Il mare di Caproni - Lucy
articolo

Giordano Meacci

Il mare di Caproni

Tutte le città che Giorgio Caproni ha amato, anche quando si sentiva un esule, avevano il mare. E il mare con le sue fluttuazioni e gli andirivieni è l'elemento che più ha condizionato il ritmo unico della sua poesia: un'arte fatta di ritorni, arrivi e partenze.

Leone o Drago che sia,
il fatto poco importa.
La Storia è testimonianza morta.
E vale quanto una fantasia.

Giorgio Caproni , (Già amatissima epigrafe della “Lepre” di Vincenzo Cerami)

Il corpo d’acqua del Mar Ligure1 – anticamente Mar Ligustico: comunque la parte più a nord del Mediterraneo occidentale – comprende (secondo l’Organizzazione idrografica internazionale) una sorta di triangolo poligonico con due cateti e un’ipotenusa a sbalzi che fissa i due vertici di Sanremo e La Spezia attraversando a curve e scossoni e scogliere Imperia Savona e Genova ― con la curva morbida del suo golfo.

Il terzo vertice è la Punta di Revellata, la fine settentrionale della Corsica a forma di dito che ìndica Le Cinque Terre, Rapallo e Portofino.

Però.

Secondo l’Istituto Idrografico della Marina Militare Italiana: il Mar Ligure riguarda un pezzo di Corsica Nordoccidentale – forse quegli stessi tratti attraversati dai protagonisti di Una vita di Maupassant, magari –, la Punta còrsa che (a voler essere sinceri e considerando dall’alto del disegno di un qualche dio dei cartografi l’isola come una pesta, una tracca, l’orma ctoniomarina di un piede) dovrebb’essere più un alluce – l’unico dito visibile – che un pollice, o un indice sghembo: la Punta di Revellata diventa in questo caso un ponte che salta sull’Elba e, sinuoso, s’estende linearmente fino a inghiottire il Tirreno di Piombino, Livorno, Pisa e Viareggio.

Uno sciabordìo d’onda in più (o in meno), una spuma in più, uno scoglio in meno: a seconda della posizione del Sole, delle stagioni, delle correnti o dell’interpretazione: e il Tirreno si ribattezza Ligure; o ritorna Tirreno bisbigliando una qualche parola etrusca per mare.

Il Tirreno, il Mare Etrusco per eccellenza nominale: rapito allo schema ligure da una linea scattosa imposta da un qualche ammiraglio forse in vena di scherzi tra il 1872 e oggi. 

Chissà, proprio quel primo fondatore, Giovan Battista Magnaghi che, dalla campagna lomellina di nascita, ne fu il primo direttore. Nonché, per chi fosse interessato, inventore di bussole scandagli e termometri che portano il suo stesso cognome

E che ora riposa – per quel che si può, nelle sue condizioni – comunque in ottima compagnia; nel Cimitero Monumentale di Staglieno.

“Uno sciabordìo d’onda in più (o in meno), una spuma in più, uno scoglio in meno: a seconda della posizione del Sole, delle stagioni, delle correnti o dell’interpretazione: e il Tirreno si ribattezza Ligure”.

[E qui. Nella pausa tra un paragrafo e l’altro; con la giusta sospensione insistita, evocativa: la pausa si fa musica; e tasti di pianoforte: quello magnificamente suonato da Vinicio Capossela in Modì. La sera, improvvisa e posposta, s’adagia “sui tetti e i lampioni / e sui vetri appannati dai bar”. E i versi scorrono ambrati l’uno dietro l’altro fino a Dante in autunno e ancora dopo; quando la luna ride su via Roma] 

1.Perché Livorno dà gloria soltanto all’esilio / e ai morti la celebrità…

A Via Roma, in quel di Livorno: sono nati – non lo stesso giorno, non lo stesso anno e neppure lo stesso secolo: Amedeo Clemente Modigliani e Piero Ciampi. Modigliani – mi attengo al calendario gregoriano e ai fasti tardivi dei tuttocittà – il 12 luglio del 1884 in via Roma, 38; e Piero Ciampi cinquant’anni dopo, più o meno, il 28 settembre del 1934 in via Roma, 1.

Dirimpetto alla facciata di persiane verdi della Famiglia Modigliani.

Quando Piero Ciampi nasce, Modì è morto da quattordici anni, più o meno.

