Nicola Lagioia
18 Aprile 2025
L’Europa vive una crisi profonda che negli ultimi anni sembra sempre più urgente: le ambivalenze su Ucraina e Palestina, l’amministrazione Trump, la volontà di riarmarsi, le stragi nel Mediterraneo. Come uscirne? Lo abbiamo chiesto a uno scrittore molto sensibile a questi temi, Javier Cercas.
Nel 2018, hai aperto il Salone del Libro di Torino con una lectio memorabile, intitolata “E pluribus unum: l’Europa e l’eroismo della ragione”. In quel discorso, carico di gratitudine e di passione civile, hai tracciato una visione dell’Europa come utopia ragionevole.
A pochi anni di distanza, il clima intorno a noi sembra mutato. La guerra è tornata vicina con l’invasione russa dell’Ucraina. C’è stato il 7 ottobre. Poi il massacro a Gaza. Trump è diventato di nuovo presidente degli Stati Uniti con un’aggressività che non risparmia gli alleati. E l’Unione Europea – tra riarmo annunciato, sovranismi rampanti, fragilità istituzionale – fatica a darsi una voce e una direzione.
Mi viene da chiederti innanzitutto cosa rimanedell’utopia europea, cosa resta dell’eroismo della ragione che evocasti allora, ispirandoti a Husserl e a Savinio. Se rileggi oggi la tua lectio del 2018, cosa ti addolora e cosa invece ti fa sperare?
Non rileggo mai ciò che scrivo, e cerco di dimenticarlo il prima possibile, per poter continuare a scrivere, ma credo che l’utopia dell’Unione Europea sia ancora intatta; o meglio: mi sembra che ora sia più necessaria che mai. Ci tengo a precisare che non uso la parola “utopia” in senso etimologico (“Non esiste questo luogo”, traduceva nel XVII secolo Francisco de Quevedo, uno dei più grandi poeti della mia lingua), bensì nel senso – oggi molto più diffuso o popolare – di progetto desiderabile, ideale. Mi sembra che oggi, come nel 2018, l’Europa unita – un’Europa federale, capace di coniugare l’unità politica con la diversità linguistica e culturale – sia l’unica possibilità di preservare la pace, la prosperità e la democrazia nel nostro continente; continuo a credere che sia il progetto politico più urgente e ambizioso del nostro secolo. Talmente ambizioso che non so se noi europei ne saremo all’altezza.
Hai ricordato che, storicamente, “il vero sport europeo non è il calcio bensì la guerra”: che effetto ti fa constatare il modo in cui i conflitti armati sono tornati a farsi sentire così vicino a “casa nostra”?
Sembra che nel nostro continente sia tornata la Storia con la “S” maiuscola (ovvero la storia peggiore). La guerra nasce con l’essere umano; credevamo ingenuamente di averla eliminata, perlomeno dal nostro continente, invece è ancora qui. Ecco, bisogna affrontare la realtà. Io sono pacifista, ma il pacifismo non consiste nel dichiararsi pacifista, bensì nel mettere in atto tutti i mezzi per evitare la guerra. Questo è il problema. Credo che in quel testo dicessi una cosa che ripetevo sempre a mio figlio: “È sorprendente”, gli dicevo. “Mio padre ha conosciuto la guerra, mio nonno ha fatto la guerra, e anche il mio bisnonno e il mio trisavolo, e così via; ma io non l’ho conosciuta: io forse appartengo alla prima generazione di europei che non ha conosciuto la guerra, perlomeno la guerra tra grandi potenze (quella dell’ex Jugoslavia è stata, in tutto il suo orrore, una guerra locale, nazionale)”. Ebbene, ecco di nuovo la guerra, perché la guerra in Ucraina – non illudiamoci – è una guerra europea, che riguarda direttamente gli europei, che non è finita e che, non illudiamoci nemmeno su questo, potrebbe estendersi. Credo che in quel testo menzionassi anche una frase di Bernard Shaw che amo molto citare: “L’unica cosa che si impara dall’esperienza è che non si impara nulla dall’esperienza”. Speriamo che non sia vera.
L’Unione Europea ha risposto con fermezza all’aggressione russa, ma anche in modo contraddittorio . Che giudizio dai complessivamente della reazione europea alla guerra in Ucraina?
