Bruno Montesano
Il processo per genocidio all'Aia, l’antisemitismo reale e quello usato per silenziare le critiche a Israele, l’esaltazione di Hamas negli ambienti radicali: questi mesi di guerra, tra cortocircuiti politici e narrativi, sono convulsi e drammatici. Per un attivista ebreo contro l’occupazione e il massacro a Gaza, sono anche un momento di dolorosa presa di coscienza e di riflessioni su temi come identità, Stato e appartenenza.
Alla luce del massacro che viene perseguito in Palestina, nonché dell’indifferenza israeliana all’ordine della Corte internazionale di giustizia e alle ormai sempre più frequenti richieste di cessate il fuoco avanzate da diversi paesi, può sembrare fuori fuoco scrivere un pezzo che parli anche di antisemitismo. Ma affrontare il tema del pregiudizio antiebraico può avere una qualche utilità, nella concitazione e nella drammaticità del dibattito corrente. Perché da un lato l’accusa di antisemitismo è usata ormai come un manganello con cui silenziare ogni critica contro Israele: persino le Nazioni Unite, il loro segretario Guterres e l’Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi) sono state additate come antisemite. Dall’altro lato, l’antisemitismo è un problema che esiste, in Europa, al di là delle strumentalizzazioni.
Il modo in cui sono stati raccontati questi mesi nel dibattito pubblico italiano mostra questa doppia dinamica. Dopo il 7 ottobre, durante la feroce ritorsione israeliana buona parte dei media e degli esponenti politici italiani si sono dedicati esclusivamente alle vittime israeliane (coerentemente con altre manifestazioni di razzismo e solidarietà selettiva esibite in questi anni). Le vittime israeliane erano dotate di memorie e sogni spezzati, di familiari. Quelle palestinesi no: numeri, indistinguibili dalle macerie sotto le quali morivano. Nel dibattito pubblico, per lo più, se gli israeliani erano civili innocenti barbaramente trucidati, quelli palestinesi, considerati corresponsabili delle azioni di Hamas, in parte se lo meritavano, per triste che fosse.
Dall’altro lato, una parte minoritaria della sinistra radicale globale ha raccontato invece l’attacco di Hamas del 7 ottobre, esaltandolo, giustificandolo o sminuendone la violenza contro i civili. Oltre a questi due fronti, chi, come me, fa parte dei movimenti ebraici contro l’occupazione e contro il massacro a Gaza, ha dovuto affrontare un terzo fronte, quello incarnato da larga parte delle rappresentanze istituzionali ebraiche. Lì si è preteso, e si continua a pretendere, che tutti gli ebrei si stringano insieme contro la “minaccia” palestinese, giustificando l’omicidio di massa israeliano come forma di autodifesa. Ma esiste anche un quarto fronte, rappresentato da una parte dell’estrema destra radicale e postfascista, dove l’appoggio a Isreale serve a rappresentarsi come non antisemita e permette di attaccare più liberamente le comunità migranti e postcoloniali.
Sono di madre ebrea ma non ho frequentato la comunità. Ho valutato se fare il bar mitzvah ma ho preferito di no. Ci ho ripensato recentemente ma ancora non ho preso una decisione definitiva. Ho partecipato a festività ebraiche in famiglia sin da piccolo e ho frequentato la sinagoga senza capire cosa venisse detto, dal momento che non conosco la lingua nella quale ci si esprime. Le storie degli anni Trenta e Quaranta di persecuzioni antiebraica della mia famiglia sono state però sempre centrali nella formazione delle mie preoccupazioni politiche e degli interessi di studio.
“Chi, come me, fa parte dei movimenti ebraici contro l’occupazione e contro il massacro a Gaza, ha dovuto affrontare un terzo fronte, quello incarnato da larga parte delle rappresentanze istituzionali ebraiche”.
