I talk show funzionano perché hanno tutti gli elementi della fiaba - Lucy sulla cultura
articolo

Arnaldo Greco

I talk show funzionano perché hanno tutti gli elementi della fiaba

Tutti criticano la tv ma sono in molti ancora a guardarla. Forse perché come le fiabe è fatta di elementi ricorrenti, formule rassicuranti, e un parterre assiduo di antagonisti, mandanti, eroi.

Non si scappa. Chiunque, lavori, partecipi o guardi un talk show politico televisivo deve seppellire in un angolo della mente quel paio di  versi di Franco Battiato contenuti in Bandiera Bianca: “Per fortuna il mio razzismo non mi fa guardare / Quei programmi demenziali con tribune elettorali”. Anche i migliori che – se non a farli o guardarli – hanno accettato quantomeno di partecipare a un talk show sanno che, da qualche parte, quei versi esistono. Li trovano significativi e divertenti, si consolano pensando che, in fondo, pure Battiato andava in tv e così partecipano alle tribune elettorali. E altri le guardano, le fanno, ne parlano.  

Ne parlano soprattutto, sì, ma nessuno ne parla bene. Anzi, è una di quelle cose di cui è impossibile parlare bene. È un luogo comune, ma questo non lo rende meno vero: in tanti si sentono capaci di fare meglio quelle tribune elettorali e ciascuno ha la propria ricetta. Sembrano sentirsi investiti del ruolo di giudice supremo di un programma che potrebbe chiamarsi “Talk Show da incubo” e, dunque, in grado di apportare le migliorie necessarie a correggere quel segmento di informazione televisiva e, naturalmente, da lì a cascata tutta l’informazione televisiva, i media, la politica, il Paese.  

Lavoro da anni come autore televisivo e ogni volta che mi capita di spiegare quale sia la mia professione a emeriti sconosciuti (genitori di amici di scuola dei miei figli, compagni occasionali di tennis, avventori di buffet di feste) ricevo sempre in risposta: “ah, ma io la tua trasmissione non la guardo mai” oppure “penso che quel genere di programmi sia la rovina del paese” e perfino “piuttosto che guardare la tv nel 2025 mi caverei gli occhi”. Niente di male, per carità, non faccio fatica a credergli. Ma sono convinto che se dicessi che lavoro alla Simmenthal nessuno mi risponderebbe sempre che – a pensarci bene – l’idea di conservare della carne con la gelatina in una scatoletta è insensata e schifosa. Ma con la tv si può. Immagino perché il detrattore non riesce a concepire che il suo sentimento, almeno in una parte piccolissima, non sia condiviso perfino da chi la tv la fa, perfino più di chi la guarda o ci va come ospite. 

Si sbaglia? Non lo so. Ma la realtà è che da anni la situazione è sempre più arroccata in una sorta di stallo alla messicana, o triello se preferite, molto semplice. Chi fa i talk show pensa che i guai siano dovuti in buona parte a chi li guarda e a chi partecipa, chi partecipa pensa sia colpa di chi li fa e di chi li guarda, chi li guarda pensa sia colpa di chi partecipa e li fa. Ed è impossibile uscire vincitori da questo stallo. Perché a ogni piccolissimo movimento di uno, ne scaturisce un lento riposizionarsi degli altri per cui certe mutazioni non si sa neanche più bene a chi ascriverle e vanno accettate supinamente, come tavole della legge. 

Adesso proverò ad elencare alcuni di queste dinamiche in cui solo a fatica si può riconoscere il “responsabile”, perché non è mai unico, ma sempre frutto di un mix di movimenti di tutti e tre gli “attori” (chi la fa, chi ci va, chi la guarda). 