Quando si parla della guerra in Ucraina, non posso fare a meno di pensare alla guerra di Spagna, avvenuta in un momento storico che presenta molti parallelismi con quello attuale, nonostante le ovvie differenze. Nel 1936 in Spagna c’era una democrazia – una democrazia fragile, povera e insufficiente, come la maggior parte delle democrazie, ma pur sempre una democrazia – e un colpo di stato si abbatté su di essa. Hitler e Mussolini sostennero il colpo, ma quale fu la reazione delle altre democrazie europee? Mancato intervento, mancato aiuto alla democrazia spagnola per la paura di disturbare Hitler e Mussolini, con la speranza di riuscire a tenerli buoni. Non fu così, e ne conseguirono quarant’anni di guerra in Spagna – perché il franchismo non portò la pace, ma la guerra con altri mezzi – e la Seconda Guerra Mondiale. Ecco, almeno su questo oggi le cose sono diverse: almeno oggi le democrazie europee hanno sostenuto la fragile, povera e insufficiente democrazia ucraina e, soprattutto, gli ucraini, che, come gli spagnoli del 1936, hanno deciso di difendersi da quella che non è nient’altro che una selvaggia aggressione imperialista. Su queste basi, possiamo chiederci se l’aiuto all’Ucraina sia stato adeguato e sufficiente oppure no, ma per me questo è il punto di partenza. E possiamo anche discutere degli errori della NATO, perché ce ne sono stati, e di tutto il resto, ma senza dimenticare l’essenziale: che questa è un’aggressione brutale – come lo fu il colpo di stato nella Spagna del 1936 – e che gli ucraini hanno tutto il diritto di difendersi – così come lo avevano gli spagnoli del 1936. I pacifisti che, ingenuamente o meno, dicono che non bisogna sostenere l’Ucraina per preservare la pace si comportano come le democrazie europee del 1936; non sono pacifisti: sono complici del carnefice. Consapevoli o meno, sono gli “ignavi”, gli stessi che Dante condanna all’inferno nella Divina Commedia: quelli che, in tempi di crisi morale, decidono di frenarsi, di non compromettersi, di non mettersi dalla parte né della vittima né del carnefice, e questo, nella realtà dei fatti, li colloca parte del carnefice.
“Non rileggo mai ciò che scrivo, e cerco di dimenticarlo il prima possibile, per poter continuare a scrivere, ma credo che l’utopia dell’Unione Europea sia ancora intatta; o meglio: mi sembra che ora sia più necessaria che mai”.
In Palestina assistiamo a una catastrofe umanitaria senza precedenti, e prima ancora abbiamo visto gli orrori del 7 ottobre. Credi che l’Unione Europea debba prendere una posizione chiara su ciò che sta accadendo in Medio Oriente – una posizione morale, oltre che politica – o si tratta di una tragedia troppo lontana dai nostri interessi? Possiamo, nel caso, permetterci questo cinismo?
Assolutamente no. È vero che la questione palestinese è molto complessa e che, come diceva Amos Oz, quello che dovremmo fare noi europei è cercare di aiutare con ogni mezzo israeliani e palestinesi a trovare una soluzione duratura a questo conflitto così lungo e spaventoso, invece di preoccuparci solo di metterci a posto la coscienza nel modo più veloce e facile possibile, collocandoci dalla presunta parte “buona” della storia. È anche vero che ciò che è accaduto il 7 ottobre è spaventoso e inaccettabile, pur avendo ovviamente una spiegazione storica e politica connessa all’infame trattamento israeliano dei palestinesi. Detto ciò, è chiaro che la reazione di Israele è un’atrocità a cui bisogna porre fine immediatamente, e che l’Unione Europea, che dovrebbe difendere la pace e la democrazia in tutto il mondo – o almeno questa dovrebbe essere l’essenza e il senso del progetto europeo – è stata tiepida su questa questione, e che la sua reazione è totalmente insufficiente. Non fare tutto ciò che è in nostro potere per fermare la strage ci rende complici della strage. Quindi bisogna fermarla a tutti i costi. Mi sembra evidente ciò che ha scritto lo scrittore israeliano Edgar Keret: in questo momento il vero problema di Israele non sono i palestinesi: è il governo di Netanyahu. Quando è iniziato questo orrore ho detto: i palestinesi hanno ragione, ma non Hamas; gli israeliani hanno ragione, ma non Netanyahu. Quindi, dopo aver fermato la strage attuale, la prima cosa che dovrebbero fare i palestinesi e gli israeliani è liberarsi di Hamas e di Netanyahu. Anche questo mi sembra evidente.
