Flaubert, Simenon e gli altri: che farcene dell'arte creata da chi in vita era cattivo? - Lucy
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Antonella Lattanzi

Flaubert, Simenon e gli altri: che farcene dell’arte creata da chi in vita era cattivo?

26 Dicembre 2024

Scoprire che i propri beniamini sono persone abiette ha davvero il potere di cambiare il modo in cui la loro arte ci tocca? Una riflessione a partire dalla rilettura di Madame Bovary.

Nel 1855, Louise Colet – scrittrice e a lungo amante di Gustave Flaubert – va a casa di lui perché vuole vederlo e conoscere sua madre. Forse, una relazione così saltuaria le sta stretta e ha deciso di compiere un gesto per farla diventare qualcosa di più. Forse vuole semplicemente conoscere la casa e la vita della persona che frequenta e con cui ha una fitta corrispondenza. Non so esattamente cosa succede in quel frangente. So che Louise qualche tempo dopo riceve da Gustave una lettera che fa così: “Signora, ho saputo che vi siete data pena di venire da me, in serata, per tre volte. Non c’ero. E nel timore dei soprusi che una tale insistenza da parte vostra potrebbe attirarvi da me, il galateo mi obbliga di avvertivi: non ci sarò mai più. Ho l’onore di salutarvi. G.F.” Questa lettera mi risuona da molto tempo nella mente, anche perché Gustave non ci sarà mai più, ma ha scritto a Louise fior di lettere in cui le ha raccontato lo sviluppo di Madame Bovary, le scene che aveva in mente, il senso del romanzo. Per esempio, nel 1853: “Se mai gli effetti di una sinfonia saranno resi in un libro, sarà lì. Bisogna che la cosa urli attraverso tutto l’insieme, che si odano contemporaneamente i muggiti dei tori, i sospiri d’amore e le frasi delle autorità. C’è del sole su tutto questo, e dei colpi di vento che fanno ondeggiare i grandi cappelli. Ma i passi più difficili del Sant’Antonio erano giochi da ragazzi al confronto. Arrivo al drammatico soltanto attraverso l’intreccio del dialogo e le opposizioni di carattere”. Capisci che poi, se dopo una cosa così intima, io vengo a casa tua, se penso che io e te, tu. Capisci che se mi usi come cassa di risonanza del tuo genio, io poi non.

Gustave ci squadra dall’alto in basso, grassoccio e impettito, da quasi tutte le fotografie; la fronte altissima, quasi calvo, i capelli un po’ ricci sulle tempie, troppo lunghi; i baffi bianchicci che si allacciano a una barbetta sul mento, gli occhi piccoli con le sopracciglia spesse, il collo grasso, il farfallino, il panciotto; antipatico. Scrive a una donna che frequenta o ha frequentato lettere di una sgradevolezza tale che a leggerle se non sono dirette a te possono suonare divertenti, ma immaginiamo di essere Louise che lo cerca per tre volte. Gustave non vuole lasciare la casa di Croisset manco morto e ci vive per tutta la vita. Passa il tempo a inveire contro i suoi personaggi, e poi a invidiare il se stesso che ha scritto Madame Bovary perché non riesce più a ripetere quel successo. Non è altruista. Nemmeno bello (perché ti umili così, Louise?). Non dico che sia ai livelli di Simenon, maschilista che usa le donne, perfino l’amore di sua figlia, per i propri affari, non alza un dito su nulla che non sia scrivere, lascia impazzire le sue mogli e lascia che, nel vano tentativo di essere amata da colui che ama di più al mondo (suo padre George), sua figlia si suicidi. Scrive, beve, fa sesso, viaggia: tutto sulle spalle delle donne.

Ecco, Flaubert non arriva a tanto ma è misogino e scontroso, e si vede. Eppure. C’è un fuoco che arde sotto le ceneri di questi due scrittori che amo più di_

E qui mi sono fermata.

Ho riletto i miei due paragrafi e ho avuto paura. Ho pensato, due tra i miei autori preferiti non sono l’uomo che vogliamo, che giustamente pretendiamo oggi. Cosa succederà se inizio un articolo dichiarando amore a due uomini così? Meglio che io parli delle opere, non degli uomini. Meglio che racconti aneddoti leggeri. Oggi non è il tempo di raccontare questi uomini.

