Martina Lodi
27 Marzo 2025
Da oggi al cinema, il documentario di Gianluca Matarrese – unico film italiano in concorso all’ultimo Sundance – segue pazienti trans e coppie infertili che consultano il dottor Maurizio Bini al Niguarda di Milano. E ci ricorda che “la legislazione non può stare dietro alla varietà umana”.
“Purtroppo, lo Stato esiste” è la risposta del dottor Maurizio Bini a uno dei suoi pazienti. Bini è il direttore dell’unità di sterilità e crioconservazione dell’Ospedale di Niguarda di Milano, ed è anche il protagonista di GEN_, unico film italiano in concorso all’ultimo Sundance Film Festival, diretto da Gianluca Matarrese e scritto dallo stesso Matarrese insieme alla ricercatrice accademica Donatella Della Ratta. Dopo alcune anteprime a Milano, Roma e Torino, GEN_ è al cinema dal 27 marzo.
Il lavoro del dottor Bini consiste principalmente nell’aiutare le coppie che hanno difficoltà a concepire grazie alle tecniche di fecondazione medicalmente assistita, e nel seguire i percorsi di gender affirmation dei suoi pazienti, a partire dalla decisione di intraprendere un percorso farmacologico di transizione di genere fino alla stabilizzazione della terapia (e agli eventuali interventi chirurgici). Il genere e la riproduzione sono legati al medesimo aspetto biologico, vale a dire al nostro funzionamento ormonale e tanto il genere quanto la riproduzione sono aspetti profondamente politici delle nostre esistenze. Per questa ragione il capitalismo e gli Stati tentano da secoli di tenerli sotto il proprio controllo – la filosofa e femminista Silvia Federci descrive, nel suo saggio Calibano e la strega, come il controllo del corpo femminile in quanto strumento riproduttivo, in grado di essere fecondato e di partorire figli che sarebbero diventati per il Capitale forza-lavoro, sia stato fondamentale per il capitalismo nascente del sedicesimo secolo. O ancora, basterà pensare a Foucault e alla biopolitica, definita come il terreno sul quale vengono agite le pratiche grazie alle quali il potere gestisce e disciplina corpi e popolazioni – la riflessione foucaultiana sul tema del controllo politico dei corpi sorge da un intreccio di interessi di ricerca differenti. Da un lato, la ricerca impostata a partire dai testi degli anni Sessanta, nei quali il principale tema d’indagine è individuato nel disturbo mentale e nella storia della sua cura (a partire dalla ricerca di Histoire de la folie, 1961); dall’altro, l’indagine cui Foucault si dedica nel decennio successivo, interessandosi al “potere disciplinare”. Parlando ai suoi pazienti, il dottor Bini dice che nel suo lavoro si tratta sempre, in fondo, di far nascere nuove vite: nuovi bambini, quando si occupa di fecondazione assistita, e vite libere vissute nuovamente, quando invece si tratta di rendere possibile la transizione di genere.
Il significato della frase “Purtroppo, lo Stato esiste” è reso evidente, nel film di Matarrese, dalle conversazioni tra Bini e i suoi pazienti. Ed è sufficiente aprire un quotidiano per leggere come la politica tenti di gestire la riproduzione e le diverse identità di genere. Questo accade in Italia, dove il governo Meloni vorrebbe limitare la procreazione assistita solo alle coppie eterosessuali (escludendo tanto le coppie omosessuali quanto le donne single), mentre la pratica della gravidanza per altri (GPA, nota più anche come maternità surrogata) è stata dichiarata “reato universale”, laddove negli Stati Uniti la nuova amministrazione Trump cancella le identità delle persone trans. Oggi più che mai, allora, la pratica della medicina diventa uno spazio politico di resistenza: prendersi cura del benessere dei pazienti, ricorda Bini, è il lavoro del medico, non soltanto rispettare la legge. Se la legge è immorale o sbagliata o ingiusta, il dovere del medico diventa quello di non rispettarla: questo medico illuminato con una seconda laurea in Lettere e Filosofia, in grado di conversare perfettamente in cinese con i suoi pazienti e con una passione sconfinata per i boschi e i funghi, è un esempio non soltanto, credo, di come andrebbe intesa la professione medica, ma di responsabilità e di cura che dovrebbero appartenere a tutte e tutti.