Hai spesso parlato del nazionalismo come di una religione piuttosto pericolosa. Oggi molti dei suoi simboli sembrano tornati in forze. Che strumenti ha ancora l’Europa per contrastarlo?
Questa è una questione complessa e cruciale. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’Europa unita nacque per contrapporsi al nazionalismo – un’idea che all’inizio del XIX secolo era progressista e portò a risultati positivi, ma che dalla fine del XIX secolo, e soprattutto nel XX secolo, divenne reazionaria e letale – tuttavia, l’Europa non ha ancora trovato il modo di combatterlo. Credo che per farlo sia necessaria una vera rivoluzione ideologica, quasi paragonabile a ciò che è stato l’Illuminismo. Innanzitutto, bisogna cambiare il paradigma esclusivo, uniformante e purista del nazionalismo, che nel XX secolo ha devastato l’Europa, con il paradigma inclusivo, plurale e meticcio del federalismo, che, come dicevo, è l’unico in grado di preservare la pace, la prosperità e la democrazia in Europa. Il paradigma del nazionalismo dice essenzialmente che una lingua equivale a una cultura, e una cultura equivale a una nazione, e una nazione equivale o deve equivalere a uno Stato (che è l’unico in grado di proteggere la lingua e la cultura di una nazione); il paradigma del federalismo dice l’opposto: che bisogna costruire un unico stato perché ciò che ci unisce è molto più importante e sostanziale di ciò che ci separa, e perché insieme siamo più forti che separati; e dice che questo stato può e deve promuovere le lingue, le culture e il sentimento nazionale di ciascuno, che può e deve essere plurale dal punto di vista linguistico, culturale e identitario. Il sentimento nazionale è fondamentale: per molto tempo gli europei si sono uccisi a causa del sentimento religioso, fino a quando l’Illuminismo ci ha insegnato a relegarlo dalla sfera pubblica e a confinarlo nella sfera privata; nei due secoli passati, gli europei si sono uccisi a causa del sentimento nazionale: dobbiamo imparare a renderlo privato, a trasformarlo in qualcosa di personale e intimo che non sia in conflitto con gli altri sentimenti nazionali, proprio come il sentimento religioso non lo è più. Senza questa grande rivoluzione federale, che è una rivoluzione ideologica, come lo è stata l’Illuminismo, non vedo possibile la costruzione di un’Europa realmente unita, cioè un’Europa federale.
Nel tuo nuovo libro, Il folle di Dio alla fine del mondo, racconti il tuo viaggio in Mongolia con papa Francesco. Ti definisci “un folle senza Dio che insegue il folle di Dio”. Quanto sarebbe importante oggi, anche in Europa, avere il coraggio di inseguire ciò che non si vede? Provo a spiegarmi meglio. L’Europa moderna si è costruita anche rompendo con la religione. Ma ora che Dio è (quasi) uscito dalla scena, possiamo forse chiederci: cosa resta? È possibile costruire un’Europa, magari senza Dio, ma con una nuova spiritualità? L’Europa è alla ricerca di un’anima?
L’Europa ha una propria identità: è la sua pluralità. Gli Stati Uniti d’Europa che sognava Victor Hugo – che sogno anch’io – non possono essere come gli Stati Uniti d’America; in un certo senso sono il loro rovescio: gli Stati Uniti d’America sono stati la grande utopia del passato; gli Stati Uniti d’Europa dovrebbero essere la grande utopia del futuro. Gli Stati Uniti d’America hanno voluto costruire una sola nazione partendo da persone provenienti da molte nazioni – e ci sono riusciti ; noi dovremmo costruire un unico stato a partire da molte nazioni – delle nazioni che non vanno eliminate, ma integrate e trascese. Un’anima europea? Mi viene in mente la risposta che Jean-Marie Le Clézio diede quando gli posero una domanda impossibile, ovvero se la letteratura potesse salvare il mondo. “Forse lo ha già salvato”, rispose Le Clézio. E io dico lo stesso: forse l’Europa ha già un’anima, un’anima molto più definita e antica di quella di qualsiasi sua nazione, un’anima che affonda le sue radici ad Atene e a Gerusalemme, in Socrate e in Gesù Cristo, e che nel corso dei secoli si è andata configurando, diventando sempre più complessa. In fondo, forse di questo parla anche “Il folle di Dio alla fine del mondo”. Non è un caso che il protagonista – assieme al “folle di Dio”, che è Papa Francesco – sia “il folle senza Dio”, che sono io e forse la maggior parte degli europei, persone che, come me, sono state educate nella fede in Dio e hanno perso Dio come lo ha perso il folle di Nietzsche, quel personaggio che andava per le piazze e i mercati con una lanterna accesa in pieno giorno, gridando: “Dio è morto, Dio è morto! E siamo stati noi ad ammazzarlo”. Quel pazzo non era euforico, ma disperato, e aveva ragione di esserlo: perché, se Dio è morto, come dice Ivan Karamazov, tutto è permesso; perché, se Dio è morto, la base, il fondamento della nostra civiltà è crollato. Forse questa assenza di Dio, che è al centro della maggior parte della migliore arte europea a partire dalla fine del XIX secolo, è un elemento fondamentale dell’anima attuale dell’Europa.
