Dietro il confuso discorso di Giuli c’è un disegno chiaro - Lucy
articolo

Mimmo Cangiano

Dietro il confuso discorso di Giuli c’è un disegno chiaro

Si è ironizzato molto sul discorso di insediamento del neoministro della Cultura Giuli. Ma dietro il lessico apparentemente astruso, è chiaro l’obiettivo di sintetizzare la cultura della destra tradizionale con i nuovi dettami neoliberisti.

Come noto, le conseguenze innescate dall’affaire-Boccia hanno portato alle dimissioni dell’ex Ministro Gennaro Sangiuliano. Di lui si ricorderanno le molte gaffe (“leggerò i romanzi”, detto da giudice del premio alla cerimonia finale dello Strega), e una lista di episodi che hanno avuto a che fare quasi sempre con la faciloneria più che con la complessità della politica.

A succederlo al Dicastero è stato chiamato Alessandro Giuli, un profilo intellettuale che è parso da subito molto diverso. L’insediamento, di fatto, è avvenuto il 9 ottobre con un lungo discorso di avvio ai lavori in cui il neo-Ministro ha illustrato le proprie linee programmatiche.

A quel discorso la sinistra, capitanata da Matteo Renzi, ha pensato bene di rispondere con un “aò, parla come magni”. Invece di prenderlo sul serio, si è preferito invocare la supercazzola e il Conte Mascetti, assecondando quel principio della divulgazione culturale secondo cui “se non ho capito cosa hai detto, è colpa di come lo hai detto”. Posto che il Conte Mascetti non andrebbe mai nominato invano – figura sacra alla Patria e parte integrante di quel ristretto gruppo di figure (con Nilde Iotti e Garibaldi) che mantengono coeso il nostro sfilacciato tessuto nazionale – la reazione ha permesso la divertita replica del Ministro al suddetto Renzi (“adeguerò l’eloquio alle sue capacità cognitive”); tributo più o meno volontario al vecchio Tabloid di Daniele Luttazzi: “andremo in onda forma ridotta per venire incontro alle vostre capacità mentali”.

Ma le linee programmatiche del Dicastero Giuli sono tutt’altro che una supercazzola, e rappresentano anzi un oggetto privilegiato per analizzare l’incrocio fra una cultura di destra abbastanza tradizionale e i nuovi dettami del neoliberismo; vale a dire il sovrapporsi di un’ideologia destrorsa (e a vaga trazione sociale) all’interno di propositi prammatici che, nella sostanza, restano di tipo aziendalistico.

“A quel discorso la sinistra, capitanata da Matteo Renzi, ha pensato bene di rispondere con un ‘aò, parla come magni’”.

Il Ministro si presenta raffreddatissimo, in panciotto e catenella, e adotta un linguaggio che, a tratti, mixa eloquio post-risorgimentale (i bambini che diventano “fanciulli”) e retorica da Istituto Luce (le iniziative che “si irradiano”). Parte citando l’art. 9 della Costituzione e ci avvisa che comincerà con “una parte un po’ più teoretica”.

Ciò che emerge nei primi dieci minuti del discorso sono tutte le difficoltà di una destra governativa a mantenere in piedi i suoi propositi umanistici e comunitari all’interno di un mondo, ammette lo stesso Giuli, “entrato nella dimensione compiuta della tecnica”. La tecnica è naturalmente per il Ministro un primum, una variante che appare indipendente dai processi connessi al modo di produzione capitalistico. Ma il discorso non è quello della vecchia destra romanticamente anti-capitalista, quello cioè che crede alla persistenza di spazi socio-nazionali immuni agli effetti che dalla tecnologia si riversano sui nostri percorsi cognitivi. 

Giuli, anzi, affastellando Guénon, Guardini e Maritain, inizia proprio ammettendo che la tecnica ha cambiato il nostro modo di pensare. Da qui la soluzione è necessariamente quella di una destra moderna e, direi, anti-evoliana, interessata a interrogarsi su processi operativi che le permettano di sottomettere la tecnica al proprio controllo.

Questo è il senso dell’incriminato passaggio sull’infosfera e sugli apocalittici e integrati: 

“Il rischio che si corre è duplice e speculare: l’entusiasmo passivo che rimuove i pericoli dell’iper-tecnologizzazione e per converso l’apocalittismo difensivo che rimpiange un’immagine del mondo trascorsa, impugnando un’ideologia della crisi che si percepisce come processo alla tecnica e al futuro intese come una minaccia”. 

