Hulk Hogan era il mio eroe. Poi sono diventato adulto - Lucy sulla cultura
articolo

Carlo Carabba

Hulk Hogan era il mio eroe. Poi sono diventato adulto

26 Luglio 2025

Con la morte di Hulk Hogan se ne va per molti un eroe dei giorni della giovinezza. Ma diventare grandi significa anche realizzare che i propri idoli non possono reggere all’immagine idealizzata che abbiamo di loro.

È curioso, da quando si è diffusa la notizia della sua morte, varie persone mi hanno scritto, come se si fosse trattato di un mio parente. Alcuni erano solo a conoscenza della mia fascinazione per il wrestling, altri sapevano benissimo che Hulk Hogan era stato il mio eroe da bambino.

Come wrestler, non era particolarmente tecnico, non sapeva fare acrobazie o prese spettacolari, non era bello, non era giovane, o forse lo era ma non lo sembrava.

I suoi incontri seguivano tutti un canovaccio fisso, simile alla formula dei Rocky (e tutto sommato di ogni narrazione supereroica, dall’Uomo Ragno a Dragonball). Messo alle strette da un avversario apparentemente invincibile, Hulk Hogan subiva violenze di vario genere: soffocamenti, uomini di centocinquanta chili che gli saltavano sul petto, fino a sembrare sul punto di svenire. Poi, mentre il suo viso, spesso, si copriva di sangue (non ho mai capito se fosse un trucco, o quantomeno un voluto effetto grandguignolesco, oppure qualcosa che semplicemente capitava, nel fuoco dello spettacolo), improvvisamente reagiva. Scuoteva la testa, sbuffava, diceva “no no no no no no”, o forse lo diceva Dan Peterson in sua vece, ma l’effetto era uguale. I colpi che riceveva come d’incanto non facevano più male, e lui, come Braccio di Ferro dopo che ha mangiato gli spinaci, era in grado di compiere imprese mirabili, come sollevare e schiacciare a terra uomini immensi, montagne umane come André the Giant o Terremoto.

E io ero felice come per un gol di Roberto Baggio o una volata ristretta di Gianni Bugno, gli altri miei eroi sportivi.

Perché Hulk Hogan era buono. Si era tra la fine degli Ottanta e l’inizio dei Novanta e gli antieroi stavano per prendere il posto degli eroi nel cuore di bambini e ragazzi, forse lo avevano già preso, e il cambiamento sarebbe avvenuto di lì a poco anche nel wrestling nella cosiddetta Attitude Era, con l’ascesa di Undertaker, di The Rock, di Stone Cold Steve Austin. Ma io, per disposizione naturale, per obbedienza ai precetti sociali o per qualche altra mia turba intrapsichica che sarebbe lungo qui riassumere o indagare, preferivo Hulk Hogan a Ultimate Warrior, Topolino a Paperino, Superman a Batman, l’Uomo Ragno a Wolverine.

Questa bontà in Hogan si colorava di tinte patriottiche, a cominciare dalla theme-song che ne accompagnava l’ingresso trionfale dagli spogliatoi al ring, intonando, mentre la folla lo acclamava, “I am a real American”. I suoi feud (rivalità decise dagli autori che durano in genere qualche mese, fino a un grande evento dove, in un senso o nell’altro, si risolvono) assumevano spesso i contorni di scontri politico-culturali. Prima contro l’iraniano Sceicco di Ferro (erano i tempi degli ostaggi all’ambasciata americana di Teheran) e il russo Nikolai Volkoff (i due insieme vinsero anche il titolo di campioni di coppia con il nome “Legione Straniera”, perché nel wrestling, dove nulla è mai definitivo, vincono spesso anche i cattivi — Volkoff, che ovviamente non si chiamava così, era di Spalato, mentre lo Sceicco era davvero iraniano). Poi, dopo il disgelo, la caduta del Muro e via dicendo, Volkoff si convertì all’American Way of Life, divenne uno dei grandi alleati di Hogan e insieme combattevano contro il Colonello Mustafà, perfido militare iracheno fedele a Saddam Hussein, che poi altri non era che lo stesso Sceicco con una nuova identità fittizia (il cambio di gimmick non è raro nel wrestling) e contro Sgt. Slaughter, un marine traditore che non aveva accettato la fine della Guerra Fredda.

Spesso Hogan era supportato, in queste battaglie per la difesa della Patria, da Hacksaw Jim Duggan, un adorabile hillbilly strabico che brandiva minaccioso una bislacca tavola di legno, mentre il pubblico incitava lui e Hulk ritmando in coro “U.S.A” “iu – ess – ei”, formula magica che io e i miei amici ripetevamo quando mettevamo in scena, non senza pericolo, i combattimenti di wrestling nelle nostre camerette (doveva essere pratica abbastanza comune perché pochi anni dopo le trasmissioni di wrestling erano interrotte da disclaimer che intimavano gli spettatori a non imitare quello che vedevano sullo schermo: “Don’t try this at home”).

Amavo quell’America che sognavo di attraversare da costa a costa come avevo visto fare a Paperetta Yè Yè, e che mi aveva dato i miei fumetti preferiti, i miei film preferiti, i miei cantanti preferiti, i miei telefilm preferiti, e il mio eroe, un culturista dai baffi improbabili che si batteva per la difesa del sogno americano.

