Martina Lodi
10 Dicembre 2024
Poco femminista, ossessionata dagli uomini, bellissima eppure poco cool nelle sue aspirazioni da principessa Disney, il motivo del successo di Taylor Swift al termine dell'Eras Tour interroga ancora i suoi critici. Eppure la risposta è davanti agli occhi di tutti.
In una delle sue canzoni più famose, Taylor Swift si rivolge a un amico di cui è innamorata non ricambiata: la canzone s’intitola “You Belong With Me” ed è contenuta in Fearless, che è il suo secondo disco e viene pubblicato nel 2008, quando Swift ha diciott’anni. Il ragazzo a cui è dedicata la canzone ha una relazione con un’altra ragazza, e Swift ripete, in uno dei ritornelli più orecchiabili del country americano: “If you could see that I’m the one who understands you/ Been here all along so why can’t you see?/ You belong with me, you belong with me” (“Se tu riuscissi a vedere che sono l’unica che ti capisce/ Sono sempre stata qui, perciò come fai a non vederlo?/ Sei fatto per stare con me”). Il topos dell’appartenersi è un classico del discorso amoroso – si vedano gli star-crossed lovers shakespeariani Romeo e Giulietta, ai quali Swift si rifà in Love Story, un pezzo dello stesso disco in cui il padre di lei vieta all’amante-proibito di frequentarla, in un passaggio in cui riecheggia l’influenza della propaganda a favore della castità del 2008, quando nella cultura pop adolescenziale americana, non era raro che le teen celebrities portassero anelli della castità regalati loro dai padri – “And my daddy said: Stay away from Juliet” (“E mio padre ha detto: Stai lontano da Giulietta”).
Torna un “proibito paterno” anche nell’ultimo disco, nel brano “But Daddy I Love Him” – citazione disneyana: è quello che esclama la principessa Ariel ne La Sirenetta, in un moto di rabbia adolescenziale contro Tritone. Nell’ultimo ritornello, i versi “I’m running with my dress unbuttoned/ screaming ‘But daddy, I love him’” (“Corro con il vestito sbottonato, urlando ‘Ma papà, io lo amo!’”) diventano “Now I’m dancing in my dress in the sun and/ even my daddy just loves him” (“Ora ballo al sole con il mio vestito/ e anche mio papà lo adora”). Nella versione live suonata al The Eras Tour il brano si spegne nelle note di “So High School”, il che dovrebbe dimostrare, secondo le fan, come l’ultima strofa sia dedicata all’attuale fidanzato di Swift, il giocatore di football americano Travis Kelce. Realtà e narrazione testuale sono l’una indispensabile all’altra: dai suoi esordi, Swift si è impegnata a seminare nelle sue canzoni e nei booklet dei CD una serie di indizi – le fan americane li chiamano “Easter Egg”: è la gamification del cantautorato – che permettessero ai fan di ricostruire quali fatti e personaggi reali avessero ispirato la scrittura di ogni brano. Così, nemmeno la successione dei brani eseguiti in tour può essere priva di senso: ogni pezzo deve incastrarsi con un altro, tout se tient.
Come nei Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes (Seuil, 1971; tr. it. Einaudi, 1979), anche nei testi di Taylor Swift l’amore, narrato spesso dalla prospettiva dell’innamorato speranzoso o dell’amante deluso, è un destino, non una scelta. Non ti amo perché lo scelgo, ti amo perché non posso fare altrimenti. Scrive Barthes: “è tutta fatica sprecata; la iettatura amorosa è indissolubile; bisogna subire o andarsene: la faccenda non si può accomodare (l’amore non è dialettico né riformista)”. L’amore è alchimia, predestinazione, il realizzarsi o meno di una profezia: “It’s gonna be forever, or it’s gonna go down in flames?” (“Durerà per sempre, o finirà in fiamme?”) si chiede l’io narrante di “Blank Space”, la hit del disco della sua consacrazione pop, 1989.