Per me l’identità ebraica ha quindi a che fare con la consapevolezza che mia nonna e mio nonno sono scampati alle persecuzioni, trovando rifugio in Argentina – da cui sono dovuti nuovamente scappare quando il nazionalismo si affermò anche lì –, e che altri familiari invece non ci sono riusciti, per omicidio o suicidio.
L’eredità di questo fatto consiste nella consapevolezza che lo Stato – nella volontà di rappresentare l’omogeneità sempre precaria del popolo su cui fonda la propria legittimità – non è un alleato. Perché può liberare tutta la sua violenza contro una parte della popolazione che risiede all’interno dei suoi confini. Per questo, forse, crescendo ho sviluppato una particolare indignazione per il razzismo istituzionale, sociale e mediatico contro i migranti e una forte preoccupazione per la forza crescente dell’estrema destra – nonché per la complicità di centro-sinistra e centro nell’averla favorita con politiche discriminatorie approvate in nome di un presunto senso del realismo.
Mentre crescevo, e costruivo la mia ostilità verso i vari irrigidimenti identitari nazionalisti, anche la mia identità ebraica è finita tra i nemici da abbattere. Quando ero più piccolo pensavo di avere una tara rispetto ai miei coetanei. Certo, normali insicurezze della crescita, accentuate dalla – almeno nel mio caso – tenue permanenza di stereotipi o pregiudizi che il mio comportamento di volta in volta confermava o smentiva. Tuttavia, da adolescente e poi maggiorenne, a fronte delle ingiunzioni a dire la propria su Israele in quanto ebreo, sentivo che dovevo essere massimamente critico e radicale per essere accettato.
A Roma, ho frequentato brevemente il gruppo del BDS (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) contro Israele e partecipato ad alcune iniziative pubbliche sulla questione palestinese. Durante una discussione mi scontrai con un esponente di un gruppo italiano Sinistra per Israele che, dal mio punto di vista, era cieco verso la brutalità del regime di apartheid israeliano. Appena iniziata l’università, sono stato in Israele-Palestina. Oltre a fare alcune interviste assieme ad Alberto Fierro e ad alcuni membri della sinistra israeliana, ho potuto vedere, guidato da una esponente dell’Israeli Committee Against House Demolitions (ICAHD), la discriminazione istituzionale contro i palestinesi nella Gerusalemme Est occupata. I servizi pubblici essenziali garantiti alla parte a maggioranza ebraica della città erano e sono negati a quella palestinese, la cui popolazione subisce rigide limitazioni alla propria mobilità di cui i check point dell’esercito occupante sono solo la forma più evidente.
Dopo una fase di distacco dalla questione israelo-palestinese ed ebraica, ho capito poi che essere ebrei, qualunque cosa significasse, non doveva essere né motivo di imbarazzo né di orgoglio. Era un fatto, la cui rilevanza toccava a me stabilire. I giudizi di valore in merito da parte di terzi potevano venir rigettati. A varie ondate mi son interessato alla questione israelo-palestinese, così come a quello che alcuni pensatori ebrei avevano fatto nell’edificazione del pensiero socialista e radicale.
Prima del COVID ho iniziato a frequentare un eterogeneo gruppo di giovani ebree e ebrei contro l’occupazione. Nel corso del tempo abbiamo fatto delle azioni, scritto dei testi, in primis contro le politiche di Netanyahu e le violenze dell’esercito israeliano, in secondo luogo contro l’antisemitismo di sinistra. Ci sembrava profondamente ingiusto che le rappresentanze istituzionali ebraiche fossero così schiacciate sulla linea di un governo che si dimostrava sempre più di estrema destra. Allo stesso modo ci colpiva che ambienti antirazzisti, apparentemente aperti all’autocritica contro i residui di socializzazione razzista e patriarcale, fossero così imbevuti di pregiudizi antiebraici.
Dopo la violentissima ritorsione israeliana, è diventato sempre più difficile spiegare che, per quanto Israele e le comunità ebraiche – e i vari giornalisti allineati – usassero l’accusa di antisemitismo in modo spesso strumentale, questo fatto non invalidasse la constatazione di un effettivo residuo di antisemitismo in Europa e nella sinistra cosiddetta radicale.