Più tardi, oramai cresciuto, ho scoperto che Hulk Hogan, al secolo Terence Gene Bollea, era razzista (aveva fatto commenti terribili sulla vita sessuale della figlia), omofobo (a giudicare dalle parole dette durante un sex-tape divulgato senza il suo consenso – e per il quale fu risarcito con una trentina di milioni di dollari – che lo ritraeva con la moglie di uno dei suoi più cari amici) e di estrema destra. Circa un anno fa ha iniziato a girare un video in cui lui (ovviamente nei panni di Hulk, non come Terence), una settimana dopo l’attentato a Trump, nel corso di una convention MAGA, si strappa col gesto che abitualmente compiva sul ring nel momento della riscossa, una maglietta con la propria immagine per mostrarne sotto una rossa con su scritto Trump-Vance, urlando come un invasato “Let Trumpamania rule again Let Trumpamania make America great again” (Hulkamania era, per dirla impropriamente, il sentimento che provavano i suoi fan ai tempi d’oro).

“È curioso, da quando si è diffusa la notizia della sua morte, varie persone mi hanno scritto, come se si fosse trattato di un mio parente. Alcuni erano solo a conoscenza della mia fascinazione per il wrestling, altri sapevano benissimo che Hulk Hogan era stato il mio eroe da bambino”.

Non mi sono mai sentito tanto lontano dagli Stati Uniti d’America come in questi mesi di nuova presidenza trumpiana. Come accade, a volte, quando si dorme e nelle nostre rappresentazioni oniriche cambiano la luce o il tono di un interlocutore, oggi la deriva autoritaria, la politica di forza che cancella l’idea di diritto internazionale (per quanto fragile e ipocrita potesse essere), il razzismo, la prepotenza, il disprezzo per il clima e per gli esseri umani, stanno trasformando il sogno in incubo. Penso a tutti gli amici che guardavano con sospetto alla mia passione per la cultura americana, ai loro ammonimenti, alle previsioni di scrittori, sceneggiatori, fumettisti, all’amore americano per la distopia, anzi, per l’ucronia distopica, Dick, Roth, le tante storie della Marvel e della DC, Ritorno al futuro – Parte II che tanto mi aveva spaventato da bambino, perfino qualche episodio dei Simpsons.

Da qualche anno ho iniziato a notare una serie di coincidenze sinistre che riguarda i protagonisti di molti dei telefilm americani che venivano trasmessi sui canali Fininvest (non si chiamava ancora Mediaset) negli anni Ottanta. Penso ad Arnold, il cui eroe eponimo (o meglio, Gary Coleman, l’attore che lo interpretava, la cui crescita, dopo una malattia al rene che lo aveva colpito nei primi anni di vita si era per sempre interrotta, dandogli l’aspetto da bambino che, come certi doni di elfi o streghe nelle fiabe, era stato la sua fortuna e la sua condanna) è morto a quarantadue anni, accusato di violenze domestiche e di aver investito una persona in un parcheggio; o a suo fratello (nella serie) Willis, Todd Bridges, una vita distrutta dall’abuso di crack e di alcol, processato (e poi assolto) per tentato omicidio ai danni del suo spacciatore e  citato in giudizio per violenza sessuale e stalking; o a Kirk Cameron, sfrontato teen idol di Genitori in blue jeans (la serie che nell’ultima stagione, lancerà un po’ per caso Leonardo Di Caprio – ma questa è un’altra storia), oggi predicatore creazionista itinerante, o a sua sorella, nella serie, Carol (Tracey Gold) che divenne anoressica dopo alcune battute della serie in cui proprio Mike-Kirk Cameron la chiamava “fat” (era bellissima, e niente affatto grassa e questa, pare, fu la giustificazione degli sceneggiatori: “Se tu fossi grassa davvero non potremmo scrivere quelle battute”). Fino al character più buono e rassicurante della storia della televisione, il dottor Cliff Robinson, padre e marito ideale, interpretato da Bill Cosby, che oggi sappiamo essere stato uno stupratore seriale che drogava sistematicamente le sue vittime. Il personaggio più luminoso, interpretato dal cuore più oscuro.

Ripenso a tutti loro, al lato oscuro degli eroi del tempo della gioia, mentre apprendo la notizia della morte di Hogan due giorni dopo quella dell’annegamento di Theo dei Robinson, e mi chiedo se quest’insieme di morti e orrori sia casuale, o se dietro tutta quella felicità e quella bontà esibite, dietro all’American Dream, si nascondessero già la tragedia, il dolore e la violenza, e se sì se fossero visibili in controluce, se addirittura agissero su di noi, impercettibilmente, come quei messaggi satanici subliminali incisi al contrario musica rock di cui si favoleggiava quando ero al liceo.

Mi chiedo se il decennio più felice ed edonista dell’umanità, quello che aveva indotto uno studioso improvvido a parlare, acclamato da analisti conservatori non dissimili da quelli che oggi negano il climate change e difendono le azioni di Trump e Netanyahu, di “fine della storia”, avesse sparso i semi della crisi continua, e che a tratti pare irreversibile, che ci ha colpito dal 2001 a oggi.

Carlo Carabba

Carlo Carabba è scrittore, editor, poeta. Il suo ultimo libro è La prima parte (Marsilio, 2021).

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