Ivan Carozzi
04 Gennaio 2025
Gradus. Passaggi per il nuovo è un progetto di Reggio Parma Festival che vuole stimolare lo scambio e la ricerca, dando al tempo un valore diverso da quello della mera produttività.
Una cinepresa inquadra dall’alto la città di Parma. Sono le scene iniziali di uno dei film più inquieti e engagé degli anni Sessanta: Prima della rivoluzione, opera seconda di Bernardo Bertolucci, Si vedono, a volo d’uccello, i campanili, le cupole, i tetti grigi, il battistero in marmo rosa di Verona e il torrente che divide in due la città. Da qualche parte, in mezzo a tutti quei fabbricati visti dal cielo, ci dev’essere anche il tetto del Teatro Due, che all’epoca del film non era ancora un teatro, ma un palazzone in parte abbandonato e in parte adibito a uffici.
Il Teatro Due è nato dalla riconversione di quei vecchi spazi con l’occupazione portata avanti negli anni Settanta da un gruppo di teatranti (la Compagnia del Collettivo), occupazione poi regolarizzata nel 1980. È qui che nel 1983 si è esibita per la prima volta in Italia Pina Bausch, con l’ensemble del Tanztheater Wuppertal e il famoso spettacolo “Café Müller”. Oggi il Teatro Due è una realtà aperta alla cittadinanza per più di trecento giorni l’anno ed è, insieme al Teatro Regio di Parma e alla Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, una delle tre istituzioni socie del Reggio Parma Festival. Nel 2024 all’interno del Reggio Parma Festival è stato concepito “Gradus. Passaggi per il Nuovo”, progetto pensato con particolare cura e dedicato agli under 35, nato da una call to action che ha portato a una selezione di un gruppo di 32 artisti (14 progetti, di cui 6 stranieri e 8 italiani). I progetti sono stati stati esaminati dalle direzioni artistiche dei teatri, con l’individuazione finale di quattro spettacoli che verranno messi in produzione, per poi debuttare nell’autunno del 2025, nel contesto di Festival Verdi, Festival Aperto e Teatro Festival.
Tra i fogli e i documenti sparsi sulla scrivania di Paola Donati, direttrice della Fondazione Teatro Due, è presente anche un libro: Les nouvelles orientales di Marguerite Yourcenar. “È su una di queste novelle”, mi racconta, “che sta lavorando la regista greca Marilena Katranidu”. Insieme a Marilena Katranidu ci sono l’attrice Sara Bertolucci, la ricercatrice Dimitra Kandia e la scenografa e costumista Dido Gkogkou. Il loro è uno dei progetti selezionati da Gradus. Non lontano dall’ufficio di Donati, in uno degli spazi che formano il grande labirinto del Teatro Due, Marilena, Sara e Dido stanno discutendo le modalità della messa in scena, che sarà tra un anno
Anche il Teatro Due, mi conferma Paola Donati, è stato testimone del ritorno di un desiderio di senso, incontro e partecipazione, che ha ripopolato i teatri dopo il periodo della pandemia. “Sarebbe giusto istituire un blocco della produttività tutti gli anni”, dice Donati con una provocazione, “sarebbe utile per tornare ai fondamentali: le relazioni, l’incontro, il senso. Che poi è quello che trovi quando entri dentro un teatro”.
Un paio di fotogrammi di quel vecchio film di Bernardo Bertolucci, Prima della rivoluzione, che ha appena compiuto sessant’anni, sono impressionanti, proprio alla luce di queste parole. Nel film vediamo uno scorcio del centro di Parma, che appare affollatissimo, brulicante di esseri umani. L’enorme distesa di capannelli, disseminati fra piazze, slarghi e marciapiedi, è la quinta ideale per filmare la camminata di una giovane e fatale Adriana Asti, mentre si muove, sola, in una città di provincia gremita di uomini impegnati in chissà quali conversazioni, tutti che parlano e confabulano alla luce del sole. Il Bologna, che a giugno vincerà lo scudetto? Il governo di centro-sinistra con Moro Presidente del Consiglio? Bertolucci vuole rappresentare un microcosmo provinciale dove lo spazio pubblico è occupato in ogni centimetro da maschi borghesi, ma al tempo stesso ci consegna la cartolina di una città dove le persone s’incontrano all’aperto, a centinaia, discutono, si ritrovano, vivono pienamente la città. Anche perché, evidentemente, dispongono di una risorsa preziosa: il tempo.
