Nicola H. Cosentino
Riconoscere un vip nella folla dà sempre un sottile piacere, e non è neanche così difficile. Basta frequentare i luoghi giusti, allungare il collo e sentirsi fortunati. Ma cosa fare quando la fortuna è troppa e la realtà supera la fantasia?
Come forse saprete, esiste una foto che mi ritrae accanto ad Al Pacino. Non lo sapete? E ve lo dico io: esiste. E giacché esiste, mentre molte altre non esistono, vorrei usarla come punto di partenza per dire una cosa sulla verità e la verosimiglianza, e in particolare su quelle storie vere che purtroppo sembrano finte, e quindi sono inutili, non si possono raccontare, le dobbiamo buttare o dimenticare.
Per un periodo, all’inizio dei vent’anni, ho frequentato con costanza la Mostra del Cinema di Venezia, ospite di un conoscente che abitava in Laguna. All’epoca volevo fare lo sceneggiatore, e il mio mito era Charlie Kaufman, mentre questo conoscente voleva fare il regista, e il suo mito era Bruce Springsteen (che col cinema non c’entrava niente, a parte Streets of Philadelphia, ma lui aveva un mito unico e io uno per ogni disciplina, che poi sono le due strade della devozione, monoteismo e politeismo, lui era monoteista, io politeista). Comunque, mettevo da parte tutti i soldi che non spendevo altrimenti e andavo a Venezia per due o tre giorni. Poi tornavo a casa e distribuivo a tutti i miei amici autografi falsi di attrici bellissime: To Manuel, xoxo Scarlett Johansson; Hi Davide! Natalie Portman; To Marco, with love, Charlize Theron. Sempre in quel periodo – oltre a vedere film spesso molto belli e molto attesi, e a vantarmi di averli visti in anteprima – collezionavo, istigato dalla nascita dei social network, autoscatti con personaggi famosi.
Se mi aveste cercato su Facebook tra il 2008 e il 2012, avreste ammirato una galleria di foto da fare invidia alle trattorie romane, cioè io sorridente e benvestito che invecchio accanto a star di pregio: Quentin Tarantino, Kate Winslet, Jessica Chastain, Carlo Verdone, ecc. Era una febbre: la Febbre dei Personaggi Famosi. Arrivavo al Lido e ok, guardavo i film, applaudivo, mi commuovevo, a volte mi incazzavo, ma poi, appena fuori dalle varie sale, allungavo il collo alla ricerca di bellezze ultraterrene, incarnazioni accessibili e per una volta disturbabili di agenti segreti, supereroi, imperatrici, dee. Se la strada mi lasciava inappagato, entravo nell’Hotel Excelsior e surfavo per ore dalla hall alle terrazze, dal cocktail bar alla spiaggia privata, dalle toilette al famoso molo a cui attraccano le star con la mano tremante sulla fotocamera per collezionare quante più foto potessi.
“Se mi aveste cercato su Facebook tra il 2008 e il 2012, poco prima che il mio account sparisse, avreste ammirato una galleria di foto da fare invidia alle trattorie romane, cioè io sorridente e benvestito che invecchio accanto a star di pregio”.
Al Pacino mi piovve fra le braccia per caso, davanti a un ascensore dell’Excelsior. Per anni, la foto che ne scaturì – benché brutta e mossa, per via delle mani che tremavano – fu il mio più grande successo, l’argomento con cui introdurre molte conversazioni e chiudere ogni disputa sul cinema: avrei sempre avuto ragione io, perché ero io ad avere una foto con uno dei più grandi attori di tutti i tempi. Ancora oggi, ogni volta che un conoscente mi racconta di aver incontrato, che ne so, Lazza a Calvairate, lo ascolto, sorrido, mi congratulo e poi, a occhi bassi, sgancio la bomba: “Ma tu lo sai, sì, che io ho una foto con Al Pacino?”. Nessuno ha mai potuto rilanciare, perché il Papa non vale (basta andare alle udienze del mercoledì), il selfie con Mattarella sa un po’ di vilipendio del Capo dello Stato e più in alto di Al Pacino, francamente, chi c’è? Il fantasma di Elvis? Il vino delle nozze di Cana?