Ed ecco il mio nuovo incipit.

Immagino una stanza ben arredata, elegante, sui toni del verde, il camino acceso che manda calore e crepita giallo, rosso e blu. Vedo dei finestroni coperti da pesanti tende polverose. È notte. Immagino quest’uomo grassoccio tutto rosso in viso che, in piedi, sudando, camminando con forza avanti e indietro per la stanza, per ore e ore, o per giorni, legge il suo manoscritto a due amici fidati, seduti in due ampie poltrone di velluto. Immagino che gli si incrini la voce, legga l’ultima riga del suo scritto, alzi la testa; è sconvolto. Ma felice. Cerca l’approvazione nel volto degli amici. Sa che la troverà.

Silenzio. Del resto devono metabolizzare. Silenzio, ancora. “Allora?”, dice. Uno dei due, Du Camp, abbassa gli occhi. L’altro, Bouilhet, prende coraggio, si alza in piedi e dice: “Penso che dovresti darlo alle fiamme e non parlarne più”. L’uomo grassoccio guarda Du Camp, gli fa un cenno con la testa come a dire: e tu? Du Camp scuote la testa.

“Gustave ci squadra dall’alto in basso, grassoccio e impettito, da quasi tutte le fotografie; la fronte altissima, quasi calvo, i capelli un po’ ricci sulle tempie, troppo lunghi; i baffi bianchicci che si allacciano a una barbetta sul mento, gli occhi piccoli con le sopracciglia spesse, il collo grasso, il farfallino, il panciotto; antipatico”.

È il 1849, siamo a Croisset, dove Gustave Flaubert vive con la madre. Il suo romanzo La tentazione di Sant’Antonio, che Gustave ha letto per intero a Bouilhet e Du Camp, è stato appena bocciato dai suoi più cari amici. Immagino spesso questa scena, ma non la reggo. Distolgo la mente. È troppo angosciante. Hai speso anni per scrivere qualcosa, ed è un fallimento. Non lo voglio vedere. Poi però la mente è cattiva, ti porta dove vuole, e lo stesso vedo questa scena a ripetizione: le braccia di Flaubert che cadono lungo i fianchi, lasciano andare i fogli. E poi, un po’ enfaticamente, perché come ho detto questo dolore non lo reggo, immagino Bouilhet che raccoglie un foglio, lo butta nel fuoco, lo guarda bruciare per un attimo e poi dice: “Devi raccontare qualcosa di più vicino a te, di più realistico”. Prende un altro foglio, lo butta nel fuoco. Flaubert sudato e rosso lo guarda. “Perché non racconti di Delphine Delamare?”, dice Bouilhet, “È una bella storia”.

Immagino una grande nave che salpa. Il panciuto Gustave Flaubert parte per un lungo viaggio. Oriente, Grecia, Italia. Guarda il mondo, lui che può, e intanto prende appunti sul suo prossimo romanzo. Torna definitivamente a casa nel 1851. Il 18 settembre inizia a scrivere Madame Bovary, la storia di una donna sposata a un medico di campagna che tradisce ripetutamente il marito, contrae forti debiti, manda in bancarotta la famiglia, poi si suicida; il marito muore poco dopo. A occhio e croce è la storia di Delphine Delamare, moglie in seconde nozze di un ufficiale sanitario vecchia conoscenza del padre di Flaubert. Delphine viveva a Ry, provincia di Rouen. Aveva una figlia, si era fatta degli amanti, aveva mandato in bancarotta la famiglia, si era suicidata, poi era morto anche il marito. Una brutta storia di cronaca nera che è stata sulla bocca di tutti per un po’. La storia che Bouilhet ha consigliato a Gustave il giorno che si è alzato dalla poltrona di velluto che ho immaginato io. Una storia banale, senza grandi balzi, una piccola storia di persone piccole. Una storia inutile che diventa uno dei più grandi romanzi della letteratura mondiale grazie allo stile ricercato parola per parola, virgola per virgola, silenzio per silenzio, occhio per occhio, dal suo grandissimo autore Gustave Flaubert. Grazie alle pazzesche invenzioni narrative di Flaubert. Io sono innamorata.

