril.. ritrovil… qualcosa di simile. Ma mi puoi dire cos’è questa roba? Io non l’ho mai presa. Per il fatto che non ho rispettato gli ordini mi vogliano drogare per farmi stare tranquillo?”

Audio da un Cpr italiano

Nel marzo 2024 alcuni attivisti della rete Mai più Lager – No ai Cpr e dell’associazione Naga sono entrati con la deputata di Alleanza Verdi Sinistra, Francesca Ghirra, nel Centro di permanenza per i rimpatri di Macomer, in Sardegna. 

“La strage del Brunelleschi e le condizioni terribili di detenzione hanno portato a un’esplosione di rabbia a inizio 2023. Le rivolte si sono concluse col danneggiamento dei locali, la chiusura del centro e il trasferimento dei reclusi in altre strutture”.

Non è stato un safari di buone pratiche organizzato ad hoc da chi gestisce il centro, come di solito avviene in contesti di privazione della libertà. Gli attivisti e la deputata, al contrario, hanno passato nella struttura circa nove ore, durante le quali sono riusciti a ispezionare più o meno tutti gli ambienti e parlare con le persone recluse. Ne è nato un report, il cui contenuto spiega meglio di ogni altra cosa perché, normalmente, visite di questo tipo sono ostacolate.

I muri dei bagni erano ricoperti da chiazze di muffa e scrostature. Ai rubinetti delle docce erano attaccate bottigliette d’acqua perché lo scarso getto che usciva dalle tubature non rendeva possibile lavarsi in modo adeguato. Le uniche due aree di socializzazione della struttura risultavano inutilizzate e per i reclusi non era prevista alcuna attività giornaliera. Ci sono persone che hanno raccontato di aver assunto sedativi sciolti nel caffè, perché si rifiutavano di assumerli di loro spontanea volontà. C’era un uomo algerino registrato con un nome sbagliato, cosa ha rallentato la sua trafila burocratica per il rimpatrio. Ha commesso atti di autolesionismo ed è stato messo  in isolamento, privo di una reale sorveglianza, in una stanza completamente vuota, a parte un materasso per terra. C’era chi dormiva da giorni per terra nelle docce, chi si trovava in uno stato psicologico così alterato da ingurgitare feci e urina, chi con un braccio rotto non riceveva una visita medica da settimane. 

A proposito delle persone rinchiuse nel centro di Macomer, nel report dell’ispezione si parla di una “condizione generale di degrado, sofferenza e abbandono”. Ci sono numerose testimonianze di pestaggi subiti sia a opera del personale delle forze dell’ordine che di quello alle dipendenze del gestore. Le spedizioni punitive andavano avanti per tutta la notte, e si alternavano alle botte inferte nei punti ciechi delle videocamere di sorveglianza.

“Stanno tutti male, per fortuna noi non abbiamo mangiato e abbiamo rimandato il cibo indietro. È un casino, ci trattano come animali. Neanche degli animali mangiano queste schifezze. Ora siamo senza mangiare, non abbiamo né pranzato né cenato”.

Audio da un Cpr italiano

Lo scorso agosto la cooperativa sociale Ekene si è aggiudicata il bando per la gestione del Cpr di via Corelli, a Milano. La struttura lombarda da tempo era una delle più problematiche in Italia, tra rivolte, tentativi di suicidio e denunce di malagestione da parte di attivisti e addetti al settore. 

Nel dicembre 2023 la Procura di Milano ha aperto un’inchiesta su Martinina srl, la società che gestiva il centro. L’accusa è che molti dei servizi fissati nell’assegnazione dell’appalto, come il supporto psicologico per i reclusi, la mediazione linguistica, la fornitura di cibo e medicinali, erano in realtà assenti o carenti. Nelle carte si parla di cibo scaduto e con i vermi, somministrazione forzata di psicofarmaci, ambienti in condizioni degradanti. Questo ha portato al sequestro del centro e al suo affidamento a un amministratore giudiziario.

Ekene, che grazie a un’offerta al ribasso di tre milioni di euro ha preso in mano la gestione del centro dall’estate scorsa, non è un nome nuovo nel mondo dei Centri di permanenza per il rimpatrio italiani. La cooperativa è la stessa che gestisce la struttura sarda di Macomer, quello al centro del pesante report della rete Mai più Lager – No ai Cpr e dell’associazione Naga, dove si denunciano le condizioni inumane e degradanti in cui sono tenuti i cittadini stranieri reclusi. Ma Ekene è anche il gestore del Cpr friulano di Gradisca d’Isonzo, la “struttura della morte”, la stessa al centro del nuovo rapporto del Comitato europeo contro la tortura.

