La redazione di Lucy
Con il nuovo mese inauguriamo anche un nuovo tema: ve lo presentiamo qui.
La moda è parola che penetra in italiano dal francese. Prima ancora viene dal latino modus (foggia, modo, maniera). È un aspetto su cui, più di quanto si creda, la letteratura ha iniziato a riflettere sin dagli albori, soprattutto in ragione della sua transitorietà.
Giacomo Leopardi, in una delle sue Operette morali forse più belle, fa dialogare in forma d’emblemi la Morte e la Moda.
Entrambe, nel corso della loro conversazione, si accorgono di somigliarsi più di quanto sembri. D’altra parte, in fondo all’operetta, le due entità scoprono di avere la stessa madre: la caducità.
Qualcosa di non molto diverso, in fondo, diceva un secolo prima il giornalista e scrittore Leo Longanesi quando, nel discorrere di quest’argomento col consueto acume che egli possedeva nel maneggiare temi di costume, affermava laconico: “C’è una sola grande moda: la giovinezza.”
La moda da sempre è stata associata alla precarietà, alla provvisorietà, a un momento di passaggio, dunque, a un tocco magico e, come tale, destinato a dissolversi.
E questo ha forse fatto depositare su di essa la scure dei giudizi degli intellettuali più pesanteur. Si pensi all’uso che tuttora si fa dell’espressione “alla moda”. Un modo di dire bifido che, nell’indicare il successo di qualcosa, addita anche come quel qualcosa sia inflazionato, trito, conforme.
Eppure gli addetti ai lavori non hanno mai negato la consapevolezza di questa transitorietà, anzi, ne hanno fatto un punto di forza. Cosa fa l’alta moda se non cambiare costantemente mantenendo, appunto, delle costanti? Cos’è una casa di moda se non un tempio del tempo?
Lo dice nitidamente Karl Lagerfeld, che da stilista ha dedicato a questo mondo numerosissimi aforismi memorabili, quando afferma che la moda “è un gioco”. Un gioco, aggiunge, che va preso però “molto sul serio”.
Un gioco che ha delle regole, dunque, che cambiano e restano costanti nel tempo. Il designer Kenzo Takada scriveva, per esempio, che “La moda è come il cibo, è importante non soffermarsi sullo stesso menù”. La metafora gastronomica ci riporta alla matrice consumistica della moda.
In ragione di questa natura effimera e momentanea, spesso la letteratura ha snobbato la moda. E in effetti pochi scrittori – è il caso di Bret Easton Ellis – hanno avuto l’ardire di inserire marchi nei propri libri. Libri che forse un giorno parleranno poco ai nostri lettori. Eppure, è una sfida che vale la pena compiere. Come scrive Bontempelli, la moda non è solo un capriccio, ma in essa “si cela qualche cosa di fugace, ma non perciò meno vero ed esatto, dell’anima collettiva ch’essa è destinata a rappresentare nella sua continuità”.
Qualcosa di molto simile lo dice Arbasino in uno dei moltissimi dialoghi che affollano Fratelli d’Italia: “Sempre più mi convinco che l’autenticità dell’attività umana dipende moltissimo da come proprio sa riflettere il tempo, storicizzando l’attimo perfino nelle sfumature della moda, le voci in strada, il colore di quel momento, ‘la calda follia delle quattro pomeridiane’.”
È quello che proveremo a fare nel prossimo numero di Lucy, che si intitola “Di moda”. E lo faremo dando voce a scrittrici e scrittori che si sono interrogati su questa soglia, ad esperti di questo settore che da tempo lavorano nella moda, a storici che, attraverso di essa, hanno provato a individuare il cuore di ogni tempo e di ogni sua “calda follia”.
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