Da molti anni, io sono innamorata di Emma Bovary. A ogni rilettura lei mi si rivela in un profilo nuovo, in una parola nuova. A ogni lettura io so che non mi si è svelata per davvero. Che posso leggerla di nuovo, come sollevando ancora un millimetro della sua gonna a balze, un millimetro soltanto. Ogni volta che parlo di lei, da più di vent’anni, mi si arrossano le guance. Nella vita, non ho mai avuto una storia d’amore così lunga e così sensuale. Forse la permanenza per decenni dell’innamoramento, dell’amore, del sesso è una cosa così: dopo vent’anni, le tue guance che arrossiscono.

Subito dopo una presentazione del suo bellissimo La verità e la biro, una sera, non ricordo dove, ricordo che faceva molto freddo, era tutto buio, eravamo in una piazza in stile medioevale, ho bevuto un bicchiere con Tiziano Scarpa, al calore di un fungo che per lui faceva calore, per me no. A un certo punto lui ha tirato fuori una penna e me l’ha regalata. “Ne ho fatte fare un po’ per il mio libro”, ha detto. “Tieni”. È uno dei regali più importanti che ho ricevuto nella vita. Sulla penna c’era scritto: “Non scrivere bugie”. Mi veniva da piangere, ma non ho pianto, perché sono un ometto coraggioso. Io, che nella vita professo l’importanza delle bugie, nella scrittura non ne ammetto. Non scrivere bugie mi è sembrata una dichiarazione di fede nella letteratura così forte che non la potevo reggere. La penna la conservo e la preservo nonostante io perda sempre tutto.

Posso dirlo con forza: non ho mai scritto bugie.

E allora perché ho iniziato questo articolo raccontando che due tra i miei scrittori preferiti sono degli uomini orribili e poi un pensiero mi si è insinuato nel cervello? È la prima volta che succede. Una voce mi ha detto: sta’ attenta a ciò che scrivi. Una voce che non era mia.

Pavidamente l’ho ascoltata e ho creato un altro incipit, altrettanto sincero, per me, altrettanto allettante; ma non è questo il punto.

Sono due cose diverse: dire che sotto la misoginia di un uomo – o la fallibilità o la cattiveria o la micragnosità di un essere umano – può esserci un fuoco sepolto che porta alla grande letteratura (come in Flaubert e in Simenon) e raccontare che dietro un capolavoro non c’è la storia pazzesca e mai sentita partorita da un genio-e-sregolatezza ma una storia qualunque, banale, presa dalla realtà come potrebbero essercene oggi a pacchi, però scritta da un genio. Da un uomo che sa come scrivere una cosa così: “Bisognava farci la tara, pensava, dal momento che discorsi infiammati nascondono affetti mediocri: come se la pienezza dell’anima talvolta non traboccasse attraverso le metafore più vuote perché nessuno, mai, riesce a dare l’esatta misura di ciò che pensa, di ciò che soffre, della necessità che lo incalza, e la parola umana è come un paiolo fesso su cui andiamo battendo melodie da far ballare gli orsi mentre vorremmo intenerire le stelle”. E lo fa pensare a Rodolphe, uno dei personaggi più stupidi, stucchevoli, insulsi di questo romanzo. Scusate ma io, cercando e ricopiando ancora una volta un passo da un romanzo – Madame Bovary – che ho letto per intero almeno dieci volte, adesso mentre copio rabbrividisco ancora. Ti amo, Gustave Flaubert. Posso dirlo? Ti amo Emma Bovary, creatura del buio, ti amo Gustave Flaubert, uomo difettoso e cattivo. Si può dire ancora, oggi?

E più in generale si possono amare i libri geniali di uomini orribili?

Si può parlare, si può scrivere di loro?

Flaubert, Simenon e gli altri: che farcene dell’arte creata da chi in vita era cattivo? -

Non voglio fregiarmi della parola intellettuale, ma mettiamo che uno poiché è uno scrittore e riflette da anni sulla realtà, le parole e l’irrealtà, possa essere chiamato intellettuale, mettiamo che io posso essere chiamata, anche per un attimo, intellettuale, io mi domando: cosa è permesso oggi a un intellettuale? Cosa può scrivere, cosa può dichiarare, senza aver paura? Io che dico tantissime bugie, io che non ho mai scritto una bugia, io che non ho avuto mai paura di scrivere proprio quello che volevo scrivere – è questa la fede nella letteratura – perché ho avuto paura di scrivere un attacco su due uomini quantomeno codardi? Perché ho avuto paura che i lettori mi si rivoltassero contro? Perché ho alzato il telefono e ho detto a un mio amico scrittore: senti, io vorrei farlo così, invece lo faccio colà, perché non voglio rogne?