Gli integrati nella visione di Giuli sono ovviamente la sinistra e il mondo liberale, pronti ad accogliere acriticamente (e a salutare con gioia) gli sviluppi tecnologici; gli apocalittici, valevoli di altrettanto biasimo, sono i passatisti, di sinistra o di destra, ovvero coloro che guardano agli sviluppi progressivi e tecnologici nell’ottica (questa sì proprio di una destra tradizionale) di una “degenerazione”. 

Giuli a questo punto già non ha altra scelta che ricorrere alla giustapposizione di due impianti ideologici difficilmente conciliabili. Prima, citando appunto Maritain, riafferma la validità dell’umanesimo (“Non l’algoritmo, ma l’umano”) e – contentino ai camerati di un tempo – lo accentra nel Rinascimento italiano, vale a dire (altro punto da destra tradizionale) nella capacità italica di produrre valori di tipo universale pur quando nazionali. Subito dopo però – più Bottai che Gentile – dichiara l’assenza di gerarchia e contrapposizione “tra le culture scientifiche e umanistiche”. Il proposito è qui esplicito: la difesa della conoscenza di tipo tecnico non è appannaggio del fronte progressista. O meglio, ciò che ci differenzia dal fronte progressista, dalla loro difesa acritica del progresso tecnologico, è il rifiuto della compartimentazione della conoscenza, vale a dire la capacità di tenere insieme (“Concezione circolare e integrale del pensiero”) tecnica e umanesimo. 

Dietro il confuso discorso di Giuli c’è un disegno chiaro -

Siamo già al nodo centrale della destra novecentesca e poi postmoderna. Il proposito che il Ministro enuncia come equilibrismo ideologico fra l’umano e la tecnica è infatti anche un proposito che può risolversi (e per lo più si risolve) in spiritualizzazione della tecnica stessa, Il nome che Giuli utilizza per dare valore alla sua tesi è quello di Adriano Olivetti. E non è un caso che proprio all’inizio della lunga parte dell’intervento dedicata all’imprenditore, il Ministro cada in contraddizione. Aveva aperto il suo discorso, istituendo una connessione fra sviluppo tecnico e trasformazione dei processi cognitivi. Ora però afferma che, con Olivetti, vediamo la testimonianza di “un’esigenza spirituale insopprimibile anche nel tempo dell’intelligenza artificiale”. Il materialismo di partenza, per quanto connesso alla tecnologia e non ai processi produttivi, va in collisione con la presupposizione di un nucleo valoriale (una resistenza spirituale) che in qualche modo è estraneo al divenire storico e ai processi materiali. È forse il tratto più tipico di quella destra che sogna di tenere sotto controllo, con etica e politica, lo sviluppo dei processi economico-tecnologici. Ma è anche il movimento che la conduce ad un’acquiescenza, ammantata di “spirito” e di umanesimo, verso gli stessi processi economico-tecnologici. Se infatti tale esigenza spirituale è insopprimibile (non entra in dialettica coi processi materiali stessi) allora a essa si può affidare il compito di tenere tali processi sotto controllo. È alla base di ciò che Furio Jesi chiamerà “mito tecnicizzato”, vale a dire l’utilizzo di idee-verità finalizzate, nel loro apparente essere un  freno sempre affidabile agli sviluppi capitalistici, a colorare, cioè, di spirito, di armonia, di organicismo e di etica gli sviluppi capitalistici medesimi:

“Nella visione di Olivetti lavoro, scienza e cultura sono i termini di un processo di sviluppo organico diffuso nelle comunità concrete di territorio, capace di mettere in connessione vitale le aziende, i servizi, la cultura. […] Pratiche concrete che dall’azienda integrata si riversava nella comunità”.

A questo punto Giuli comincia a fare i salti mortali per spiritualizzare, per umanesizzare (nei suoi termini), la materia. Da un lato Olivetti è “anima europea e italiana” ma ben piantata nel territorio popolare – cioè nella vita della comunità – dall’altra sono le stesse pratiche aziendali a essere intessute, pur nella logica del profitto, da quegli intenti comunitari e organicistici (“comunità” e “organico” sono fra le parole più ripetute del discorso) che vanno preservati. La “cultura organica” non è vista insomma in contrapposizione né alla tecnica né con le logiche del profitto. Il mánagement (che forse per orgoglio nazionale Giuli italianizza in “manágement”) crea “processi virtuosi” che permettono il preservarsi dell’umano pur assecondando i principi di sviluppo (“sostenibile” si intende). 