L’ultimo lavoro teatrale di Marilena Katranidu era ispirato a La società della stanchezza (nottetempo, 2010), saggio del filosofo Byung Chul Han, che probabilmente troverebbe più di uno spunto di riflessione sulla Parma vitale e affollata immortalata da Bertolucci. Katranidu racconta di essersi interessata al testo del filosofo dal momento che la maggioranza delle persone che conosceva portava addosso i segni di un vago ma percepibile malessere. Erano esauste, sfinite o in sindrome da burn-out, vittime di quella stessa società della performance descritta da Byung Chul Han. Adesso, invece, per Gradus Marilena sta lavorando all’adattamento di un racconto della Yourcenar, L’ultimo amore del principe Genji, una storia che contiene anche un invito a riflettere sulla fragilità e l’evanescenza della memoria. “Anche la nostra memoria sta diventando qualcosa di sempre più fragile, affaticata da un eccessivo carico d’informazioni”, dichiara Katranidou. Sul palco saliranno sei musicisti e un coro composto da nove figure femminili, con le quali il pubblico potrà interagire Per Gradus (parola latina che significa gradino, ma anche passo, andatura) l’attrice Sara Bertolucci aveva presentato un proprio progetto. Si trattava di una esplorazione del “kulning” (tradizione di canto femminile legata alla transumanza e originaria della Scandinavia), ma in seguito Sara si è unita a Katranidu e alle altre, approfittando di una possibilità di dialogo e ibridazione incoraggiata dallo stesso Gradus.
“Da qualche parte, in mezzo a tutti quei fabbricati visti dal cielo, ci dev’essere anche il tetto del Teatro Due, che all’epoca del film non era ancora un teatro, ma un palazzone in parte abbandonato e in parte adibito a uffici”.
All’ultimo piano del Teatro Regio, dall’altra parte della città, Maria Vincenza Cabizza, compositrice, Lisa Capaccioli, regista e librettista, e Francesca Sgariboldi, scenografa, siedono attorno a un tavolo, prendono appunti e discutono di L’ultimo sorriso, l’altro lavoro vincitore di Gradus, come gli altri in scena nell’autunno 2025. Si tratterà di un’opera contemporanea, dove la storia trae spunto dalla memoria di un rito risalente a età pagane e precristiane, un rito rintracciabile in forme diverse, tanto in Sardegna quanto in Giappone. Consiste nell’accompagnare l’anziano genitore sopra una montagna e lassù abbandonarlo al proprio destino. L’ultimo sorriso intende riflettere sul tema della cura e del rapporto con la vita e con la morte nel tardo capitalismo, a partire da tradizioni e usanze di un passato remotissimo. In coerenza con le suggestioni pensate per il libretto, la scenografa Francesca Sgariboldi medita d’ispirarsi per la messa in scena al deserto cileno di Atacama, un luogo dove si sono alternati nel tempo usi contraddittori dello spazio e della natura: il deserto come immane fossa comune per la sepoltura dei cadaveri dei dissidenti politici, vittime delle purghe del regime di Pinochet, e il deserto come oscena e immensa discarica destinata ai rifiuti dell’industria della moda e del fast fashion.
Per dipanare tutte le questioni ancora aperte, per scrivere un libretto, una musica o disegnare una scena, serve tempo. Luciano Messi, sovrintendente della Fondazione Teatro Regio di Parma, ci tiene a sottolineare l’attenzione che “Gradus” ha voluto riservare a questo bisogno. Non tenere il fiato sul collo agli artisti e lasciare loro abbastanza agio per perdersi e ritrovarsi, per eventualmente fallire e proseguire il lavoro con maggiore consapevolezza. “Sono le condizioni preliminari per lavorare bene e trovare una propria voce”, dichiara Messi.
