Ester Viola
Trent’anni fa, "Quattro matrimoni e un funerale" consacrava Hugh Grant come l’anti-Brad Pitt: timido e imbranato, ma anche brillante e bellissimo. Oggi, la sua stella è ancora splendente, e il suo umorismo cinico un faro nel buio.
Dev’essere stato Alberto Arbasino, quel giocoliere insigne, a diffondere nei giornali e nei reportage il paradigma fondamentale che impronta e regola la società culturale, cinematografica, teatrale, filosofica e, insomma, generale e totale della nostra scena pubblica. In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di “bella promessa” a quella di “solito stronzo”. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di “venerato maestro”.
Edmondo Berselli , Venerati Maestri
Il paradigma è sempre lì, immortale, la variante è che non è più solo italiano e che ora si comincia dalla fase 2: soliti stronzi.
Lo sanno bene gli scrittori: esiste una sola storia, puoi solo migliorare vagamente mentre la riscrivi. Quella storia è una pece orrenda, ti si attaccherà addosso, e nessuno vorrà sentirne un’altra. I bambini di sera chiedono sempre la stessa fiaba, da adulti non si cambia granché.
Allargata la forbice artistica del concetto, è lo stesso motivo per cui gli attori avranno un solo personaggio disponibile per la memoria collettiva del pubblico. Distinguersi troppo è una iattura, lo sa Ronn Moss che è sempre Ridge di Beautiful e ha provato a rompere l’incantesimo lasciando il cast, ma gli dèi hanno punito la sua tracotanza ed è finito in Puglia, vive in masseria e ha un chihuahua. Bisogna fuggire dai personaggi troppo riusciti finché si è in tempo: George Clooney ha fulminato il dottor Ross di ER prima che fosse troppo tardi. Sarah Jessica Parker alla fine – siccome i soldi guadagnati malvolentieri sono pur sempre soldi – ha resuscitato Carrie da vecchia e ha fatto quello che fa un buon imprenditore: cura il core business. Se tuo nonno e tuo padre hanno fatto miliardi di lire con le mattonelle di travertino ma tu sei un ragazzo con studi economico-tech e master in America, conviene anche a te continuare con le mattonelle di travertino. Il resto, quel che conta nella vita per sentirsi contenti, cioè i tentativi, è sfida alla sorte. E con l’economia non attacca, per il successo da banco vale la regola: non usare il coraggio, quando basta l’intelligenza.
Dopo la premessa generale, iniziamo col protagonista della storia: Hugh Grant, che comparve negli anni Novanta direttamente con matricola di solito stronzo.
Solito stronzo
Quattro Matrimoni e un Funerale, il film che lo rese famoso, fu una cosa enorme quasi all’improvviso, A quello seguirono sceneggiature una dietro l’altra, identiche, ogni anno. Era quando il film di successo diventava videocassetta, e la videocassetta si noleggiava al venerdì sera, e poi se il film ti piaceva tantissimo la compravi pirata, per rivederla ancora, a sbafo. La consumazione del prodotto dell’industria culturale era diversa, più ordinata, non frenetica. La fruizione non era istantanea e nevrotizzata – binge watching, guardo una serie in una notte – ma progressiva e continuativa. Le serie TV duravano decenni, i film si riguardavano. Tutto sedimentava.
Quattro matrimoni e un funerale apparteneva al genere commedia romantica, oggi categoria cadavere perché la gente non sta più dietro a quelle traiettorie immaginarie: la vita è una cosa agra, è un gioco a perdere, non ci fregate più con gli incastri di serendipità. L’amore non è una credenza di marmellatine.
Insomma, in quel regno di Oz e di incredulità sospesa che erano gli anni ‘90, apparve Hugh Grant. Era l’anti Brad Pitt, meno convincente, senza muscoli, più naturale, più europeo. Non ce ne accorgemmo, che non era mai passato uno più bello di lui al cinema. Denti non americani, quelli di sotto un poco storti, sorriso impacciato-malinconico-poi-dolce, lo sguardo basso, tanti capelli flosci senza una riga precisa, capelli da maschio che non si tagliano col rasoio. Quando parlava faceva un balbettio da timido. Autoironia da sfortunello in amore. Ci credemmo.
“Lo sanno bene gli scrittori: esiste una sola storia, puoi solo migliorare vagamente mentre la riscrivi. Quella storia è una pece orrenda, ti si attaccherà addosso, e nessuno vorrà sentirne un’altra”.
All’epoca della commedia romantica io c’ero e posso spiegare cosa voleva dire uno così. Uno così era il protagonista buono, quello che ti aspettava, sarebbe arrivato a salvarti. Salvava Julia Roberts (da che? Se stessa) in Notting Hill. Per dieci anni era lui la commedia romantica, il “ragazzo della porta accanto”, solo che la porta dava su un cortile di Chelsea, coi fiori di glicine e quasi cinquantamila sterline al metro quadrato. Servì un arresto per atti osceni con una prostituta sul Sunset Blv di Hollywood: Hugh Grant era uno che non sapeva neanche in che alberghi andare e con chi?