“You Belong With Me” è uno dei momenti-chiave nella carriera di Taylor Swift, in prima misura per il suo enorme successo commerciale. Soprattutto, nel testo Swift fa qualcosa che le riesce bene e molto spesso: rivendica per sé il ruolo della ragazza alla mano e diversa dalle altre, o quantomeno dall’Altra con la quale è in diretta competizione amorosa – nel video musicale (che nel 2009 venne premiato ai Video Music Awards di MTV, dando inizio a una faida con Kanye West che ha definito la traiettoria della sua carriera per i quindici anni a venire) Swift stessa interpreta entrambe le rivali. “She wears short skirts, I wear t-shirts/ She’s cheer captain and I’m on the bleachers” (“Lei porta le minigonne, io indosso delle t-shirt / Lei è capitana delle cheerleader e io sto sulle gradinate”), canta nel refrain.
Il personaggio vincente, nel quale Taylor Swift riconosce se stessa, è uncool secondo tutti gli standard delle commedie liceali dei primi Duemila: porta gli occhiali, resta in cameretta a studiare, è diversa dalle altre ed è proprio – questo è il passaggio fondamentale – come le sue fan.
She’s not like other girls, but she’s just like you. Quando, nel 2019, a dieci anni dall’uscita dell’album, la giornalista musicale Hazel Cills ha recensito per «Pitchfork» Fearless, ha sottolineato come il “refrain zoppicante” del brano fosse diventato, negli anni del femminismo post #MeToo, oggetto di parodia. “La cultura pop ha demonizzato l’archetipo della cheerleader bionda e carina per creare una mentalità del tipo ‘noi contro di loro’ per distrarre le adolescenti dal loro vero nemico, i maschi”, ha scritto un’utente su Twitter. Il discorso tiene, almeno fino a un certo punto: soprattutto nei dischi che precedono la svolta pienamente pop di 1989, la qualità di otherness che Taylor Swift si auto-attribuisce mira a fare il ritratto di una donna tanto speciale quanto innocua e non disturbante. Il desiderio descritto è privo di qualsiasi riferimento al corpo o alla carne, e le qualità che rendono Swift non solo soggetto desiderante (sei tu che mi appartieni, e non viceversa) ma anche, in potenza, desiderabile oggetto d’amore, sono quelle di una femminilità domata e casta. La donna descritta non è una narcisista sensuale e seduttrice, ma piuttosto la donna-angelo, asessuata e dunque senza colpa.
La competizione con le altre donne, tuttavia, raramente viene messa a tema in maniera esplicita – se pure con qualche vistosa eccezione. Generalmente, però, i responsabili della sofferenza, il “nemico” di cui si è scritto sopra, sono principalmente gli uomini – ex amanti e manager, nemici reali e immaginari – che l’hanno ferita e umiliata: ed è contro lo sguardo maschile, molto più che nel confronto con le altre donne, che emerge con forza la rivendicazione di essere uncool. La diversità non si delinea tanto nella differenza rispetto alle altre donne, quanto piuttosto nella rinuncia alla competizione, e al lasciarsi plasmare dall’uomo che le è accanto. Nel suo romanzo Gone Girl, da cui David Fincher ha tratto il film omonimo con Rosamund Pike nei panni della protagonista, Gillian Flynn descrive con parole perfette quale tipo di donna finisca sotto l’etichetta della Cool Girl, la donna-ideale (e dunque impossibile) che gli uomini desiderano, e in cui molte donne provano a trasformarsi.
“Essere una Ragazza Cool significa essere una donna sexy, brillante, divertente, che impazzisce per il football, il poker, le barzellette sporche e i rutti, che gioca ai videogiochi, beve birra scadente, ama i threesome e il sesso anale”. Le Ragazze Cool piacciono agli uomini perché sono il prodotto della loro fantasia e del loro desiderio: “Sono sexy e comprensive. Le Ragazze Cool non si arrabbiano mai”.