“L’Europa ha una propria identità: è la sua pluralità. Gli Stati Uniti d’Europa che sognava Victor Hugo – che sogno anch’io – non possono essere come gli Stati Uniti d’America; in un certo senso sono il loro rovescio: gli Stati Uniti d’America sono stati la grande utopia del passato”.
Hai evidenziato, nel tuo libro, l’importanza del concetto di periferia per papa Francesco (la sua prima visita fuori da Roma, come giustamente ricordi, è stata a Lampedusa). Mi chiedo, e ti chiedo, se un pensiero in grado di rinnovare l’Europa non possa arrivare da una delle periferie del continente. Non quindi da Bruxelles, da Parigi, da Berlino, ma da contesti meno in apparenza centrali?
Buona domanda. La verità è che non ci ho mai pensato prima, ma potrebbe essere. Stai pensando ai paesi mediterranei? Speriamo. Ma a me, istintivamente, verrebbe da pensare ai paesi scandinavi, dove si trovano le migliori democrazie del mondo e dove si sono formate le società più prospere, libere e egualitarie del mondo – forse della storia – grazie a decenni di applicazione di politiche socialdemocratiche (anche se queste politiche sono ora in crisi proprio in quegli stessi paesi). Non c’è bisogno di dire che non sono paesi perfetti – la perfezione non esiste, né nella storia né altrove: la perfezione è una truffa – ma sono paesi migliori degli altri… Ma la verità è che non ho una risposta alla tua domanda. Bergoglio pensa che la vera Chiesa, la Chiesa primitiva, si trovi nella periferia, ed è vero. Forse anche la vera Europa sta nella periferia? Potrebbe essere.
In Italia si discute molto del riarmo europeo, e forse la discussione è molto intensa anche in Spagna. Il riarmo dei singoli paesi – che alcuni ritengono sia il primo passo per una difesa comune, mentre altri lo negano categoricamente – può convivere con l’utopia della pace europea? Che idea ti stai facendo?
Sono d’accordo con te: l’utopia europea è indistinguibile dall’utopia della pace. Cito di nuovo Victor Hugo: “Soyons les États-Unis d’Europe, soyons la fédération continentale, soyons la liberté européenne, soyons la paix universelle !” (“Dobbiamo essere gli Stati Uniti d’Europa, dobbiamo essere la federazione continentale, dobbiamo essere la libertà europea, dobbiamo essere la pace universale!”) Per quanto riguarda la sicurezza dell’Europa, minacciata oggi in vari modi da Trump e Putin, dirò solo che è evidente che è giunto il momento in cui l’Europa non deve più dipendere dagli Stati Uniti né da nessun altro, sia per quanto riguarda la sicurezza che per tutto il resto. Ma non voglio eludere la questione del riarmo. Chiaramente non sono un esperto del tema, ma sappiamo tutti che i trenta paesi europei della NATO investono al momento 420.000 milioni di euro nella difesa, mentre la Russia ne investe 129.000. Come è possibile che, spendendo quasi quattro volte di più della Russia nella difesa, non siamo in grado di dissuaderla dall’attaccarci e che i paesi europei vicini alla Russia stiano tremando alla possibilità che gli Stati Uniti smettano di proteggerci? La risposta è semplice: perché trenta piccoli eserciti isolati, ciascuno con comandi, obiettivi e organizzazioni proprie, sono mille volte meno dissuasivi di un grande esercito composto da questi trenta più piccoli, con un comando unico, una stessa organizzazione e un obiettivo comune. Detto ciò, salta agli occhi che quello di cui davvero ha bisogno l’Europa non è aumentare la spesa nella difesa – nemmeno aumentarla “a condizione che venga fatto un passo avanti nell’integrazione europea”, come ha scritto Jürgen Habermas –; ciò di cui l’Europa ha bisogno è di una vera integrazione difensiva, cioè la creazione di un esercito comune, ovvero – ancora una volta – un’Europa unita per davvero.