(Altri vip che nella mia vita ho avvistato e con cui non ho scattato foto: Paolo Sorrentino, in un’era artistica di molto precedente a La grande bellezza, che cammina con la figlia in piazza Dante, a Roma. Lo vedo e provo a fare del mansplaining alla ragazza che è con me: “Guarda, il grande Matteo Garrone”; Morgan, in aeroporto a Lamezia Terme, inquieto perché ha perso la valigia, mentre la valigia, stando a una targhetta con su scritto “Marco Castoldi in arte Morgan”, ruota solitaria sul nastro trasportatore: la sollevo dal nastro e gliela porto, e lui per gratitudine mi invita a un suo concerto (gratuito); Monica Bellucci, su cui non ho molto da dire se non che per me è stato come vedere la control room della creazione, come agguantare le maniglie dell’amore di Dio, come essere colpito all’inguine da un frammento astrale del Big Bang, al punto che non mi ricordo neanche dove l’ho incontrata, Monica Bellucci, ma so che l’ho incontrata, e che, come scrisse Walt Whitman immaginando quel momento, io che incontro Monica Bellucci e Monica Bellucci che inconsapevolmente incontra me, eravamo insieme, tutto il resto l’ho scordato; lo stilista Valentino Garavani che si protende verso l’orinatoio accanto al mio nel bagno di un teatro, e io che, una volta finito, spero non si lavi le mani per poter coniare l’espressione “Rozzo Valentino”. Ma niente, se le lava; Patrizio Rispo di Un posto al sole dentro un bar nel centro di Napoli che beve un caffè e commenta in dialetto che è molto buono, una cosa che se la racconti ti accusano di voler stereotipare la napoletanità, e, sulla stessa linea, la linea del banalissimo, Miguel Bosé che costeggia la Plaza de Toros di Siviglia, uno stereotipo al cubo; i Måneskin, in treno da Roma a Milano. Questo però è un tasto dolente, perché, quando li incontriamo, i Måneskin hanno vinto l’Eurovision da circa un mese, sono più che star, sono eroi nazionali, e Alessandra, mia moglie, che pure è una persona molto discreta, una foto la vorrebbe, visto che stanno a tre sedili di distanza. Ma io ormai sono impermeabile a queste tentazioni, le considero cafonate, quindi quando Alessandra mi sussurra “Secondo te dobbiamo chiedergli la foto?” – usa dobbiamo, sì, perché fare questa foto è un imperativo sociale, rientra fra gli oneri derivanti dall’avere un profilo su Instagram – io rispondo, fermo come un cavaliere crociato: “No, non facciamo come farebbero tutti”. E poi, strizzando l’occhio: “Siamo fuori di testa, ma diversi da loro”. Lei ancora non me lo perdona, sia il no sia, comprensibilmente, la battuta).
L’incontro migliore di tutti, però, risale al 2017, quando questa cosa delle fotografie cominciava già a imbarazzarmi molto, e infatti avevo smesso di collezionarne. Quell’anno, al Lido, l’ossessione collettiva, e quindi anche la mia, era Madre! di Darren Aronofsky, con Jennifer Lawrence protagonista. Il giorno della prima, in attesa di vedere il film, ero su una poltrona del bar dell’Hotel Excelsior, da cui conversavo telefonicamente con Alessandra di spurghi e nottolini (avevamo un guasto alla caldaia). A un certo punto fui attratto da un vociare. Mi alzai, lo seguii e raggiunsi il molo, gremito di fan e fotografi per l’attracco del cast di Madre!. Nel tentativo di migliorare la mia visuale, oltrepassai furtivamente una piccola siepe, aguzzandomi tra le fronde e la parete dell’hotel, per poi trovarmi inaspettatamente di fianco a Jennifer e la sua claque, in marcia verso l’interno. Nella confusione, tra gli applausi e i flash, fui inglobato nel corteo e scortato dalla security dentro un privé, dove brindai all’uscita del film insieme al cast e ad altri sei o sette americani sconosciuti.