Taylor Swift, al contrario, è vendicativa e rancorosa: un intero disco, e un’intera Era, sono dedicati alla costruzione dell’ennesimo personaggio, un enorme serpente nero dai denti affilati, che torna strisciando dopo che la sua reputazione è stata rovinata dalla lunghissima (e mai risolta) faida con Kanye West e Kim Kardashian. La sezione del tour dedicata a Tortured Poets è stata soprannominata «Female Rage: The Musical» (il marchio è già stato registrato da una delle società di Swift). In risposta agli uomini e ai critici che le danno della pazza perché ha dedicato loro delle canzoni in cui li fa a pezzi per averla ferita – le Ragazze Cool, appunto, non si arrabbiano mai – lei risponde, in “Fortnight”: “I was supposed to be sent away, but they forgot to come and get me” (“Avrebbero dovuto portarmi via, ma si sono dimenticati di venirmi a prendere”).
“Everything is copy”, scriveva Nora Ephron riferendosi al fatto che qualsiasi esperienza è buona per trarne ispirazione artistica, e in ogni caso: non dovresti ghostare la cantautrice più famosa del mondo, nota per raccontare nel dettaglio i suoi trascorsi sentimentali, e sperare di farla franca. Giovanissima, a un’intervistatrice che le chiede se i ragazzi con cui esce non abbiano paura che poi lei parli male di loro, risponde: “I guess, if guys don’t want me to write bad songs about them, then they shouldn’t do bad things” (“Immagino che, se i ragazzi non vogliono che io scriva canzoni cattive su di loro, allora loro non dovrebbero essere cattivi con me”).
“Taylor Swift, al contrario, è vendicativa e rancorosa: un intero disco, e un’intera ‘Era’, sono dedicati alla costruzione dell’ennesimo personaggio, un enorme serpente nero dai denti affilati”.
In “The Manuscript”, che chiude la versione Anthology del suo ultimo disco, The Tortured Poets Department, Swift canta con la voce spezzata: “In the age of him she wished she was thirty/ and made coffee every morning in a French press./ Afterwards she only ate kids’ cereal/ And couldn’t sleep unless it was in her mother’s bed.” (“Nell’epoca di lui, lei desiderava di avere trent’anni e preparare il caffè ogni mattina con una French press. Nel seguito, mangiava solo cereali per bambini e riusciva a dormire soltanto nel letto di sua madre”). C’è una continuità sottile che tiene insieme la Taylor Swift degli esordi e la sua versione più matura, ed è la rinuncia a lasciarsi plasmare dallo sguardo, dal desiderio altrui, insieme al riconoscimento di non essere nient’altro che una donna normale alla quale nulla – nemmeno la carriera straordinaria che sembrerebbe spettarle di diritto – è mai venuto “facile”. “I’ve never been a natural, all I do is try, try, try” (“Non sono mai stata portata, non faccio altro che provarci”), confessa, esausta, in “mirrorball”.
In una vecchia intervista all’Ellen Show, Ellen DeGeneres interroga, con lo stile pungente per il quale è diventata celebre, una Taylor Swift diciottenne, visibilmente a disagio sulla sua poltrona. “I hear something that you do that kinda frightens me a little bit. So I’m gonna give you a chance to clear it up: when you have spare time, you drive past your ex-boyfriends’ houses” (“Ho saputo di una cosa che fai che un po’ mi fa paura, quindi ti do una chance per chiarire: quando hai tempo libero, ti piace passare in macchina davanti alle case dei tuoi ex-fidanzati”). Al momento di questa intervista Taylor Swift è una ragazzina che porta abitini vintage a ruota e i lunghi capelli biondi sono acconciati in boccoli pieni di lacca. Non ha nemmeno una briciola del potere mediatico che ha oggi: le interviste spesso la mettono in imbarazzo, le viene chiesto continuamente se abbia di nuovo cambiato fidanzato, le imputano dei flirt con tutti gli uomini con cui viene fotografata. E, tuttavia, a quella domanda Taylor Swift dà una risposta spiazzante, che contiene la spiegazione di tutto il successo che ha oggi: “Everybody does that, it’s just nobody admits to it” (“Lo fanno tutti, solo che nessuno ha il coraggio di ammetterlo”). La diversità di Taylor Swift contiene a ben vedere il segreto più banale: è uguale a tutte proprio perché riconosce di essere, come tutte, una sfigata. L’ha scritto perfettamente Helen Lewis sull’«Atlantic» “Dorkiness is, after all, the core of Swift’s appeal” (“Essere una sfigata è, in fondo, il cuore del fascino di Swift”).