  1. La stagione televisiva

Come puntuali, a inizio giugno, appaiono gli articoli sul fatto che le scuole hanno tempi che non combaciano più con le esigenze della contemporaneità, così da anni leggiamo interventi polemici sull’estate televisiva colpevole di avere un palinsesto fatto solo di repliche. Chiunque assente tacitamente. Festival, riunioni interne, tavole rotonde, tweet sferzanti. Ironia a buon mercato, tutti d’accordo, ma tutto resta com’è. 

  1. La durata

Più si ragiona del fatto che la specie umana stia perdendo la capacità di concentrarsi, più si guardano con ammirazione le piattaforme online in cui si scarta rapidamente un contenuto se non si è rivelato interessante nel primo secondo di visualizzazione, più le trasmissioni televisive allungano la propria durata. È un controsenso evidente, dovrebbe accadere esattamente l’opposto, ma dietro questa apparente illogicità esiste un mostruoso coacervo di motivazioni – costa meno un programma lungo di due corti, gli ascolti in prima serata contano molto più di quelli in altre fasce, i media sono attenti solo alla comunicazione dei dati e non all’analisi, gli ascolti non tengono conto di costo e incassi di un programma, gli investitori pubblicitari valutano secondo criteri sconosciuti al pubblico e così via. Al punto che nessuno può fare nulla per scardinare questo e sistema e, dunque, bisogna accettare come un postulato della matematica il fatto che un programma duri più di The Brutalist (enunciato che rischia perfino di offendere invece di apparire come la semplice e banale verità).

  1. Cosa guardiamo veramente

Ogni tanto un editorialista che non è riuscito a entrare nel vortice delle ospitate televisive si lamenta, con i toni di Catone il Censore, del decadimento dell’informazione televisiva. Nella più fortunata delle ipotesi più il suo pensiero viene posto sul sito internet del quotidiano accanto alle clip di colleghi che danno di matto in uno show e litigano, insultano, abbandonano lo studio rimanendo goffamente avviluppati nel filo del microfono. Insomma, più sentiamo reprimende sull’informazione che diventa solo intrattenimento più i numeri sono dalla parte dell’intrattenimento. (E quindi – come ci si domandava poco più su – di chi è colpa? Del giornalista che viene invitato solo perché dà di matto? Del giornalista che dà di matto? O del pubblico che guarda solo il giornalista che dà di matto?).   

  1. Le clip riprese online

Nulla è più ridicolo di fare il bambino che dice “il re è nudo” quando è lo stesso re ad ammettere di essere nudo. Eppure, anche col rischio di fare questa figura barbina: sappiamo, vero, che nessuna testata online assume redattori per fare clip di trasmissioni televisive? Ma sono le stesse redazioni televisive o, al massimo, gli utenti (per le rarissime situazioni in cui non vale il “parlatene male purché se ne parli”) a estrapolare spezzoni di trasmissione sperando abbiano vita propria online? 

Ancor più che per gli influencer, in tv la viralità di una clip ha un valore aleatorio. Chi non sta a guardare i dati d’ascolto ogni mattina alle 10 (per chi, giustamente, non lo sapesse è l’ora in cui vengono pubblicati gli ascolti del giorno prima) misura il successo di una trasmissione soprattutto in base agli spezzoni di quella trasmissione con cui viene in contatto. Apro X e Ig e becco vari spezzoni di quell’intervista, vuol dire che quel programma è visto. Ma decine di spezzoni di successo che viaggiano in maniera indipendente e scoordinata in rete significano ancora molto poco in un sistema che dà valore economico solo a ciò che può “vendere” col dato delle 10 del mattino: tot milioni di persone, tot percentuale di spettatori, tot minuti pubblicità. (Per quanto ci si riempia la bocca si è ancora fermi al “lavoro, guadagno, pago, pretendo”, o poco ci manca).   