Rispetto all’intersezione tra antisemitismo e critiche ad Israele, il problema ruota intorno ad una domanda: come si fa a stabilire se Israele, che è lo Stato degli ebrei, compia effettivamente delle atrocità, soprattutto alla luce del processo per genocidio presso la Corte internazionale di giustizia dell’Aia, o se si attribuiscono comportamenti atroci ad Israele perché è lo Stato degli ebrei? Molto del conflitto sulla distinzione tra antisemitismo e antisionismo si gioca in questo spazio.
L’antisemitismo, tra estrema destra e parti di sinistra radicale
Antisemitismo è parola densa di significato, non va agitata con leggerezza. In Europa, si dà soprattutto a livello sociale e, a volte, culturale. Semina paura nelle comunità ebraiche e, a volte, termina in omicidi – come mostra il caso dell’assassinio di Mireille Knoll nel 2021. Tuttavia non sempre l’antisemitismo coincide con un’esplicita posizione di odio contro gli ebrei: le forme di ostilità e pregiudizio possono assumere diverse forme. In questo senso, da sinistra, come ci si interroga su come riconoscere e disinnescare razzismo e omofobia, così si potrebbe fare con l’antisemitismo. Ma dato che la memoria europea riconosce grande valore allo sterminio degli ebrei, l’accusa di antisemitismo è identificata con quella di nazismo ed è quindi massimamente infamante. Ovviamente l’uso scorretto del termine non aiuta a prendere sul serio il tema. Probabilmente, inoltre, dal momento che la lotta all’antisemitismo ha un maggior incardinamento nelle istituzioni, si ha l’impressione che gli ebrei siano una minoranza protetta.
A ogni modo dire che l’antisemitismo esiste in Europa non significa porlo sullo stesso piano di altre forme di razzismo come quelle contro musulmani e migranti, decisamente più intense in termini di violenza sociale e istituzionale. Ma, a sua volta, affermare ciò non vuol dire neanche che l’antisemitismo non esiste o che sia un puro fantasma retorico. O che gli ebrei siano alleati della supremazia bianca.
Guardando la reazione al massacro a Gaza, ci sono due cose che saltano all’occhio. La prima: l’antisemitismo è stato strumentalizzato – agitato e nominato anche quando non c’è – per reprimere le proteste contro le politiche del governo di Israele rinfocolando la retorica dello “scontro di civiltà”. La seconda: alcune forme di antisemitismo, per quanto minoritarie, sono effettivamente emerse nel fronte solidale con la Palestina. Anche se le due cose sembrano in aperta contraddizione tra loro, sono entrambe vere.
È il cortocircuito a cui stiamo assistendo in questi mesi. Partiamo dal primo corno del problema. Dopo il 7 ottobre, larga parte del circuito mediatico italiano si è lamentato quotidianamente che l’emergenza nazionale e internazionale fosse l’antisemitismo. Le migliaia di vite perse dei palestinesi non contano, quelle degli ebrei israeliani o europei sì. L’apartheid contro i palestinesi è irrilevante, i pogrom contro i civili in Cisgiordania sono marginali. L’islamofobia non è un problema, anzi per alcuni è addirittura la risposta ai problemi occidentali. L’antisemitismo non svela la falsa coscienza della destra: è piuttosto la tara storica della sinistra, si dice. Chiunque critichi Israele diventa antisemita. L’antisemitismo viene quindi diffusamente strumentalizzato per legittimare la violenza di Israele contro i palestinesi e per reprimere attivisti e comunità migranti in Europa.
Un ulteriore cortocircuito consiste nella partecipazione dell’estrema destra a questa dinamica. Denunciare l’odio antiebraico serve tanto a far dimenticare quello dei loro riferimenti politici e intellettuali del passato, quanto a bilanciare la sua permanenza in alcune posizioni politiche. Giorgia Meloni ha pubblicato qualche mese fa un libro intervista in cui identifica in Soros il burattinaio occulto dietro alle crisi globali, il vero colpevole di tutti i mali del mondo. Prima e dopo è andata in sinagoga a Roma e questo ad alcuni basta per considerarla non antisemita, come dimostrerebbero anche i diversi incontri fatti da esponenti del suo partito con i rappresentanti della comunità ebraica.