Qui dal 2019 sono decedute quattro persone. Vakhtang Enukidze, che ha avuto un malore nella tarda serata di un giorno di gennaio 2020 ed è stato soccorso solo nove ore dopo. Per la sua morte la Procura di Gorizia ha chiesto il rinvio a giudizio per omicidio colposo di due persone, tra cui Simone Borile, direttore del Cpr e gestore di Ekene, già condannato in primo grado per peculato per il crac di una società di rifiuti che operava in Veneto, oltre che per truffa per la gestione del Centro di accoglienza straordinaria (Cas) di Cona, nel veneziano. Al Cpr di Gradisca d’Isonzo è poi morto nel 2020 per overdose di metadone Orgest Turia, mentre nel 2021 e nel 2022 si sono tolti la vita Anani Ezzedine e Arshad Jahangir.

Nel 2022 la cooperativa Ekene aveva vinto il bando per la gestione del Cpr di Caltanissetta, ma la Prefettura aveva poi annullato l’aggiudicazione per i guai giudiziari dei vertici societari. Due anni dopo nulla è cambiato, ma le ombre sulla cooperativa non sono state ritenute sufficienti per impedirle di prendere in mano il criticissimo Cpr di Milano.

“Mi hanno picchiato, ammanettato e messo in macchina dal centro di Milano fino a quello di Roma. Sono stato con le manette e senza mangiare, senza acqua, per 24 ore. Poi mi hanno portato in aeroporto per espellermi e mi hanno picchiato anche lungo il viaggio. Sono stato trattato come un cane”.

Audio da un Cpr italiano

Al bando per la gestione del Cpr di Milano si erano presentate due cooperative. Ekene, che ha vinto, e Sanitalia. Anche al bando del Cpr “Brunelleschi” di Torino, affidato a inizio dicembre, erano in due. Sempre Sanitalia, che stavolta ha vinto, e sempre Ekene, che è uscita sconfitta. 

I Cpr in Italia hanno una caratteristica comune: versano in condizioni pietose, negano ai reclusi i diritti e le libertà di base e sono gestiti, se così si può dire , sempre dalle stesse realtà, quelle che un’inchiesta di IrpiMedia ha definito “Coop pigliatutto”. La chiusura del centro di Torino all’inizio del 2023 poteva essere il primo passo di una rivoluzione culturale, un messaggio di rottura con un abominio della democrazia che va avanti da troppo tempo. Poteva essere la prima tessera a cadere di un effetto domino che avrebbe portato al crollo del sistema. Invece è stata un’allucinazione collettiva. Oggi il sistema-Cpr è più forte di prima: gestito sempre dalle stesse cooperative, caratterizzato sempre dagli stessi problemi, avallato più che mai dalla politica, che ha pensato di replicare lo stesso modello in Albania, facendo ancora una volta a cazzotti con il diritto internazionale.

” Cpr in Italia hanno una caratteristica comune: versano in condizioni pietose, negano ai reclusi i diritti e le libertà di base e sono gestiti, se così si può dire , sempre dalle stesse realtà”.

Qualche mese fa il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha annunciato un piano del governo per aprire nuovi Centri di permanenza per il rimpatrio in ogni regione italiana. Mentre in Italia – quell’Italia dove la pena di morte e la tortura sono stati abbandonati ufficialmente il secolo scorso – di Cpr si muore e si viene torturati, la risposta delle istituzioni è far finta che tutto vada bene. L’unica arma che rimane alla società civile per tenere alta l’attenzione sui lager di Stato, perché prima o poi il grido possa divenire troppo forte per ignorarlo, sono allora i rapporti nazionali e internazionali, le inchieste giudiziarie e le testimonianze dei reclusi. Ne lascio un’ultima, che racconta bene la disperazione a cui porta la reclusione nei Centri di permanenza per il rimpatrio italiani.

“Vorrei morire nel sonno piuttosto che stare qua. Ci trattano male, ci manganellano. Sono stanco, non ce la faccio più. Nessuno è disposto ad aiutarmi, nessuno. Non riesco neanche ad aprire gli occhi. A volte penso sia ora di farla finita”.

Audio da un Cpr italiano

Luigi Mastrodonato

Luigi Mastrodonato è un giornalista freelance. Collabora con testate come Internazionale, Domani, LifeGate e si occupa di temi sociali e marginalità, con un focus particolare su carceri e abusi di potere. È autore e voce del podcast “TREDICI”, uscito nel 2023 per «Il Post».

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