Ma venendo allo specifico del talk show politico, evoluzione delle tribune elettorali canticchiate poco più su, lo stallo di cui parlo ha portato a una cristallizzazione ancora più peculiare. Nel senso che la narrazione ha assunto una forma così particolare che potremmo addirittura parlare di:

Talk show come fiaba

I ruoli all’interno dei talk show si sono così cristallizzati col tempo che, a volte, pare se ne possa costruire una riduzione a uno schema simile a quello che Vladimir Propp aveva ideato per la fiaba. E cioè così come i personaggi di tutte le fiabe si possono ridurre a sette tipi: il protagonista, l’antagonista, il donatore, il mandante, l’aiutante, il premio, il falso eroe; così i protagonisti dei talk show a volte appaiono dover recitare ruoli schematici. (Ancora una volta: sono loro a essere così? Il pubblico gli chiede di essere così? È chi li sceglie a sceglierli perché sono così? Non sono domande retoriche, ma il guaio è che una risposta non c’è, perché è evidente che lo stallo non terminerà con la vittoria di uno o due dei contendenti, ma solo quando tutti accetteranno di abbassare le armi e quindi – spoiler – non accadrà). 

L’eroe

L’eroe della fiaba nella versione televisiva è il politico di destra nei talk show di destra o il politico di sinistra negli show di sinistra. Quello che ottiene gli applausi a scena aperta. Ma è solo la figura più classica di eroe. C’è ormai un’infinità di personaggi stereotipati che possono assurgere alla funzione di eroe. Può essere l’imprenditore di destra di successo che pretende che tutta l’economia del paese possa adeguarsi alla ricetta del suo successo. O l’imprenditore di sinistra di successo (uguale al precedente, ma magnanimo coi dipendenti) che pretende che, grazia alla sua ricetta, possa risollevarsi tutta l’economia del mondo (di solito, infatti, è persino più ambizioso del collega precedente). L’eroe può essere il tizio intervistato per strada in nome del suo paesino che dice quello che il politico in studio non può dire davvero perché ha le mani legate, ma il tizio della strada sì, perché lui può parlare pane al pane. E, a seconda della situazione politica ed economica del paese, l’eroe può essere il tecnico che scalza i politici incapaci, l’ex-lavoratore appena prestato alla politica che, praticamente come intercalare, ripete che lui arriva da un altro mestiere, ma adesso “vuole sporcarsi le mani”. Il sindacalista quando si parla di lavoratori che stanno perdendo il post, l’attivista quando l’agenda della settimana rende urgente il parlare di quei diritti di cui la politica non si occupa perché sono divisivi e così via. 

L’antagonista

Il palinsesto è pieno di politici che partecipano con convinzione a talk show d’area avversa sapendo perfettamente di essere gli antagonisti e, quindi, sapendo perfettamente che appariranno “perdenti”, però hanno una fiducia tale nel proprio eloquio da accettare il ruolo comunque. 

Una funzione particolarmente ingrata dell’antagonista è quando il comico interpreta l’eroe e l’antagonista sbeffeggiato dal comico viene inquadrato.

In quel caso all’antagonista spetta perfino il compito di sorridere e mostrare profonda auto-ironia. Ovviamente al comico-eroe non è richiesto neanche un decimo di quell’auto-ironia. Anzi. Più è irridente con gli altri più deve prendere seriamente il suo ruolo. 

Per lunghi anni, era una presenza fissa del talk show il bastiancontrario e spettava a lui il ruolo dell’antagonista. Il bastiancontrario veniva invitato con quella precipua funziona. Ma ormai con la rete ogni bastiancontrario può costruirsi un pubblico e quindi essere l’eroe del suo pubblico. Il difensore dei no-vax, il difensore di bombarda, il difensore dei terroristi non è più un antagonista dell’eroe, perché, pur dicendo le cose più assurde, sa che, proprio grazie a quelle assurdità, per qualcuno sarà il vero eroe della storia. A differenza di quel famoso detto ci si siede ormai dalla parte della ragione, perché è dalla parte del torto che non si trova posto. 