E quando Modì muore, disperando la sua, per sempre, Jeanne, Giorgio Caproni ha otto anni.

È nato il 7 gennaio 1912 in corso – attenzione alla musica delle sintassi – Amedeo.

“Son targato Livorno 1912”, diceva di sé.

E quando mancano dodici anni alla nascita di Ciampi – il poeta per musica, non il presidente della Repubblica, nato invece nel 1920, sempre a Livorno, ma una dozzina di mesi dopo la morte di Modì – nel 1922, a marzo, all’età di poco più di dieci anni, Giorgio Caproni si trasferisce con la famiglia a La Spezia; poi a Genova: per il lavoro del padre (“in una industria di conserve”).

La sua città dell’anima, dirà Caproni raccontàndocela – raccontàndosela in prosa – molti anni dopo. Forse.

Certo è che questi circa 182 chilometri (18, 2, la data di nascita di Fabrizio De André, Genova) ― i 182 chilometri più o meno che separano la casa di Livorno a quella, nuova, di Genova, segnano il tempo eterno della poesia di Giorgio Caproni.

Livorno. Genova. Roma, poi. Non via, Roma. Proprio Roma: l’ultimo approdo dell’esilio saltellante (che comprende, in qualche modo cimiteriale, anche Palermo). Dal 1938, dal primo incarico di maestro elementare fino alla pensione nel 1973; fino alla sua morte, sempre in gennaio, in via Pio Foà.

Ecco

Giovanni Raboni, poeta e traduttore (che con Caproni condivide, anche, almeno, la traduzione del Tempo ritrovato) ha parlato delle tre grandi luci che – come fari persi ognuno in una qualche isola minima che illuminano solo fino agli scogli e la spuma intorno lasciando alla notte il mare di schiuma che le confina, aggiungo io a una metafora che, comunque, non è di Raboni – Raboni ha parlato di città, madre e viaggio come temi, in Caproni, nel tempo; ma possiamo chiamarle anche parole assolute, chi ce lo vieta?

Parole assolute sotto l’ègida, è sempre Raboni, dell’esilio. Che è, forse, la parola assoluta tra le altre.

Da Roma (non da via, Roma) Caproni parlerà a Genova, sempre, con i versi.

Magari dedicandoli a Rina. L’amore di tutta la vita; la sposa di Loco di Rovegno, del ballo eterno di Fontanigorda, la Rina battezzata Rosa; la rosa sempre in cima ai suoi pensieri.

“No, non è questo il mio / paese. Qua / – fra tanta gente che viene, / tanta gente che va – / io sono lontano e solo / (straniero) […]”, scrive Caproni nel Gibbone. “Nell’ossa ho un’altra città / che mi strugge. È là. / L’ho perduta. Città / grigia di giorno e, a notte, / tutta una scintillazione di lumi – […]”.

Ecco. Però. Perché anche in questa nota c’è tutto (o quasi tutto) Caproni.

“Ancora Genova potrebbe esser l’’altra città’ del Gibbone, una Genova vista di sera dalla Madonna del Monte. Ma potrebbe anche essere una chimerica città dell’anima, chissà”.

Chissà.

Il mare di Caproni - Foto di Dino Ignani

Foto di Dino Ignani

Pasolini, lo ricorda Agamben, ha fissato per sempre le particolarità della musica metrica di Caproni in uno scherzo (parola musicale, anche questa); in una battuta: dicendo che la lingua di Caproni in realtà non è l’italiano, ma il capronese.

La musica metrica. La musica del mare. Purgatoriale. Portuale.

Suona il violino, Caproni; più o meno dall’infanzia. E la musica è una costante, formale, continua. Le rime insistite e nascoste, fluttuanti; i cambi minimi di fonema. Gli universi che si spalancano, improvvisi, come porte che diventano morte; sale il sole (e viceversa), fianco il bianco.

Le aspirazioni, asparizioni; e se in clausola c’è altra un’aggiunta di suono la rende poco dopo scaltra; la voglia diventa foglia: costantemente ci si ritrae e ci si dùplica, si tolgono suoni aggiungendo silenzi e pause, si aggiungono suoni o si mutano perché non se ne trovi più l’origine comune: una corsa nascosta in corna, secondo una pratica combinatoria che si cifra in segreto e intanto regala la musica a tutti gli universi ondeggianti di significato che possiamo trovare.

Quindi inventare, ogni volta.