Eppure è sempre il suo partito quello che adora gerarchi fascisti, massacratori di popolazioni colonizzate (Graziani), segretari di redazione della poco amichevole “Difesa della razza” (Almirante). Ma il «Corriere», in quella occasione, ha del tutto trascurato questi fatti. Mieli si dimentica di tutto ciò e preferisce lanciare i suoi strali contro “la sinistra antisemita”.
L’Italia e l’Europa sono profondamente islamofobe e razziste. Ma questo – è ovvio – non preoccupa molti dei media, che spesso sono anzi partecipi di questo clima e di questa politica che gerarchizza il valore della vita umana su base razziale. L’unico problema è l’antisemitismo, assoldando gli ebrei e Israele nel fronte dell’occidente giudaico-cristiano contro le satrapie mediorientali e i loro emissari.
Se l’estrema destra marcia contro l’antisemitismo, allora, sorge il dubbio che le categorie a cui siamo abituati non siano sufficienti. La difesa contro l’antisemitismo non può essere fatta sulla pelle di altri gruppi oggetto di razzismo, all’interno della cornice dello scontro di civiltà.
“Per me l’identità ebraica ha a che fare con la consapevolezza che mia nonna e mio nonno sono scampati alle persecuzioni, trovando rifugio in Argentina”.
E qui arriviamo al secondo corno del problema. In alcuni ambienti militanti della sinistra radicale, l’antisemitismo non è stato preso sul serio – salvo poche eccezioni. E non dal 7 ottobre, se si pensa ai casi di Mélanchon o, a quello più noto di Corbyn, che sì fu attaccato in modo strumentale ma, al contempo, non aveva affrontato con sufficiente vigore il problema nel suo partito. In questi anni in Europa, per gli ebrei contro l’occupazione che si sentono a disagio nella sinistra radicale, non è stato quindi facile agire.
Le pietre di inciampo divelte o bruciate, le stelle di David su case ebraiche, le minacce a bambini ebrei sono letti come fenomeni secondari, o comunque trascurabili. Si distorcono le parole della sopravvissuta Liliana Segre e la si invita a imparare meglio la lezione sulla Shoah. Il pogrom contro i passeggeri di un aereo proveniente da Israele in Dagestan è stato considerato insignificante o derubricato a un corteo “acceso”. Il dolore degli ebrei per le vittime del 7 ottobre è stato liquidato come una mancanza di realismo: cosa si aspettavano, l’occupazione ha un costo che va pagato. La paura degli ebrei in diaspora identificati come corresponsabili di quanto fa il governo israeliano non conta. Così come si pretende che in quanto ebrei ci si debba necessariamente esprimere prendendo le distanze da quel che avviene in Israele-Palestina.
Gli stupri del 7 ottobre continuano a non essere creduti in molti ambienti che pure dovrebbero avere un atteggiamento diverso proprio su questo tema. Nelle proteste in solidarietà con la Palestina e contro il massacro di civili a Gaza ci sono state delle ambiguità non maggioritarie ma comunque preoccupanti. In Italia si sono sentiti slogan esplicitamente contro gli ebrei (“aprite i confini, ammazziamo gli ebrei”). A New York, il giorno dopo il 7 ottobre ad un corteo si è detto che “la resistenza è arrivata in deltaplano e ha ammazzato alcune dozzine di hipster” e la battuta è stata accolta da una risata. Ma più la violenza israeliana continua, meno questi problemi diventano nominabili.