Nessuno di loro, a oggi, mi ha denunciato alle autorità competenti. Forse grazie alla mia strategia di mimetizzazione, che consisté nel proseguire impassibile la telefonata. Annuire serio col cellulare all’orecchio mentre tutti intorno festeggiavano, evidentemente, mi aveva dato l’aria di essere qualcuno, magari un membro dello staff del Festival, o un delegato dell’Hotel, o un ospite privato di Jennifer (per tutti quelli che non erano lei, o suoi ospiti). Il delitto perfetto, insomma, di cui mi ero macchiato involontariamente, senza mentire né disturbare, solo grazie all’ennesima siepe che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude e alla mia innata capacità di passare inosservato, nonostante i 186 cm d’altezza. In ogni caso fu lì, nel privé dell’Hotel Excelsior del Lido di Venezia, al cospetto di Jennifer Lawrence, che io e Alessandra decidemmo di intervenire sulla nostra caldaia con una disotturazione a pressione tramite sonda, del costo stimato di 260 euro.
Il punto è che all’infuori di mia moglie, che non vale, nessuno a cui l’abbia raccontata ci ha mai creduto, a questa storia. Già quando arrivo alla parola “bodyguard” la gente mi guarda strano, inarca le sopracciglia, fa una smorfia che significa “Che cazzata”. E io odio che mi si accusi di dire cazzate; odio che si pretendano prove, che mi si chieda se una storia è vera o no. Pertanto, dopo molte delusioni, ho deciso che lo champagne con Jennifer Lawrence sarà estromesso dal mio repertorio di fatti interessanti e riposto nella teca delle cose dimenticabili, a contendersi la polvere con la ricetta del banana bread. Quindi, ecco, lo poso qui, lo sigillo per sempre, ve lo regalo. State leggendo il suo necrologio.
Certo, la cosa mi addolora un po’: stravediamo tutti per l’aggettivo “autentico”, ma a cosa serve, questa autenticità?; su che base poggia la nostra idea di realismo, se per risultare efficace questa mia storia vera richiede di essere ridotta a verosimile, cioè impoverita, artefatta per difetto? Io non ci dormo la notte: tremo all’idea che prima o poi, per adeguarsi al nostro scetticismo, la realtà smetta di offrire momenti eccezionali. (Peraltro, scusatemi: perché mai di una cosa vera molto bella o molto interessante si dice “sembra finta”, mentre di una cosa finta altrettanto bella si dice “sembra vera”? Decidiamoci: per essere bella, una cosa, una storia, dev’essere vera o dev’essere finta?)
…nell’attesa di capirlo, visto che ormai sono qua e ho la vostra attenzione: se tra i lettori di questa incolpevole rivista c’è qualcuno che conosce Damiano dei Måneskin, vorrei fargli recapitare il seguente messaggio.
“Nessuno di loro, a oggi, mi ha denunciato alle autorità competenti. Forse grazie alla mia strategia di mimetizzazione, che consisté nel proseguire impassibile la telefonata”.
Ciao, Damiano. Una volta avrei potuto disturbarvi e non l’ho fatto, perché sono un signore. Ma siccome essere un signore non mi ha condotto che a rinunce e frustrazioni, approfitto di questa incolpevole rivista per dirti che mi pento, che ho sbagliato, che la volevo, quella foto. Damiano, ti parlo da uomo innamorato a uomo innamorato: ho costretto Alessandra, un’amante della realtà, ad avere anche lei, come me, un aneddoto reale ma irrealistico, e cioè un bel ricordo inutile, una freccia troppo pesante perché vada a segno. Quindi ti prego, favoloso artista, bandiera dell’Italia nel mondo: se ripassate da Milano, potreste, per cortesia, avvisare, riservarvi un minuto per noi, condividere la posizione, così ci facciamo quel selfie e la freccia finalmente fende l’aria, l’inutile diventa utile, il romanzo – vivaddio, saranno tutti contenti – diventa realtà?
Ricambio con pagina di quaderno autografata: To Damiano, with love, Julia Roberts. Autentica, sì. Croce sul cuore.
Una versione precedente di questo testo è apparsa nel 2023 su «Finzioni», il mensile culturale di «Domani», che ringraziamo.
Nicola H. Cosentino
Nicola H. Cosentino è scrittore, critico letterario e editor di Lucy. Collabora con «La Lettura». Il suo ultimo romanzo è Le tracce fantasma (Minimum Fax, 2022).
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