Quanta sbadata complicità nell’errore (e non nell’errare, che sarebbe digressione fruttuosa) di confondere semplicità e linearità e complesso con faticoso.

Perché.

Primo, si sa, i sinonimi non esistono. Secondo. Perché Bach potesse regalare a Glenn Gould e poi a tutti noi le Variazioni Goldberg, gli universi si sono dovuti intrecciare semplicemente in modo complesso.

Ecco.

Per quanto mi riguarda, Il franco cacciatore e Res Amissa; soprattutto: Il conte di Kevenhüller, mi appartengono da lettore più di quanto io stesso voglia immaginare.

Ed è per questo che invece parlerò, adesso, di altre raccolte. Per un po’.

Per raccontarci Caproni attraverso i paesaggi e i passaggi che l’hanno attraversato, in versi, da Livorno a Qui.

[E Qui. Adesso. La musica che ci può far guadare l’acqua tra un rigo e l’altro: fluttua dai suoni lineari ed estivi di Sapore di sale – magari con un Gino Paoli crooner che si dedica ai fasti riarrangiati di una Capannina degli anni Ottanta – fino alle maliconie agostane e segrete dei versi di Simone Lenzi per i Virginiana Miller. Una bella giornata. O Tutti al mare]

2. Quando pubblica Come un’allegoria Caproni ha da poco vent’anni; e già ci trovo alcune musiche che ritorneranno nel futuro (per quello che poi vuole dire futuro in poesia).

Alba. “È assente il sale / del mondo: il sole”.

La Prima luce, “Lattiginosa d’alba”. E prima il suo apparente contrario, “nella memoria stanca della sera”. La Spiaggia [,] di sera. “Così sbiadito a quest’ora / lo sguardo del mare, / che pare negli occhi / […] del bagnino che tira in secco / le barche”. E poi “l’ultimo lembo di sole”, “e un fresco / vento che sala il viso” tra le risa di donne. I rondoni, i davanzali.

“Sei ricordo d’estate”.

E appare Rina e il suo Ballo a Fontanigorda, negli anni Trenta. Con (Altri versi a Rina, appunto) la sua “Liguria / di rupi e di dolcissimi / frutti”.

I “monti spaziosi” che sovrastano il mare. L’odore marino che diventa i capelli di Rina. Fluttuanti, ancora. 

“Negli occhi ho il sole fresco / del primo mattino”. E se il sole era il sale della terra ora il “primo chiareggiato mattino” si fonde e confonde con “Il sale / del mare…”.

“Suona il violino, Caproni; più o meno dall’infanzia. E la musica è una costante, formale, continua. Le rime insistite e nascoste, fluttuanti; i cambi minimi di fonema”.

Genova. La Liguria. Quel tratto di passaggio che da Livorno porta più su, per meno di duecento chilometri, percorre le coste dell’infanzia e della giovinezza e poi precìpita, in una corsa di litorale fino a Roma lungo tutto il Mar Tirreno, portandosi via con sé ogni Triste riva, ogni “schiuma / salina” che si trasforma nel gusto della “tua saliva”, le “osterie nel fresco / morto d’acque portuali” e le “carnali risa di donne”, ancora; e la “tua aria di sale”, e intorno tutte “Sono donne che sanno / così bene di mare”: e poi giù, giù, ancora, nello spazio e nel tempo, fino a Roma, (non via, Roma), trascinando con sé, nei versi, nelle raccolte, le sere d’estate, “le allegre cantate / dall’osterie lontane, e le risate / dei giovani in amore”, mentre “Il mare brucia le maschere, / le incendia il fuoco di sale”: in rima con il “rogo del Carnevale”.

Genova. Livorno. E ancora giù, nello spazio, nel tempo; e nei versi.

Finché prenda consistenza lo spazio dell’esilio, il Passaggio d’Enea diventi un Paesaggio del cuore; il Seme del piangere dantesco uno spazio – purgatoriale, portuale – dove tutte le adolescenze del tempo si dispieghino in un tempo ritrovato a forma di Genova. E di Livorno.

Il “marmo di maggio” sulla fronte: “e uno strazio di sangue dal […] lignaggio etrusco”, fino a Ponte Milvio, fino alle catacombe sull’Appia. Fino alla “luce rossa di Roma” che, scrive Caproni, lo trova solo. Mentre “scotta / la maschera rossa d’Etruria”, il tempo s’impossessa dei luoghi e ne fa rovine nuove che possano essere abitate dagli anni lontani della giovinezza.