È difficile essere qualcuno con cui si può empatizzare quando sei una multimiliardaria, ed è altrettanto difficile credere alla narrazione che Swift fa di se stessa: è pur sempre bellissima secondo ogni canone estetico occidentale – è magra e biondissima, con un naso piccolo e gambe splendide. È il manifesto ariano che a lungo il Partito Repubblicano statunitense ha provato a intestarsi invano: nel momento più caldo della campagna presidenziale statunitense, Taylor Swift ha sostenuto pubblicamente la nuova candidata del Partito Democratico, Kamala Harris. L’ha fatto pubblicando su Instagram una fotografia in cui aveva posato per la copertina di TIME Magazine, assieme al suo gatto, in cui veniva nominata “Persona dell’anno”. In calce al testo, si è firmata “childless cat lady”. Anche se non è chiaro quanto impatto esso abbia avuto realmente, il suo era l’endorsement più atteso dai responsabili della campagna democratica. È quando interpreta il suo ruolo pubblico che il personaggio dell’underdog che Taylor Swift si è cucita addosso funziona meno: firmarsi “gattara senza figli” non basta a celare quanto potere reale Swift abbia nelle sue mani, e quanto sia vistoso e goffo il suo silenzio su altre urgenti questioni. “What does it mean to be a Swiftie for Palestine?” ha titolato il «Washington Post» lo scorso giugno. “Taylor Swift’s relationship to #SwiftiesForPalestine is like that of God to the universe” ha scritto Jessica M. Goldstein “She is everywhere and nowhere” (“La relazione di Taylor Swift con le #SwiftiesForPalestine è come quella di Dio con l’universo. È dappertutto e da nessuna parte”).
È nella scrittura dell’intimità – dell’amore romantico, in particolare, ma anche di quello filiale, della tenerezza per le amiche – che invece l’equilibrio regge, e il personaggio della ragazza qualsiasi, della tipa uncool, riesce a essere ancora convincente. L’attenzione costante dei media, la fanbase sconfinata, vengono raccontati come qualcosa con cui è doloroso e difficile fare i conti: nel videoclip della hit radiofonica “Anti-Hero” una Taylor Swift fuori taglia, come un’Alice finita nel Paese delle Meraviglie, si aggira in una casetta minuscola e si ripiega su se stessa per riuscire a sedersi a tavola con i suoi amici. “Sometimes I feel like everybody is a sexy baby,/ and I’m a monster on the hill” (“A volte mi sembra che tutti siano delle bambole sexy/ mentre io sono un mostro sulla collina”) dice sconsolata, per poi confessare: “It’s me, hi. I’m the problem, it’s me”. Probabilmente “Sono più famosa di tutti i miei amici” non è il problema principale delle fan di Taylor Swift; e tuttavia chi non si è mai chi non si è mai sentito fuori posto, troppo ingombrante, costretto ad autocommiserarsi per una vita che non somiglia a quella che si era immaginata – con le relazioni fallite, le liti furiose, il dolore causato agli altri – per finire a rendersi conto, amaramente, che tutti i fili portavano a un unico nodo? “It’s me, hi. I’m the problem, it’s me”.
Un sentimento simile viene espresso in “Who’s Afraid Of Little Old Me”, brano, però, nel quale Swift accoglie a braccia aperte la propria mostruosità – tema, per altro, carissimo ai femminismi contemporanei, dalle riflessioni di Donna Haraway e di Rosi Braidotti all’ondata pop di film dell’orrore con donne mostruose. Sul palco dell’Eras Tour, durante la canzone viene proiettato il volto di Swift stravolto e con gli occhi insanguinati. “I was tame, I was gentle ‘til the circus life made me mean/ ‘Don’t you worry folks, we took out all her teeth’” (“Ero addomesticata, ero buona, finché la vita del circo non mi ha resa cattiva. ‘Non preoccupatevi, gente, le abbiamo strappato tutti i denti’”), canta con un ringhio soffocato, descrivendosi come una bestia feroce che non è, però, nient’altro che il prodotto del suo ambiente.