La passione di Bini per i funghi viene sottolineata in diversi passaggi: il documentario si apre con delle inquadrature di Bini nei boschi, e segue poi il medico nella sua cucina intento a pulire quello che ha raccolto. Scene di questo tipo intervallano tutto il film, e il tema viene ripreso anche in una conversazione con una paziente, una donna che vuole avere un figlio con il suo partner. “Molte persone non lo sanno, ma i funghi sono come noi, hanno bisogno di trovare un partner per procreare” le dice il medico, che poi, ridendo, aggiunge: “Lei il partner l’ha trovato, ora state cercando di fare il carpoforo”. È un caso curioso che un medico che si occupa di combinare gameti umani di dimensioni microscopiche dedichi il suo tempo libero a raccogliere organismi che possono riprodursi in maniera sessuata ma soltanto attraverso la combinazione assolutamente casuale di spore trasportate dal vento. In seguito, nel documentario, la donna piange: a quarantanove anni fare un figlio, anche con la PMA, è difficile oltre che doloroso. Chi l’ha curata in precedenza le ha fatto perdere tempo, per poi indirizzarla da uno specialista della fertilità quando era troppo tardi, dopo cinque tentativi di fecondazione assistita omologa (vale a dire realizzata senza fare ricorso a donazione di ovuli o spermatozoi da persone esterne alla coppia).
“La legislazione non può stare dietro alla varietà umana”, riconosce Bini in un altro passaggio: avere cura di questa varietà sembra essere l’orizzonte nel quale il senso della professione medica si realizza pienamente. Curare il benessere dei pazienti assume allora un significato più ampio: non si tratta soltanto di monitorare la salute fisica – quella che il filosofo Giorgio Agamben ha chiamato in Homo Sacer, riprendendo Aristotele, la “nuda vita” – ma di un benessere in senso pieno, della gioia vitale di stare al mondo. Che richiede un corpo in salute, certo, ma non si limita soltanto a questo.
I pazienti di Bini lo dimostrano con le loro richieste, spesso pronunciate a fatica, dopo percorsi dolorosi e radicali nell’autoconsapevolezza e nell’accettazione di sé: vogliono vedere allo specchio un corpo che gli somigli, poter ascoltare una voce più dolce o più roca che permetta loro di essere riconosciuti quali sono; vogliono essere donne o uomini o tutto quello che si può immaginare esista nello spettro tra questi due poli; vogliono allargare le loro vite e i loro amori facendo dei figli. Il medico ascolta, un po’ psicoterapeuta, consola, sdrammatizza: a un paziente trans sull’orlo delle lacrime, Bini risponde: “Se vuole piangere pianga, eh. Di questi tempi, fa molto maschio, non si preoccupi”.
La maggior parte delle riprese di questo documentario sono realizzate all’interno dell’ufficio ospedaliero dove Bini riceve i suoi pazienti: la camera, ferma in un punto, si alza e allarga l’inquadratura, che comprende inizialmente le mani e poi anche il busto, le spalle e i volti di chi ogni giorno entra ed esce da quell’ufficio. È un film da ascoltare, GEN_, ancora più che da guardare – avrebbe potuto funzionare benissimo anche come uno di quei podcast rilassati dove si ha l’impressione di origliare chiacchiere tra amici registrate di nascosto – perché quello che conta sono le storie che tutte queste voci riportano, e che assumono un’importanza ancora maggiore se ascoltate e comprese nel loro insieme, come racconto corale delle vite e delle angosce di una parte di popolazione che vive nei margini, poco seguita dai media, che la politica vorrebbe rendere invisibile e nascondere.