“Io come sono solo sulla terra”.

È il terzo dei Lamenti del Passaggio d’Enea. Ormai sono gli anni Cinquanta. È il 1956. Un anno dopo Ragazzi di vita. Un anno prima del Pasticciaccio.

“Io come sono solo sulla terra

coi miei errori, i miei figli, l’infinito

caos dei nomi ormai vacui e la guerra

penetrata nell’ossa!…”

Poi parla con il padre. Anchise. O Attilio. Non importa. Quantomeno, nei versi, ora, non importa più il nome del padre. “Tu che hai udito / un tempo il mio tranquillo passo nella / sera degli Archi a Livorno”. Basta questo, per indicare un padre. E una città che non esiste più, apparentemente.

I passi. I passaggi. I paesaggi.

Magari attraversati con i congedi cerimoniosi di qualche viaggiatore.

In treno – da sempre la passione del bambino Giorgio, del futuro poeta: “Quand’ero ragazzo e mi domandavano”, scrive Caproni nel racconto La valigia delle Indie, “che cosa avrei fatto da grande, con la massima sicurezza rispondevo: il macchinista”.

In treno, sì.

O in bicicletta. Che è poi una delle rime perfette con fretta della poesia di Caproni. Nell’Interludio delle Stanze della funicolare: “anime in fretta / posare la bicicletta” (e con “anime in fretta”, nelle note alla raccolta, Caproni scrive “vorrei s’intendesse ‘anime fabbricate in fretta, in serie’”).

Ma poi, agl’inizi dell’Ultima preghiera tra le meraviglie del Seme del piangere: “Anima mia, fa’ in fretta. / Ti presto la bicicletta, / ma corri”. E molto, molto dopo, in Andando a scuola: “Un prete in bicicletta, / all’alba, che fretta”.

A testimoniare, anche, che nell’arte, nella poesia, anche quando si ripetono le stesse parole, le stesse rime, gli stessi suoni: tutto l’universo cambia comunque, volendo, nelle intenzioni.

E accade come nel Bestiario, famoso, di Woody Allen.

(La mia eterna ripetizione / nell’interpretazione).

Il mostro che ha un corpo di leone. E la testa di un leone.

Non necessariamente lo stesso leone.

Come per il mare. Il concerto salino della sua musica. Le onde che si accavallano – o accavallònano, a seconda dell’intensità – e che si seguono l’una, sull’altra, come il ritmo spumoso di versi che si scandiscono, da soli, nella finta eternità concava di ogni corpo d’acquacome si dice.

Nello spazio. Nel tempo.

Sì. Perché gli esilî luminosi e salati di Caproni riguardano il tempo quanto lo spazio. 

Non si muove solo tra i luoghi.

Il mare di Caproni -

Ma anche nel tempo; e nei suoni che lo fermano (e lo firmano); nelle musiche della propria memoria privata, solo anticamente segreta.

E Genova e Livorno si confondono – come note l’una dopo l’altra in una battuta, in una partitura; come onde della stessa risacca – nella giovinezza diffratta di una madre, più che di un padre.

E adesso.

Un’ultima attenzione.

Perché siamo alla fine del viaggio: e Giorgio Caproni non è ancora nato.

[Ora. Le parole in musica dovrebbero essere quelle di Piero Ciampi. Sul porto di Livorno, magari. O, variando di digressione in digressione, “prima un bacio, poi un altro”, fino ai disincanti recitati di Ha tutte le carte in regola “per essere un artista”. Ciampi: anche per voce altra; magari Nada, sempre Sul porto di Livorno, in un altro tempo che si rincorre, fino alla considerazione vera, doppia, che salda parole e musica per sempre. Io non ho perduto il mio cuore strada facendo]

3. Io ho lasciato il mio cuore sul porto di Livorno.

C’è, in una delle prime poesie, Alle mondine, scritta prima del 1937, nel Ballo a Fontanigorda dedicato a Rina, quest’incipit di tre versi e mezzo prima di un ma di augurio alle stesse mondine cui la poesia è dedicata.

Picchi il sole le vostre / tènere carni – vi chini / il lavoro sull’alidore / dell’acque”. (“Ma sempre abbiate / nel viso sudore / madido, l’acceso riso / dei soldati alle estive / manovre.” Continua così).