Sminuire, esaltare o celebrare i morti del 7 ottobre è una forma di antisemitismo o di discutibile radicalismo? Anche considerando Israele come stato coloniale, è evidente che per una popolazione come quella ebraica il senso del pericolo e della sicurezza sia particolarmente acuto e venire colpiti in massa riattivi paure profonde. L’interpretazione delle azioni di Hamas, e la lettura del 7 Ottobre che ne consegue, è la questione dirimente. Molti attivisti ebrei, in Israele e nella diaspora, si sono lamentati della minimizzazione o glorificazione del gesto o, ad esempio, della squallida colpevolizzazione dei raver – colpevoli di far festa a pochi chilometri dalla prigione a cielo aperto di Gaza – che implicava che, sostanzialmente, se la fossero cercata. Come se in occidente non convivessimo con contraddizioni simili quando conduciamo le nostre vite in città profondamente segregate – anche in relazione a ciò, Étienne Balibar parlava di una condizione di apartheid europeo.
Per contrapporsi a notizie lanciate anzi tempo da alcune fonti israeliane, gli aspetti più atroci del 7 ottobre sono stati spesso sminuiti: gli stupri messi in dubbio, la morte dei bambini minimizzata (“non sono stati sgozzati” si è detto, come se facesse tanta differenza). Così come l’accanimento contro i manifesti degli ostaggi, in Francia e in Europa, sembrano più che una forma di stupida radicalità politica – “in Israele non ci sono civili” si sente dire.
Alcuni attivisti e intellettuali hanno salutato quell’attacco contro civili come un risveglio del popolo palestinese che ricorda “che sono ancora i popoli a scrivere la storia”, ossia come un atto di resistenza anticoloniale. È vero: rompere le reti e sfondare i muri di quell’incubo penitenziario di massa che è Gaza, attaccare l’esercito di occupazione, possono essere letti come atti anticoloniali, dal forte impatto simbolico. Ma se si ammazzano indiscriminatamente i civili l’identità di oppresso di chi compie l’azione non esime da valutazioni critiche.
Vittime di quell’attacco sono stati soprattutto civili ebrei israeliani, palestinesi con cittadinanza israeliana e migranti residenti in Israele. Diversi attivisti per la pace e contro l’occupazione sono stati uccisi, o rapiti. Dall’attacco sembra che i miliziani di Hamas e della Jihad volessero uccidere il massimo numero di ebrei possibile, in quanto rappresentanti della popolazione dominante. Questo si configura come antisemitismo? In parte sì, ma – anche se a qualcuno non piace ricordarlo – c’è un contesto.
Il contesto è quello di un regime decennale di discriminazione in forza di legge a favore di un gruppo “etnico” e a svantaggio di un altro, ossia di apartheid, in Cisgiordania, Gaza e Israele. In questo senso il 7 ottobre non può stupire più di tanto. E, dopo l’attuale massacro a Gaza giustificato con l’obiettivo – ipocrita – di distruggere Hamas, è facile che altri atti di violenza contro la società israeliana avvengano nella spirale di inimicizia totale tra ebrei israeliani e palestinesi che guerra e occupazione favoriscono.
Parlare di contesto, tuttavia, non annulla lo spazio morale che ogni individuo ha, anche se compresso. Pertanto, non è possibile giustificare meccanicisticamente le violenze contro donne, minori e lavoratori migranti. Pensare che ci sia un automatismo tra oppressione e violenza indiscriminata cancella, tra l’altro, le differenze di mezzi, strategia e obiettivi e le forme di dissenso interne alla società palestinese. Rende inoltre monolitico quel che è invece una specifica espressione di una parte della politica palestinese e non della totalità della popolazione.
Allo stesso tempo, parte dell’ambiguità nella risposta della sinistra globale al 7 ottobre credo derivi proprio da qui. Dato che la non violenza di questi anni non è servita, e dato che Israele è un regime di occupazione, allora la violenza diviene legittima. Ma questa posizione non giustifica la violenza contro civili inermi. Così come non permette di pensare una soluzione politica per entrambe le popolazioni dal fiume Giordano al mare Mediterraneo.