Come abbiamo fatto a pensare che il più affascinante del mondo fosse un imbranato adorabile che inciampa nei sentimenti, non si sa. Al consumatore degli anni ‘90 davi da bere tutto, molto più di adesso.
I primi tempi di Hugh Grant, quelli d’oro, da solito stronzo, sono stati un archetipo ininterrotto per quindici anni: il personaggio era muffito, a un certo punto. Charles di Quattro Matrimoni e un Funerale infila gaffes e non ride mai, in Notting Hill William Thacker è un libraio moscio. Solito uomo alla ricerca dell’amore senza saperlo. Mr. Right, fascino dell’imperfetto che non si impone. Quintali di irrealtà che rovinarono noi e lui.
Bella promessa
La misura dovette essere colma quando Hugh Grant accettò il ruolo anche in Bridget Jones. Sempre commedia romantica, ancora un successo mondiale, ma almeno nella parte dello stronzo. Il diritto autoriale di ogni narcisista viene da lì, dal capufficio Daniel Cleaver, che le mandava messaggi al lavoro, approfittava, si divertiva. Finalmente Hugh Grant è quello da evitare, e parecchio convincente. È meglio crudele che gentile, Hugh, e se ne accorgono tutti. Il padre morale di ogni Nino Sarratore successivo, solo che in quegli anni le entelechie non generavano traumi, slogan su Instagram e scritte accusatorie sulle borsine di tela.
La svolta in Brillante Promessa di Hugh Grant non è stata comoda e non è stata fatta per gradi, dopo una decina di anni incerti, senza copioni precisi, è servito Paddington 2. Wonka. Un mezzo cartone animato. “Sono nella fase ‘freak show’ della mia carriera. Interpreto i cattivi, gli psicopatici, i disadattati, i pervertiti. Ora pure gli Umpa Lumpa” diceva lui, come fosse stato uno spasso, evadere dal blockbuster.
E alla fine è arrivata The Undoing, dove la parte è quella del marito mezzo squilibrato. Soggetto magnetico, scuro. È cambiato il blu degli occhi: ora dice disillusione e per favore signori, ridere, anche di disgusto. Lo spettatore ne vuole ancora, Hugh è meglio adesso che trent’anni fa. Tutti lo cercano.
Venerato maestro
Ma il meglio doveva ancora venire. Le interviste. Si detesta, non prende sul serio una virgola di sé, è un intellettuale spietato. Tratta la sua carriera come un inutile fossile. A «Vanity Fair», dove l’intervistatore gli chiede di Notting Hill: “ogni volta che cambio canale e mi capita quel film davanti mi chiedo sempre di quel personaggio: ma perché è così senza palle?”
Commenti su Colin Firth e Bridget Jones. “Fanno bene a chiamare di nuovo Colin Firth nei sequel. È un atto di carità.”
Ormai sono un genere social, infinite visualizzazioni, replicate nelle stories instagram per il trionfo finale.
La migliore è nel programma di Drew Barrymore, era un’uscita promozionale per Wonka, c’erano lui e Timothée Chalamet su un divanetto.
Drew Barrymore a un certo punto tira fuori un taccuino rosa e una penna con un cristallo – il suo diario della gratitudine, spiega – e lo dà da firmare a Timothée Chalamet.
Postilla: il diario della gratitudine è una trovata della psicologia contemporanea secondo cui – per tirarti su l’umore – ogni sera dovresti obbligarti a fare i compiti su un quaderno e scrivere una paginetta delle cose di cui sei riconoscente ai fati.
E così Drew Barrymore si rivolge a Hugh Grant chiedendogli se ne ha uno pure lui, di diario della gratitudine.
“La misura dovette essere colma quando Hugh Grant accettò il ruolo anche in Bridget Jones. Sempre commedia romantica, ancora un successo mondiale, ma almeno nella parte dello stronzo. Il diritto autoriale di ogni narcisista viene da lì, dal capufficio Daniel Cleaver”.
“Don’t be àbsurd” la secca lui, accento inglese finissimo che restituisce la traduzione corretta: ‘non essere ridicola’ sottende un “che cazzo dici?” perfetto, pieno, da grande attore del passato.
“Ho la lista delle cose che odio. Va bene?”
Lì ho pensato che questo ritorno di Hugh Grant è proprio il sollievo che serviva. Non importa che sia solo la vecchia Cool Britannia o una risposta a questo millennio come lo volevo io (perfido e brillante) e non come è diventato (ottuso e moscio). Forse facciamo in tempo a rianimare questo spirito del tempo.
Ester Viola
Ester Viola è avvocata, giornalista di costume, scrittrice. Il suo ultimo libro si intitola Voltare pagina. Dieci libri per sopravvivere all’amore (Einaudi, 2023).
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