Ma.

Picchi il sole.

Un’esortazione al sole, certo. Ma anche – talvolta lo fa, Caproni – quasi (anche quasi è un avverbio musicale che lo definisce: lo definirà, soprattuto, più o meno dal Franco cacciatore in poi) ― quasi sembra che picchi ricordi le vette di Rina, lontane qualche poesia prima della Pausa precedente in cui “la piana cede al sonno”.

Quindi: una sintassi nascosta e segreta che è, Caproni.

Ma.

Picchi.

Anna Picchi. 1894, 1950.

È la madre di Giorgio.

Picchi, il sole. Il sale della terra e il Seme del piangere.

Raccontata per sempre giovane; e solare, tra le strade e i canali di Livorno della sua giovinezza.

Se Genova e la Liguria sono/ è la sua moglie e amante; Livorno è sua madre senza di lui.

Il passaggio – il paesaggio – di Anna tra i vivi è il ricordo radioso di ricordi che può solo riscriversi, in versi, attraverso di lei.

L’uscita mattutina. “Come scendeva fina / e giovane le scale Annina! / Mordendosi la catenina / d’oro, usciva via / lasciando nel buio una scia / di cipria, che non finiva”.

E ogni volta, ogni volta che il vento dei versi mostra la scia profumata di Annina: io sono lì, a innamorarmi di lei, in Cors’Amedeo, seguendola per le vie di Livorno all’inizio del secolo scorso, ferito, ma radioso della giovinezza veloce e raggiante di Anna Picchi.

Che “passava odorando di mare / nel fresco suo sgonnellare”.

Livorno le si apriva

tutta, vezzeggiativa:

Livorno, tutta invenzione

nel sussurrare il suo nome.

La bellezza di recitare un nome di città e di evocarlo di aggettivi. Lo fa nella Litania per Genova, Caproni. Lo fa nelle poesie livornesi per Anna.

Perché “Livorno, quando lei passava, / d’aria e di barche odorava”.

Anna sua madre; e Livorno. Raccontate in versi che ne diano la forma. E il senso.

Per lei voglio rime chiare,

usuali: in –are.

Rime magari vietate,

ma aperte: ventilate.

Rime coi suoni fini

(di mare) dei suoi orecchini.

O che abbiano, coralline,

le tinte delle sue collanine.

Rime che a distanza

(Annina era così schietta)

conservino l’eleganza

povera, ma altrettanto netta.

L’eleganza povera, ma altrettanto netta.

Ecco.

“Ogni volta che il vento dei versi mostra la scia profumata di Annina: io sono lì, a innamorarmi di lei, in Cors’Amedeo, seguendola per le vie di Livorno all’inizio del secolo scorso, ferito, ma radioso”.

Nella poesia di Caproni c’è la meravigliosa, imprudente, geniale, bellissima scia di tutte le musiche che l’hanno attraversato e compostoricomposto – per trasformarsi in versi.

I suoi.

Freschi come i bicchieri

furono i suoi pensieri.

Per lei torni in onore

la rima in cuore e amore.

Due coppie di versi baciati. Quattro settenari. Attacco di prima nei primi due. Di seconda nei secondi due. L’andare e il riandare / di un’onda di mare. Un’onda di confine. Tra l’inizio e la fine.

Ecco.

Non abbiamo letto Litania. Né il Congedo. Nessuno degli aforismi eterni del Conte di Kevenhüller, né le rastremazioni al silenzio di Res Amissa.

Eppure. Le musiche di Giorgio Caproni ci accompagnano tutte, comunque, nell’infinita possibilità di variazioni che lui ha fermato – e firmato – nei tempi dei versi.

Perché cosa fa, Caproni, con i suoni? 

Con le sue permutazioni Caproni fa quello che fa la grande arte sempre.

Un segno minimo, un fonema, un suono in più o in meno.

Il girino diventa rana (o ciclista, a vederci doppio). Un ragazzo un uomo.

Una madre, ragazza; e il padre di Enea tuo padre.

E magari tu stesso Enea che si mette sulle spalle, quasi avesse solo cinque anni d’infanzia, la giovinezza della tua stessa madre per traghettarla da un purgatorio portuale a un altro.

Gli aggettivi si intrecciano e si inventano, una faccia può essere biancoflautata, o flautoscomparsa.