Questa violenza – e la sua legittimazione – può essere mossa da una posizione politica radicale per cui chi opprime deve pagare per ciò che fa, o comunque la popolazione civile va responsabilizzata, o da un più o meno esplicito odio antiebraico. La linea è difficile da tracciare dal momento che in Israele il popolo nel cui nome avviene l’occupazione è a sua volta storicamente perseguitato. Identità di chi opprime e discrimina – come potere occupante – e identità di chi è oppresso e discriminato – gli ebrei da un punto di vista storico e su una scala globale – si sovrappongono.
Antisionismo e socialismo degli imbecilli non coincidono
Il sionismo, per dirla in modo sintetico, nasce come movimento nazionalista volto all’edificazione di uno Stato per gli ebrei che li proteggesse dalle persecuzioni che tradizionalmente i poteri pubblici e sociali avevano scatenato contro di loro. Ebbe tanto elementi coloniali quanto socialisti, come altri movimenti nazionalisti ottocenteschi. Tuttavia la sua dimensione coloniale fu più esplicita rispetto a questi ultimi, in quanto la popolazione che voleva dotarsi di una patria non viveva in maggioranza su un territorio che rivendicava invece come proprio. Nel crepuscolo dell’ordine coloniale ante-guerra e in un mondo che vedeva tanto l’emergere dei paesi non allineati quanto la contrapposizione per blocchi, il prezzo dell’edificazione di uno Stato a protezione degli ebrei fu fatto pagare ai palestinesi.
Dopo i 750.000 palestinesi espulsi con la Nakba sono seguite altre spirali di violenza, in una lotta per la sovranità di cui il massacro a Gaza in corso è l’ultimo episodio. Il costo dell’edificazione di uno Stato nazione in Israele e dell’impedimento – a cui gli altri paesi arabi della regione hanno partecipato – di uno Stato palestinese è stato altissimo e ricorda quanto sangue ci sia in quelle istituzioni che naturalizziamo chiamando democrazie.
Lo slogan “From the river to the sea” non è uno slogan antisemita: può essere inteso come la richiesta di giustizia e eguaglianza per ebrei e palestinesi su tutto il territorio della Palestina storica, in diverse configurazioni statuali. Ma, al contrario, per alcuni questo coincide con la cacciata di 7 milioni di ebrei da Israele. E, per quanto l’analisi del colonialismo di insediamento possa aiutare a comprendere quanto avviene in Palestina, non si può scordare che gli ebrei non hanno e non abbiano avuto una madrepatria dove andare – nessuna “Brooklyn” dove tornare, come hanno detto alcuni. Solo una minoranza ha una doppia cittadinanza oggi, e 700.000 sono stati espulsi e incoraggiati ad andarsene da paesi arabi tra ’47 e ’67 – e, come noto, l’Europa degli anni Trenta incubò l’omicidio di 6 milioni di ebrei, il che faceva sì che, a prescindere dall’adesione ad un progetto coloniale o meno, la fuga fosse la risposta.
“Dopo i 750.000 palestinesi espulsi con la Nakba sono seguite altre spirali di violenza, in una lotta per la sovranità di cui il massacro a Gaza in corso è l’ultimo episodio”.
Un discorso analogo vale per l’antisionismo che, nonostante le controverse definizioni ufficiali dell’ International Holocaust Remembrance Alliance, non coincide con l’antisemitismo, come indicato dalla più complessa definizione raccolta nella Jerusalem Declaration. Può indicare la radicale opposizione alle politiche di Israele, alla settantennale oppressione dei palestinesi, e quindi riguardare l’originaria dimensione coloniale. O può essere una posizione selettiva: a fronte del riconoscimento di altre identità organizzate su un territorio e unite come popolo in uno Stato, con diversi livelli di violenza necessari a performare questa comunità immaginata, solo gli ebrei non possono e non devono avere uno Stato. Al contempo è vero che l’identità ebraica abbia un evidente limite di trasferibilità, che non si dà allo stesso modo con altre identità nazionali. Ma anche queste ultime, pur se potenzialmente aperte, rimandano e cercano di mantenere un referente razziale. Tuttavia il tema della specificità discriminatoria di uno Stato degli ebrei resta sul tavolo, in quanto peggiora un tratto presente in ogni Stato-nazione: la produzione e riproduzione di minoranze da stigmatizzare e escludere.