Poi però, sapete, la fede. Non scrivere bugie. E allora ho dovuto attaccare con questi due scrittori stronzi. Perché se non l’avessi più, la fede nella letteratura e nel lettore, dove sarebbe finita quella bambina che si faceva chiamare ancora Tony con y e voleva fare la scrittrice? Nello scarico di un bagno qualunque di una casa senza infamia e senza lode, con un lavandino politically correct e un water né bianco né nero, per non offendere nessuno.

E così, mi sono detta, Toni di oggi con la i, abbi il coraggio della tua sincerità. Flaubert è sia l’uomo che scrive quella lettera orribile a Louise Colet, che la usa come cassa di risonanza del suo genio ma non la degna mai di una vera dignità, sia la mano (dice “sono un uomo-penna”) che sa scrivere, a proposito di Charles, dopo la morte di Emma: “Per piacerle, quasi fosse ancora viva, adottò i suoi gusti, le sue idee. Si comprò stivali di vernice, prese a portare cravatte bianche. Usava un cosmetico per i baffi e per imitarla firmò cambiali. Dall’oltretomba lei lo corrompeva”. Dio mio – se ne avessi uno nel cielo – che frase incredibile. Incredibile che l’abbia scritta un essere mortale.

Sapete, credo nei fantasmi. Quelli evocati da Shirley Jackson, schiacciata e ridotta al silenzio e alla morte solo perché era una donna. Quelli che evochiamo ogni volta che parliamo di un libro. Credo nel fantasma della giovane Emma Bovary, adesso. Se alzi la testa, adesso che leggi, puoi vederlo. È qui vicino a te. Senti il suo respiro sul collo quando scrivi. Ti chiede ragione, di ciò che scrivi. Ti interroga con occhi che vengono da tutti i secoli: “nella scrittura sei sincero?” Mia cugina Angela diceva: “Siamo tutti medium. Tutti potremmo sentire i morti, solo che non ascoltiamo”. Tutti possiamo sentire le parole che rintoccano nei romanzi come spiriti a mezzanotte, basta avere il coraggio di ascoltarli.

“Non voglio fregiarmi della parola intellettuale, ma mettiamo che uno poiché è uno scrittore e riflette da anni sulla realtà, le parole e l’irrealtà, possa essere chiamato intellettuale, mettiamo che io posso essere chiamata, anche per un attimo, intellettuale, io mi domando: cosa è permesso oggi a un intellettuale?”

Per dirla con coraggio: per favore, lasciate chi scrive libero di scrivere. Lasciateci commettere errori imperdonabili. Lasciateci amare un uomo orribile come Simenon non per la persona che era ma per lo scrittore che è, per favore non fateci avere paura di essere sinceri, lasciate che possiamo essere franchi e non scrivere bugie, lasciate la libertà nella scrittura, sospendete il giudizio. Lasciate che mentre scriviamo ci asteniamo dalla morale, e mentre leggete astenetevi anche voi. 

Dite: sì mi piace, no non mi piace. Sì voglio leggerlo, no non voglio leggerlo.

Nella lettura siamo nuovi.

Non rivendico il valore di letterario di questo articolo, perché potrebbe essere nullo. Rivendico l’amore che l’ha mosso, l’ha generato, l’ha animato nello scoccare della mezzanotte, all’arrivo dei fantasmi. Rivendico gli occhi – i miei occhi – che quando il fantasma arso dalle fiamme che aveva cercato di uccidere sua moglie e suo figlio in un albergo chiamato Overlook (Jack Torrance in Shining) è apparso sulla mia pagina e mi ha detto leggimi, amami, perdonami, hanno risposto: ti amo, ti leggo, ti prego, ti supplico, perdonami anche tu.

Antonella Lattanzi

Antonella Lattanzi è scrittrice e sceneggiatrice. Il suo ultimo libro è Cose che non si raccontano (Einaudi, 2023).

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