Le nuove generazioni di artisti sono spesso cresciute in una originale e interessante condizione di vuoto e di autonomia rispetto alla tradizione e ai linguaggi che le hanno precedute. Al tempo stesso, la conoscenza dei percorsi, delle storie, dei tentativi e delle sperimentazioni che si sono succedute alle loro spalle, nel Novecento, offre un’occasione importante di maturazione e arricchimento. Perciò all’inizio del percorso di Gradus, tutti i selezionati hanno avuto la possibilità di seguire le lezioni di alcuni maestri e professionisti della scena (dal regista Romeo Castellucci, il fondatore della Societas Raffaello Sanzio, al compositore Heiner Goebbels), ma anche di partecipare a una serie di incontri apparentemente estranei alla disciplina, nella convinzione che lo sguardo debba nutrirsi di contenuti quanto più eterogenei. E così i partecipanti a Gradus hanno discusso di modelli economici alternativi con l’economista Clara Mattei, del valore dell’errore nella ricerca scientifica con il fisico della materia Piero Martin e del rapporto tra filosofia e studio della voce umana con la filosofa e maestra del femminismo Adriana Cavarero.
Roberto Fabbi è il curatore artistico della Fondazione I Teatri di Reggio Emilia. Seduto nel suo ufficio, nello splendido Teatro d’opera Romolo Valli in piazza 7 Luglio a Reggio, Fabbi prova a rispondere a un tema emerso durante il dialogo con la compositrice Maria Vincenza Cabizza. Cabizza rifletteva su quali possono essere le strade e gli strumenti per riavvicinare il pubblico al linguaggio spesso ostico e privo di compromessi di tanta musica contemporanea scritta nel Novecento. Fabbi racconta di aver ricevuto il proprio imprinting quando era ancora un ragazzino, negli anni Settanta, assistendo ai concerti di “Musica Realtà”. “Musica Realtà” fu una manifestazione che si tenne fra il 1973 e il 1978 a Reggio Emilia e che si caratterizzò per il tentativo di portare la musica classica e la colta contemporanea nelle fabbriche, nelle scuole e nelle palestre, alla ricerca di un pubblico nuovo, storicamente escluso: gli operai e le classi meno abbienti. L’esperimento riuscì, grazie anche alla collaborazione della giunta comunista dell’epoca e al sindaco Renzo Bonazzi. Tra gli artisti coinvolti in “Musica Realtà”, racconta Fabbi, vi erano nomi di prestigio come Claudio Abbado, Maurizio Pollini e Luigi Nono. “Non ci fu niente di calato dall’alto, di aristocratico o accademico, nella progettazione di Musica Realtà. Anche grazie alla bellezza di quell’esperienza, ho maturato un credo: la musica non dev’essere feticizzata, ma semmai entrare in relazione con altri linguaggi, restando un fatto popolare e democratico della vita sociale e civile. Solo così acquista senso. Questa è la mia bussola e il mio modo di vedere. Altrimenti la classica e ancora di più la contemporanea diventano soltanto un muro. Aggiungo una considerazione: il pubblico non va inseguito. I gusti del pubblico spesso sono sovradeterminati da strumenti molto più potenti di quelli che usiamo noi, come la tv e i social network. Il compito del teatro dovrebbe essere di formare il pubblico e di sollecitarlo, amichevolmente”.