La questione che gli ebrei non siano un popolo è invece un falso problema perché nessun popolo si dà in natura, nessun popolo “esiste” per come il senso comune fa esistere i popoli. Così come l’accusa ad Israele di essere uno stato “teocratico” in quanto destinato ai soli ebrei, poggia invece su un’erronea valutazione dell’identità ebraica, che è indefinibile – come ogni identità –, ma che non coincide con la sola sfera religiosa, interagendo con le più ampie sfere culturali e storiche.
Qualora la posizione non sia antinazionalista e anticoloniale a tutte le latitudini, sorge il dubbio che nell’antisionismo si annidi un germe antisemita. Se gli ebrei sono gli unici che non possono avere uno Stato, e si ignora che la legittimità di altre forme istituzionali di monopolio della forza è altrettanto infondata e spesso violenta, ci sono dei problemi.
Sin dal ’48 i palestinesi sono stati trattati in modo discriminatorio anche all’interno dei confini israeliani. Fino al ’66 sono stati sottoposti alla legislazione militare e poi, abolita questa esplicita discriminazione, altre limitazioni sono rimaste attribuendo la priorità alla popolazione ebraica. Dal 2018, con la legge sullo Stato ebraico, c’è stata un’ulteriore torsione. Tuttavia, con gradi diversi, la contraddizione tra apparente universalismo delle istituzioni liberaldemocratiche e il nazionalismo che gerarchizza la distribuzione di diritti e risorse materiali e simboliche all’interno di uno Stato non è un’esclusiva solo israeliana.
Sui limiti di una sinistra che sceglie quali minoranze dimenticare e quale nazionalismo preferire, in nome di un’ottica campista (ossia che, in chiave anti-statunitense, appoggia gli autoritarismi che si oppongono all’asse atlantico), è uscito una pregevole e analitica riflessione di tre studiosi anglosassoni, Ben Gidley, Daniel Mang, Daniel Randall, Per una sinistra coerentemente democratica e internazionalista, che ha raccolto diverse adesioni, come quella degli studiosi Eva Illouz e Yann Moulier Boutang.
In un mondo multipolare in cui emergono nuovi imperialismi, l’alleanza di Israele con l’asse atlantico viene interpretata attraverso selettive prospettive anti-imperialiste e torsioni antisemite dell’anticapitalismo, che August Bebel chiamava “socialismo degli imbecilli”. Invece di analizzare i rapporti sociali, si attribuisce ad un’identità connotata negativamente la spiegazione della posizione di potere. Si confondono analisi di classe e analisi razziste antiebraiche. Così come analisi politiche della violenza dell’oppressione israeliana vengono sostituite da stereotipi antiebraici. L’“accusa del sangue”, ossia ritenere che gli ebrei usino il sangue dei non ebrei per scopi religiosi, è riattivata dall’affermazione che Israele commerci in modo sistematico gli organi rubati ai corpi dei palestinesi.
“Sminuire, esaltare o celebrare i morti del 7 ottobre è una forma di antisemitismo o di discutibile radicalismo?”
Non è raro sentire discorsi complottisti sullo smisurato potere degli ebrei o del sionismo, sulla loro incredibile capacità manipolativa di marca luciferina, sull’onnipotenza delle lobby dei ricchi giudei. Adorno e Horkheimer, in Dialettica dell’illuminismo, scrivevano che dare la colpa agli ebrei della scomparsa del plusvalore permetteva ai padroni di farla franca: il segreto dello sfruttamento è svelato e al contempo taciuto attribuendolo agli ebrei e non ai capitalisti.
Spiragli di futuro?