Da questo punto in avanti il Ministro può dunque parlare senza più timore delle necessità del profitto, cioè dell’inevitabile mercificazione della cultura stessa, ma lo fa puntellando sistematicamente il discorso con riferimenti (il “genius loci”; il “paesaggio italiano”; l’“universalità della civiltà italiana”, ecc.) umanesimo-nazionalistici che non alludono semplicemente al tema classico dell’identità italiana, ma avvolgono il discorso nei propositi di tipo spiritualizzante (comunità, organicismo, ecc.). E non è un caso che, mentre il materialismo su cui il discorso era parso aprirsi va via via scomparendo, Giuli possa esultare per i record di incassi nei luoghi della cultura degli ultimi due anni, senza fare neanche un accenno a quel fenomeno dell’overtourism che sta distruggendo alla radice quelli che, per la stessa destra, dovrebbero essere i luoghi deputati della tradizione italiana.

A questo punto però, forse perché di colpo conscio di dove il discorso dovrà andare a parare, Giuli parte con una lunga tirata, da vera e propria destra sociale, sulla necessità di una pianificazione economica concernente la “redistribuzione” dei profitti culturali. È il suo momento anti-liberista (“una destinazione identificata a monte”), la sua terza via, e il tono diventa quello del fascismo di sinistra, cioè quello di un’ideologia che insiste sulla necessità di preservare il tessuto sociale dai fenomeni di disgregazione capitalistica: muovere dalla comunità concreta, favorendo la riarticolazione del tessuto sociale e umano soprattutto laddove risulta sfilacciato dai processi di atomizzazione sociale.

Si sviluppa ora il tipico discorso della Gemeinschaft (della comunità organica su base socio-nazionale: “la ritualità che caratterizza la dimensione comunitaria delle feste popolari italiane”). L’interesse verso le periferie e le zone non-centrali del paese diventa nuovamente capacità, mediante una pianificazione economica guidata da intenti etico-culturali, di preservare quelle specificità locali a rischio sparizione (o degradazione) se lasciati alla mano invisibile del mercato. Su questa via – ed è il momento non a caso più concreto dell’intero discorso programmatico – Giuli arriva anche a proporre precise misure di intervento tutt’altro che disprezzabili: fondi alle biblioteche per rilanciare l’editoria, “servizi di welfare” per aiutare “le lavoratrici madri e i lavoratori padri che operano in quei contesti”, ecc.

Tali oscillazioni fra poli ideologici difficilmente conciliabili sono intessuti nell’intero discorso, e corrispondono alle difficoltà che una destra come quella di Giuli (che non è quella di Salvini e della flat tax) deve affrontare nel momento di naturalizzazione dell’orizzonte economico neoliberista. 

Da questo punto in avanti e fino alla fine, infatti, le linee programmatiche sterzano decisamente in direzione aziendalistica, come al solito puntellata da qualche riferimento nazionalistico (ad esempio le feste nazionali, col 25 aprile equiparato al 4 novembre, come elemento “di coesione che comprende tutti”, oppure le giornate di ricordo, in uncalderone indifferenziato di Gramsci, Pasolini e Mishima). 

Da un lato Giuli fa proprio – ed è senza dubbio un passaggio importante se si pensa alle condizioni di arretratezza ideologica del capitalismo italiano (ma non di quello culturale) – quella parte dell’armamentario teorico delle “culture wars” ormai ben radicato nelle logiche aziendali: parla di lotta ai cambiamenti climatici, di difesa delle identità ricordando però che queste sono plurime (“nel senso di un’identità plurale”), di tutela degli animali, di “attenzione […] alle diverse abilità”, di difesa delle varie religioni. Dall’altro, mentre insistesull’importanza dell’imprenditoria culturale privata e si situa chiaramente nel campo Atlantico con la difesa dell’Ucraina e un pensiero al 7 ottobre, comincia a esprimeretemi da destra classica, temi da inclusivismo alla buona e necessità dello sviluppo economico:

“Il valore della cultura per la formazione delle identità nazionali, per […] l’inclusione sociale, l’integrazione […], lo sviluppo economico e il benessere individuale e collettivo”.