Forse l’idea di messa in scena alla base di The Sun Has Risen to its Full è in qualche sintonia con la filosofia progettuale esposta con passione da Roberto Fabbi. The Sun Has Risen to its Full è il titolo dell’opera di teatro strumentale a cui stanno lavorando tre artisti rumeni selezionati da “Gradus”: la compositrice, violinista e scrittrice Sânziana Dobrovicescu, la scenografa Alexandra Budianu e l’artista sperimentale Mihai Codrea. Lo spunto per il lavoro viene da Le onde, il romanzo più coraggioso e antinarrativo di Virginia Woolf. Il pubblico è invitato a salire sul palcoscenico, dove si ritrova così in una speciale vicinanza e intimità con i musicisti. L’idea non è solo funzionale a un avvicinamento e a un maggiore coinvolgimento del pubblico. È qualcosa di più e ha a che fare con l’interpretazione del testo. “Proprio come nel romanzo di Virginia Woolf i confini tra realtà e finzione sono particolarmente vaghi e confusi l’uno nell’altro”, afferma Mihai Codrea, “così l’idea di portare il pubblico sul palco, cioè il luogo della finzione, allontanandolo dalla platea, ovvero il luogo in cui si assiste a una finzione, risponde al tentativo di restituire la complessa natura del testo di Virginia Woolf”.
Il teatro Ariosto di Reggio Emilia si trova dall’altra parte di piazza 7 Luglio. Nella grande sala all’ultimo piano, attorno a un tavolo siedono Gaetano Palermo e Michele Petrosino, regista e coreografo, Giuliana Kiersz e Fernando Strasnoy, librettista e compositore, entrambi di origine argentina. Il tavolo è ingombro di computer, fogli vergati fitto fitto e agendine per gli appunti, mentre accanto a un pc spicca una copia del saggio “La voce umana” di Giorgio Agamben. A qualche metro dal tavolo campeggiano nel vuoto, un po’ misteriosi, due oggetti incongrui, che non ti aspetteresti: una coppia di tapis roulant.
Il lavoro che i quattro metteranno in scena tra un anno si chiamerà Fugues – The Art of Running. “I primi tappeti movimentati, insomma i primi tapis roulant”, spiega Gaetano Palermo, “nascono nel contesto della sperimentazione ingegneristica, ma trovano applicazione anche come strumento di tortura. È molto interessante notare come l’aerobica e il fitness siano in qualche modo collegati ad ambiti di questa natura”.
Fugues – The Art of Running è un progetto di opera-performance basato sulla pratica della corsa come metafora di una paradossale condizione esistenziale: quella di chi si muove pur restando fermo. Il tapis roulant diventa la macchina totem del tardo capitalismo, l’epoca in cui gli esseri umani hanno imparato ad autosfruttarsi e le società hanno più o meno consapevolmente accettato l’onere della performance continua. La forma musicale della fuga barocca, accompagnerà l’esibizione di cinque cantanti lirici, costretti come vittime sacrificali a correre sul posto e a esplorare i limiti dell’esecuzione vocale.
“‘Fugues – The Art of Running’ è un progetto di opera-performance basato sulla pratica della corsa come metafora di una paradossale condizione esistenziale: quella di chi si muove pur restando fermo”.
“Alla base di Gradus”, spiega Paolo Cantù, direttore della Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, “c’è naturalmente l’intenzione di dare un sostegno alle generazioni più giovani impegnate nel campo della ricerca teatrale e artistica. Ma a monte c’è un pensiero che ispira tutta la visione di questa iniziativa. Abbiamo progettato Gradus a partire da una consapevolezza riguardo a una condizione di iperproduttività che appartiene anche al nostro mondo, quello della ricerca artistica e teatrale. Che cosa determina questa iperproduttività? Che io ti posso anche sostenere, come artista, ma tu non puoi sbagliare mai. Con Gradus, invece, abbiamo voluto prenderci la libertà di fare le cose un po’ diversamente, lasciando più tempo e respiro a chi è impegnato in una ricerca, attribuendo all’errore, all’inciampo, alla battuta d’arresto, un valore, una funzione preziosa, quella che consente al progetto di trovare la propria strada e all’artista di riconoscersi pienamente in ciò che fa. L’artista affermato può permettersi di sbagliare uno spettacolo. Il giovane artista, invece, non può sbagliare. E questa è la cosa tragica e il vero errore di sistema che stiamo provando a disinnescare”.
Ivan Carozzi
Ivan Carozzi è giornalista, scrittore e autore tv. Ha curato la raccolta Che traccia hai scelto? (Utet, 2023).
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