Andando al di là dell’Atlantico, Trump è tornato sulla scena, minacciando perfino i suoi alleati, irridendoli, provando a colpirli con i dazi. L’Europa sta imparando a fare a meno degli Stati Uniti, almeno in parte? La “cultura europea comune” di cui parlavi come sfida urgente (con tutte le differenze che la nostra identità contiene) a quale punto ti sembra che sia? Vedi segnali di avanzamento?
Mi sembra evidente che Trump sia il sintomo più chiaro del decadimento degli Stati Uniti; un decadimento che si può osservare in molti ambiti e da molti anni, e che forse notavamo soprattutto noi che avevamo più di tutti ammirato quel paese (io ci ho vissuto due anni da giovane, e ci sono tornato spesso). Trump è un personaggio orribile, che rappresenta il peggio degli Stati Uniti; che quell’uomo sia presidente della prima potenza mondiale è una vergogna per chiunque, a cominciare da molti nordamericani. È ovvio che è giunto il momento di emanciparci dagli Stati Uniti in tutti i sensi. È giunto il momento di competere con loro (senza escludere la collaborazione, è chiaro, fin dove è possibile e ragionevole). Possiamo farlo. Abbiamo la capacità di farlo. Siamo la terza economia del mondo, usiamo la seconda moneta mondiale, abbiamo il primo mercato del mondo e la prima tradizione culturale del mondo. Abbiamo molto più potere di quanto crediamo. Ci manca solo fiducia, ambizione e senso storico. Il XXI secolo non sarà degli Stati Uniti. Sarà della Cina o dell’Europa. Siamo noi a decidere.
“Mi sembra evidente che Trump sia il sintomo più chiaro del decadimento degli Stati Uniti; un decadimento che si può osservare in molti ambiti e da molti anni, e che forse notavamo soprattutto noi che avevamo più di tutti ammirato quel paese”.
Ha mai pensato, in questi anni, che l’Unione Europea potesse crollare sul serio, come progetto ideale e come struttura istituzionale? Qual è il nostro vero punto debole?
Il crollo dell’Unione Europea? Certo che ci ho pensato: l’euro stava per andare in frantumi dopo la crisi del 2008! E se l’euro fosse affondato, anche l’Unione Europea sarebbe andata alla deriva. All’inizio del XX secolo, molti europei pensavano che l’Impero Austro-Ungarico sarebbe durato secoli, che l’equilibrio degli imperi europei fosse indistruttibile, e Stefan Zweig scrisse nelle sue memorie che, in quel momento, parlare di guerra in Europa era come parlare di fantasmi o di streghe. Ci ricordiamo tutti cosa è successo nello stesso anno… Per quanto riguarda il nostro punto debole, non credo che sia uno solo; torno a quanto dicevo prima: ci manca fiducia in noi stessi, ci manca ambizione, ci manca senso storico, ci manca la volontà di fare l’enorme sforzo di cambiare il paradigma del nazionalismo con quello del federalismo, ci manca la convinzione di poterci unire nella diversità. Ci manca ricordare più spesso le parole di Hugo che citavo prima. Pensandoci bene, potrebbero diventare il nostro motto.
Se oggi dovessi scrivere un nuovo discorso sull’Europa, da quale immagine cominceresti?
Dall’immagine di una nave di gente in fuga che scappa dalla guerra e dalla miseria, mettendo a repentaglio la propria vita nel Mediterraneo, nel tentativo di arrivare in Europa. Se non siamo capaci di accogliere come si deve queste persone, l’Europa non ha senso di esistere.
Nicola Lagioia
Nicola Lagioia è scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico e direttore editoriale di Lucy. Il suo ultimo libro è La città dei vivi (Einaudi, 2020).
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