Il dono diventa abbandono per inclusione. E limàndosi la prosa si fa rosa.

Il Mar Tirreno diventa Mar Ligure. O viceversa.

Questa, la grandezza fisica della poesia.

Appropriarsi dello spazio e trasformarlo in tempo, e quei luoghi nel tempo, persempre.

(Perché. Forse).

La poesia è acrostica e bustrofedica, comica e tragica, onirica e chimerica, conica e sferica; va avanti e indietro nello spazio e nel tempo come i versi del Mare di Caproni.

Riscrive le città e le persone incatenàndole per sempre alle rime complesse delle loro scie veloci; e le rende eterne.

Per quel che si può.

E allora.

Se esistono già una Livorno di Caproni. Una Genova di Caproni. Una Roma, di Caproni.

Una Palermo: di Caproni.

Il mare non lo conobbi:

fui conosciuto dal mare.

Scrive Caproni all’inizio del suo Divertimento.

Ora.

Esiste già un’isola di Capri. E Caprera.

Chiamiàmolo il “Mare di Caproni” quel tratto incerto di onde cui è difficile dare un confine preciso; tra Piombino e La Spezia: e, in scia, lungo tratti sparsi di Tirreno fino a Roma.

Quel corpo d’acqua in cui le madri partite hanno sempre vent’anni; e gli universi possono ondeggiare e fluttuare come i capelli del nostro amore di una vita, come le spume di mare al largo quando non le vediamo, rileggendo e magari riscrivendo ogni volta tutto il nostro errare; tutti i nostri errori.

Il mare di Caproni -

Del resto, lo chiarisce bene Caproni (davvero pensavate che non avrei citato niente dalle raccolte più vicine? Davvero continuate a fidarvi di me?) in una delle poesie del Franco cacciatore.

Nella sezione Stringendo

Errata

Non sai mai dove sei.

Corrige

Non sei mai dove sai.

La foto di copertina e il secondo scatto di questo articolo sono entrambe rielaborazioni grafiche di originali ritratti fotografici di Dino Ignani, che ringraziamo per la gentile concessione.

1

 

Questo testo nasce come lettura (il 25 giugno 2024) per la rassegna “Baedeker – Guide turistiche letterarie (Italia)” organizzata per “L’Estate al Torrione” in collaborazione con Ragù Podcast (Emiliano Ceresi, Giacomo Ferrara, Mattia Fiorillo) & Paola Moretti di Libreria Trastevere. Più che lettura può dirsi una delle (tante) lettere d’amore a Giorgio Caproni scritte negli anni come ringraziamento per le letture che mi ha regalato. Mi piace fermarla per iscritto mantenendo però più o meno intatti i toni (e gli spazî) orali della resa teatrale.

 

Per questo blues marino, mi sono stati di faro e lume Giorgio Caproni, Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 2006 (1999) [in particolare, dalla sezione Alcuni scritti sulla poesia di Caproni: Pier Paolo Pasolini (pp. 985-88), Giovanni Raboni (pp. 989-94) e Giorgio Agamben (pp. 1013-27)]; Giorgio Caproni, La valigia delle Indie e altre prose, a cura di Adele Dei, Pistoia, Via del Vento Edizioni, 1998; Giorgio Caproni, Amore, com’è ferito il secolo – Poesie e lettere alla moglie, a cura di Stefano Verdino, San Cesario di Lecce, Manni, 2006. Mi sono poi talvolta ricordato del mio “In terra di smarrimento”. Alcune note linguistiche su Res Amissa. Che voglio citare Qui perché fa parte della raccolta di saggi – curata da Valeria Della Valle e da Pietro Trifone – Studi linguistici per Luca Serianni

Giordano Meacci

Giordano Meacci è scrittore e sceneggiatore. Il suo ultimo libro è Acchiappafantasmi (Minimum Fax, 2023).

newsletter

Le vite degli altri

Le vite degli altri è una newsletter che racconta di vite che non sono la nostra: vite straordinarie, bizzarre o comunque interessanti.

La scriviamo noi della redazione di Lucy e arriva nella tua mail la domenica, prima di pranzo o dopo il secondo caffè – dipende dalle tue abitudini.

Iscriviti

© Lucy 2024

art direction undesign

web design & development cosmo

sviluppo e sistema di abbonamenti Schiavone & Guga

lucy audio player

00:00

00:00