“I pazienti di Bini lo dimostrano con le loro richieste, spesso pronunciate a fatica, dopo percorsi dolorosi e radicali nell’autoconsapevolezza e nell’accettazione di sé: vogliono vedere allo specchio un corpo che gli somigli, poter ascoltare una voce più dolce o più roca che permetta loro di essere riconosciuti quali sono”.
GEN_ mostra certamente come la storia di vita di ciascuno di noi sia unica. Nemmeno chi condivide lo stesso DNA può vivere la stessa vita: non esistono due nascite uguali nemmeno per chi viene partorito dal corpo della stessa madre a pochi minuti di distanza, o con un intervento chirurgico standard; nessuna pelle è identica a un’altra pelle e dunque nessuna storia di vita può essere identica a un’altra. Ciascuno dei pazienti di Bini, a propria volta, porta nello studio del medico la propria, singolare, sofferenza: c’è una coppia che ha seguito per anni una terapia fallimentare per riuscire a fare un bambino, e che si rivolge a Bini per la procreazione medicalmente assistita pur sapendo di avere, per legge, ancora poco tempo, perché in Italia le donne possono ricorrere alla PMA solo fino ai 46 anni. “Noi lo facciamo lo stesso, i medici non sono dei legalisti: certe volte devono prendere delle decisioni tra cosa è giusto e cosa è legale”, risponde il medico senza alcuna esitazione. L’intelligenza e la delicatezza di questo documentario passano attraverso la scelta brillante di mostrare le vite dei pazienti del dottor Bini come ritratti fatti da pennellate rapide e imprecise: sappiamo di loro pochissimo, soltanto quello che raccontano nei brevi colloqui che possiamo vedere, ma vederli tutti insieme, nel flusso costante che entra ed esce dall’ospedale, possiamo vedere un’Italia diversa da quella che le narrazioni alt-right provano a descrivere come un Paese bianco, uniforme, eterosessuale. GEN_ mostra quanto larga sia la varietà di vite che esistono e che possono essere vissute, che insieme compongono un affresco che riesce ad evitare il rischio di essere retorico o pietistico, e si limita invece a essere una testimonianza schietta e onesta di cosa significhi, in Italia e in questo momento storico, avere bisogno di cure l’accesso alle quali viene reso difficile, quando non viene impedito, da una politica a cui interessa portare avanti la propria narrazione ideologica – su cosa siano gli uomini e le donne, su come debba nascere e da chi debba essere composta una famiglia – più che tutelare il benessere dei propri cittadini.
È bello allora, e non può che riempire di speranza, vedere come anche la pratica ordinaria della medicina – l’ufficio del dottor Bini è un piccolo ufficio di un ospedale di Milano, una zona tranquilla della città, non si curano le emergenze, non sentiamo mai il suono delle ambulanze – riesca a diventare uno spazio fondamentale di resistenza politica, di tutela dei cittadini, ricordandoci non solo quanto sia importante saper distinguere l’etica e ciò che è giusto dalla normatività della legge, ma anche quanto sia importante tutelare la sanità pubblica. A Bini si rivolgono persone di ogni provenienza geografica e di classe: uno dei suoi pazienti è un ragazzo trans egiziano che si trova in carcere, e si reca dal medico accompagnato da un secondino. Vediamo per una frazione di secondo l’inquadratura spostarsi sulla pistola alla cintola del militare: poi la camera si sposta su di lui, che si racconta al medico. Dice di aver sempre voluto diventare un uomo, e preferirebbe cambiare sezione del carcere dove si trova, si sentirebbe più a suo agio. Ecco, permettere a tutti di essere felici e a proprio agio, non soltanto essere in vita: la medicina raccontata in GEN_ si occupa di questo. Ed è, quantomeno, un barlume di speranza.
Martina Lodi
Martina Lodi è laureata in filosofia morale all’Université Panthéon-Sorbonne di Parigi e scrive per varie testate culturali.
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