Ad agosto la rivista satirica «The Onion» ha pubblicato un articolo su Swift “Cult Leader Not Even Charismatic”, che conteneva la dichiarazione immaginaria di una psicologa esperta di sette. “Sappiamo che le sue seguaci ucciderebbero per lei – scrivevano – ma la domanda è: perché?”. La battuta coglie bene il punto: tutti si chiedono perché Taylor Swift piaccia a tutti, tranne coloro ai quali Taylor Swift piace per davvero – e, in quel caso, la ragione appare così evidente da non essere nemmeno in grado di spiegarlo. Perché è bello sentire il sole caldo sulla pelle? Perché i cuccioli di cane sono adorabili? C’è un sentimento di oggettività nel gusto con cui godiamo della musica che ci piace, ha scritto il musicologo e sociologo Simon Frith nel suo saggio Performing Rites. On the Value of Popular Music (Oxford University Press, 1996). Quello stesso sentimento di oggettività ci fa pensare, nonostante sappiamo razionalmente quanto il gusto sia soggettivo, di star descrivendo qualcosa che è “oggettivamente buono nella musica stessa” che gli altri, semplicemente, non sono in grado di sentire. Frith esprime questo sentimento di indicibilità e frustrazione con la frase-tipo di un fan il cui entusiasmo non incontra l’apprezzamento altrui. “Ogni fissato con la musica conosce quel momento di frustrazione quando l’unica cosa che si può fare è far sedere l’altro e dire (o, piuttosto, urlare) con disperazione, ‘Ma ascoltala! Non è incredibile?’”.
“È difficile essere qualcuno con cui si può empatizzare quando sei una multimiliardaria, ed è altrettanto difficile credere alla narrazione che Swift fa di se stessa: è pur sempre bellissima secondo ogni canone estetico occidentale”.
Le fan stesse ironizzano su quanto Swift sia midcult, cioè con gusti banali e per nulla ricercati: una Swiftie, studentessa di moda alla Parson di New York, cura un profilo Instagram da 23mila follower interamente dedicato a fare un re-styling digitale della popstar. Allo stesso modo, il tour mondiale che le ha fatto guadagnare un miliardo di dollari è uno spettacolo megalomane e pacchiano senza riuscire a essere camp: gli abiti di scena ricordano costumi di Carnevale, il glitter e le paillettes abbondano come nei corridoi di una scuola elementare.
È interessante osservare, poi, come l’Eras Tour sia stato la consacrazione definitiva di una popstar della quale, fino a pochi anni fa, sarebbe stato facile predire il declino. Le popstar sono, prima di tutto, donne, e neanche a loro viene risparmiata la condanna di avere una data di scadenza. Nel documentario Miss Americana, che raccoglie materiale girato tra il 2016 e il 2017, Taylor Swift parla del nuovo disco che sta registrando e confessa di voler fare almeno ancora un disco buono, prima che di essere travolta dalla fase inevitabilmente calante che aspetta le donne dopo aver compiuto trent’anni. Nell’outro di una canzone intitolata “Clara Bow” che chiude il suo ultimo disco, Swift si rivolge all’artista che prima o poi prenderà il suo posto, e le sussurra, “You look like Taylor Swift/ In this light, we’re loving it/ You’ve got edge, she never did/ The future’s bright, dazzling” (“Somigli a Taylor Swift con questa luce, lo adoriamo. Tu hai più carattere, lei non ne ha mai avuto/ Il futuro è luminoso, accecante”).
Martina Lodi
Martina Lodi è laureata in filosofia morale all’Université Panthéon-Sorbonne di Parigi e scrive per varie testate culturali.
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