D’accordo che non è un adorniano, però il Ministro parla a questo punto di “industria culturale nazionale”, di sviluppo per la cultura “delle moderne tecniche di comunicazione e di marketing”, di doverosa capacità dei prodotti culturali (in questo caso cinematografici) di “stare sul mercato”. E il fatto che tali intenti vengano ora sorretti da cose come la capacità di “diffondere l’identità culturale della nazione” o dal “raccontare l’identità e la storia di Roma” indica appunto la messa a merce di quella stessa verniciatura spirituale che avrebbe dovuto invece tenere la merce, cioè il mondo centripeto del profitto, sotto controllo. 

“Il Ministro si presenta raffreddatissimo, in panciotto e catenella, e adotta un linguaggio che, a tratti, mixa eloquio post-risorgimentale (i bambini che diventano ‘fanciulli’) e retorica da Istituto Luce”.

E non a caso il patrimonio culturale viene ora definito “fondamento dell’identità nazionale” e “motore dell’economia”. Su tale via la tecnologia stessa smette infatti di essere quell’entità, comunque ambigua, su cui si era aperto e diviene, nella sua variante italica (ad esempio il nostro design industriale: e non posso fare a meno di pensare a cosa avrebbe detto Céline di questo discorso) elemento precipuamente culturale da celebrare: “musei del futuro che racconteranno a chi verrà dopo di noi quest’era di transizioni tecnologiche, dove il genio italiano continua ad affermarsi anche nel design di componenti”. La “fiducia nella scienza” è allora addirittura “parte integrante del nostro dovere costituzionale”, ma questo dovere diviene un tutt’uno con la capacità di “alimentare un’economia della cultura”. A questo punto, ed era inevitabile, quella dialettica fra umano e tecnologico si risolve, nel linguaggio e nella sintassi, in accodamento dell’umano (o meglio proprio del lavoratore) al tecnologico: “garantire l’adattamento sempre maggiore del personale con le novità tecnico e tecnologiche che stanno investendo e trasformando la società contemporanea”. 

In piena linea con le direttive del Ministro Valditara sulla scuola, e in pieno accordo col management aziendale di tipo neoliberista (formazione continua e individuale, competenze, ecc.), il discorso va a concludersi  sulle contemporanee tecniche di formazione e disciplinamento del lavoratore (pardon, dell’umano):

“Formazione continua e valorizzazione del personale, ai fini di consentire la massima espressione del proprio potenziale […] ottimizzazione della performance lavorativa […] l’istituzione di un sistema automatizzato per la gestione delle attività formative, con la possibilità di creare dei percorsi individuali per una formazione a misura d’uomo […] per l’accrescimento delle competenze del singolo lavoratore”.

Come nell’intera tradizione della destra, l’intento di tenere sotto controllo, attraverso etica e cultura, i processi economici e di sviluppo, si risolve nel trionfo dei processi economici e di sviluppo ora bollati da etichette spiritualizzanti come quelle di “nazionale”, di “inclusivo”, di “a misura d’uomo”, ecc. Una sinistra che ormai confonde cultura e midcult divulgativo, e che non è più in grado di leggere materialisticamente i processi culturali, ha confuso tutto ciò con una supercazzola. Per dirla stavolta con l’architetto Melandri, era più un “souvenir d’Italie”, cioè – e in questo Giuli è pienamente sovranista – era il codice a barre “Made in Italy” messo sul pacchetto del neoliberismo.

Mimmo Cangiano

Mimmo Cangiano è Professore di Critica letteraria e Letterature Comparate presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Il suo ultimo saggio si intitola Cultura di destra e società di massa, Europa, 1870-1939 (Nottetempo, 2022)

newsletter

Le vite degli altri

Le vite degli altri è una newsletter che racconta di vite che non sono la nostra: vite straordinarie, bizzarre o comunque interessanti.

La scriviamo noi della redazione di Lucy e arriva nella tua mail la domenica, prima di pranzo o dopo il secondo caffè – dipende dalle tue abitudini.

Iscriviti

© Lucy 2024

art direction undesign

web design & development cosmo

sviluppo e sistema di abbonamenti Schiavone & Guga

lucy audio player

00:00

00:00