Il donatore

Secondo Propp sarebbe il personaggio che fornisce l’oggetto magico all’eroe della fiaba, cioè la sicurezza che oltre quella telecamera, lontano, ci sia un pubblico per le sue parole. Per decenni il donatore ha costruito la sua forza sulla neutralità, vale a dire che più appariva neutrale più era efficace. Persino quando voleva esprimere le proprie opinioni era opportuno che lo facesse velatamente, al limite della dissimulazione. Appartenere a un’area politica senza darlo troppo a vedere, ma senza neppure nasconderlo era considerata un’abilità fondamentale. Oggi questo tipo di donatore è in ritirata, perché oggi la fiaba vuole un donatore che sia parte in causa e militante. Che doni all’eroe la magia, ma che verifichi anche che l’eroe porti a compimento la sua missione. La conseguenza più evidente di questo slittamento del ruolo è che il donatore si è radicalizzato.  

Il mandante

Qualcuno dice sia stato Funari, altri propendono per Santoro. È difficile dire chi abbia istituzionalizzato nei talk show il tipo del mandante, secondo Propp “il motore dell’azione narrativa”, colui che affida all’eroe il suo compito. 

Fin quando abbiamo avuto una dose di fiducia accettabile nei partiti erano gli elettori a fare da “mandanti” per gli eroi, i politici, delle tribune elettorali. Ma persa l’identificazione con la politica, con partiti che invece di perdere pochi decimali tra un’elezione e l’altra scompaiono del tutto o stravincono partendo da zero, la tv ha avuto bisogno di mandanti più chiari. La persona che sta perdendo il lavoro, quella che sta subendo un’ingiustizia, quella a cui non viene riconosciuto un diritto, chiunque insomma racconti in un talk show la propria vicenda sperando che il politico/eroe la salvi – spesso, quando il mandante parla, il politico/eroe viene inquadrato mentre mostra a fatica di trattenere la rabbia per la vicenda che sta ascoltando: vorrebbe intervenire subito e risolvere il problema. Ma che dico?!: “Lei non lo sa, ma lo stiamo già facendo. Lo stiamo già risolvendo!”. 

Il premio

È la figura più difficile da ricostruire, perché nella fiaba classica il premio era quasi sempre la principessa che l’eroe arrivava a conquistare al termine dell’avventura. Perciò è difficile trovare un tipo analogo oggi, anche perché il premio esiste nella fiaba e non può esistere nella realtà. Eppure, traslando un po’ il senso, la figura più simile al premio è quella dell’intellettuale che interviene e ne ha per tutti. (Quasi sempre nello schema: contro la destra per natura e contro la sinistra perché non sa fare la sinistra). All’intellettuale che ha scritto meravigliose pagine sulla guerra del Peloponneso o su Caravaggio, concediamo l’onore di essere il premio (come se aver capito la guerra del Peloponneso significasse necessariamente che ne sa di gestazione per altri). Ottenere la sua stima e il suo applauso è compito dell’eroe. Se il premio è d’accordo e si presenta assieme all’eroe in un comizio allora l’avventura dell’eroe può dirsi completata con successo. 

Per anni anche gli artisti del cinema e, ancora di più, della musica hanno fatto da premio. Eppure le ultime tornate elettorali hanno dimostrato che il pubblico televisivo crede ancora alla figura del premio, ma non gli elettori. (Nonostante quasi ogni premio sostenesse Kamala Harris, per esempio, sappiamo bene com’è andata a finire). 

Il falso eroe

Vale a dire chi si attribuisce il ruolo dell’eroe. In chiave moderna possono essere ex-Presidenti del Consiglio senza più chance di tornare a Palazzo Chigi (loro, purtroppo, direbbero solo Chigi). Ministri tecnici, politici che hanno avuto momenti di enorme popolarità ormai svanita, Beppe Grillo. 

Arnaldo Greco

Arnaldo Greco è giornalista e autore televisivo. Per Einaudi ha curato l’antologia “Aragoste, champagne, picnic  e altre cose sopravvalutate”.

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