Il collettivo di ebrei antirazzisti Golem in Francia è emerso, in conflitto con il cortocircuito di una destra che si appropria della lotta contro l’antisemitismo. In Regno Unito, gli ebrei contro l’occupazione di Na’amod si sono schierati dalla parte della popolazione civile contro l’appoggio del segretario del Labour Starmer alla punizione collettiva contro i palestinesi e contro la maggioranza delle comunità ebraiche. In Germania, ci sono alcuni collettivi ebraici anticoloniali e c’è la questione dell’Anti-Deutschland – la sinistra radicale non ebraica sionista in quanto oppressa dal peso della colpa tedesca. In Italia, il Laboratorio ebraico antirazzista – LəA è emerso contro l’appoggio di buona parte delle forze mediatiche e politiche alle azioni di Netanyahu, contro la strumentalizzazione dell’antisemitismo da parte della destra postfascista, e per denunciare il persistere dell’antisemitismo a sinistra. Negli Stati Uniti, ci sono state diverse importanti azioni di Jewish Voice for Peace.
In Israele, la sinistra contro l’occupazione viene repressa ferocemente, dopo aver pianto e continuato a piangere morti su entrambi i lati del conflitto ed essersi spesso sentita isolata dalla sinistra globale. Il movimento di ebrei e palestinesi israeliani Standing Together è stato denunciato come connivente con il regime di apartheid: la cooperazione tra occupante e occupato sarebbe una forma di normalizzazione e sbiancamento della violenza strutturale antipalestinese.
Alcuni dei gruppi nominati qui sopra sono antisionisti, altri sono post-sionisti o non sionisti, altri contengono elementi sionisti ma si oppongono all’occupazione dei territori palestinesi e auspicano un futuro di coesistenza. Anche storicamente si possono rintracciare esperienze simili: il gruppo Brit Shalom, di cui Martin Buber faceva parte, era un gruppo sionista che militava per la convivenza in uno Stato binazionale con i palestinesi.
A fronte della decennale e strutturale oppressione palestinese, non si può fingere che gli ebrei avessero molte alternative concrete negli anni Trenta rispetto a fondare uno Stato. Che ciò sia avvenuto con immane violenza non è legittimato dalla condizione di fuga in cui ciò è avvenuto, né dal consueto meccanismo di fondazione di uno Stato. Ma, a sua volta, questa violenza non può arrivare a negare il diritto all’esistenza della popolazione ebraica in quel territorio. Bisognerebbe quindi usare più cautela nel parlare di colonialismo di insediamento o nel fare discorsi sull’originaria proprietà e appartenenza della terra per evitare retoriche nazionaliste. Se come dice Mahmood Mamdani – che pure usa la lente del colonialismo di insediamento – , la differenza tra un colono e un migrante è che il primo vuole stabilire una sovranità su un territorio altrui, mentre il secondo vuole far parte della società del luogo dove si reca, nel caso degli ebrei in fuga dall’Europa la distinzione non può essere posta in modo troppo netto.
Probabilmente il modo per arrivare a una riconciliazione simile a quella sudafricana non è convenire su ogni aspetto dell’interpretazione storica che lega palestinesi ed ebrei israeliani. Sarà necessario che la società israeliana, pur qualora non riconosca interamente l’enorme violenza perpetrata per decenni, vi ponga fine. Ma sarà forse necessaria anche una maggior chiarezza, da entrambe le parti, sulle condizioni di una coesistenza su una terra dove nessuna delle due popolazioni se ne debba andare. Serve una rinuncia alla rivendicazione esclusiva e proprietaria del territorio. Ci si chiede se ci sia spazio per seguire quindi quello che alcuni ebrei e palestinesi hanno sognato: uno Stato binazionale che disarticoli la triade maledetta di territorio, popolazione e sovranità.
Bruno Montesano
Bruno Montesano è dottorando in “Mutamento sociale e politico” presso le Università di Torino e Firenze. Collabora con diverse testate e ha curato Israele-Palestina. Oltre i nazionalismi (E/O, 2024).
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