La redazione di Lucy
09 Ottobre 2025
Il conferimento del Nobel per la Letteratura è l’occasione per leggere o rileggere un autore sofisticato, più godibile di quanto sembri, ed eternamente attuale nell’articolare un discorso coerente su Tempo, Storia e sulla fine del mondo.
L’ungherese László Krasznahorkai ha vinto il Nobel per la Letteratura 2025, non sorprendentemente, visto che era dato tra i favoriti e da anni si fa il suo nome, ma probabilmente destando qualche spaesamento nei lettori italiani. Comprensibile che molti non lo abbiano mai letto o non ne abbiano mai sentito parlare, visto che le sue opere sono arrivate in Italia tardivamente: la prima traduzione di Satantango, la sua opera d’esordio e quella più famosa, è del 2016, oltre trent’anni dopo la sua uscita. E la ragione della sua pubblicazione per Bompiani è probabilmente da ricercarsi nella vittoria, l’anno precedente, dell’International Man Booker Prize. Insomma, qui ci siamo arrivati per ultimi o quasi.
Prima del libro, è arrivato in Italia l’adattamento cinematografico di Béla Tarr, sodale e amico di Krasznahorkai (i due assieme hanno scritto Perdizione, L’uomo di Londra, Le armonie di Werckmeister e l’ultimo film del regista, Il cavallo di Torino), e autore di massima importanza. Il film è di una lunghezza capace di demotivare i non iniziati: sette ore, piani sequenza statici, il primo nei minuti iniziali, con la camera che segue mucche ciondolare nell’aia. Il film, anche se questa breve descrizione non gli rende onore, è un capolavoro ma è probabile che la sua fama di opera ostica e senza compromessi abbia scoraggiato anche chi si sarebbe potuto avvicinare al libro.
Ma László Krasznahorkai è inaccessibile più per il nome quasi impronunciabile che per la scrittura, che è sì consapevole e studiata ed erudita – da talentuosissimo tardo modernista, che pure non disdegna le deflagrazioni sintattiche e formali e gli sperimentalismi arditi come in Herscht 07769 – ma capace alle volte di tendere le labbra del lettore in un sorriso, che presto lascia il posto a un’amara smorfia. In questo, non è dissimile da Franz Kafka che, assieme al Malcolm Lowry di Sotto il vulcano, è stato lo scrittore più amato da Krasznahorkai in gioventù e di certo quello a cui sarà debitore per tutta la vita. Le prime pagine di Satantango illustrano bene alcune delle sue qualità più spiccate: l’incipit da romanzo gotico (la pioggia autunnale pronta a cadere e a devastare le campagne ungheresi, il fetido mare di fango che presto ricoprirà tutto, un suono eerie, squillante e trionfante che “più che far pensare a rintocchi lontani di campane, sembrano provenire da molto vicino – ’forse dal mulino…’ –, come se fossero trasportati dal vento”), indice di una grande padronanza dei generi; una tessitura sintattica musicale, controllata ma torrenziale; soprattutto un’idea di fine imminente ma continuamente procrastinata. Vi è nel romanzo l’idea di una piccola apocalisse, di un mondo al collasso ma nel quale i personaggi sono invischiati, trattenuti come da una forza oscura e limacciosa. Come in certi romanzi yiddish dell’Europa centrale e orientale, l’attesa di un Messia o di un salvatore crea un fermento e una speranza di redenzione o fuga destinato a essere disatteso; basti pensare ad esempio a Satana a Goray di Isaac Bashevis Singer.
Satantango è del 1985 e la similitudine con l’esordio di Singer è motivata da un dato storico: così come gli ebrei europei del Seicento si aspettavano la fine del mondo (indicata con certezza da complessi calcoli cabalistici) e la redenzione attraverso il (falso) messia Sabbatai Zevi, in Ungheria il comunismo stava gradualmente sfaldandosi e con esso un sistema di valori e consuetudini. I personaggi di Satantango, ambientato in una cooperativa agricola in disfacimento, sono fantocci obbligati a ripetere gli stessi gesti, a ingozzarsi tutte le sere di patate speziate, a ubriacarsi di palinka o kevert, nell’attesa di qualcosa che sembra non arrivare mai: l’indennizzo per la chiusura della cooperativa. Abitano le macerie nella speranza della fine. Il tempo è ricorsivo, frustrante nella sua circolarità desolata; le piogge battenti, la melma che fa sprofondare fino alle ginocchia, contribuiscono a rendere incerto il suo scorrere. I messia sono qui due figure ambigue e furbesche, cialtrone e sinistre, Irimiás e Petrina, creduti morti e tornati al villaggio – i morti ritornano, come in Satana a Goray, anche se lì sotto forma di dybbuk. Come il K de Il castello di Kafka, qui è Futaki (colui che all’inizio del libro sente quei suoni come di campane) a vedere la realtà con maggiore chiarezza e lungimiranza, ma senza per questo riuscire a opporsi alla sua inscalfibile natura fatta di alienazione, ripetitività e inesorabile rovina; anzi, coltivando egli una più accesa e irragionevole speranza di salvezza, è destinato a maggiore frustrazione (“Mi devo decidere, non posso restare qui” / Al più tardi domani parto” / “Andrò verso Sud […] affitterò un casale vicino a qualche prosperosa città e starò tutto il giorno con i piedi a mollo in una bacinella d’acqua calda […] E cerco di dimenticare tutto, solo una bacinella d’acqua calda la sera, senza fare nulla, solo stare a guardare mentre scorre via ‘sta vita di merda”). Libro perfetto – anche a distanza di anni – per i nostri tempi che paiono, alle volte, senza via d’uscita, assediati da insidie soverchianti, delle quali solo vagamente intuiamo le fattezze. E infatti, l’Accademia svedese gli ha conferito il premio alludendo al “terrore apocalittico” che innerva la sua opera che, oltre a Satantango, è vasta ed eclettica e spazia da romanzi (Melanconia della resistenza, Il ritorno del barone Wenckheim, il già citato Herscht 07769 tra gli altri), a raccolte di racconti e saggi.
“L’ungherese László Krasznahorkai ha vinto il Nobel per la Letteratura 2025, non sorprendentemente, visto che era dato tra i favoriti e da anni si fa il suo nome, ma probabilmente destando qualche spaesamento nei lettori italiani”.
Krasznahorkai non è certo un ottimista; in una recente intervista di Vanni Santoni, uscita per «Le parole e le cose» dice: “Noi non siamo in grado di salvarci. Le contingenze alle quali siamo esposti, dalle quali dipendiamo, tra cui la morte, ci appaiono troppo pesanti, troppo smisurate, perché non rientrano nella nostra visione causale del mondo. Quando riflettiamo sulla nostra esistenza, ci fermiamo ai limiti della comprensibilità, quando ci poniamo delle domande, queste non possono che essere sbagliate per il semplice fatto che formuliamo domande, mentre invece dovremmo rimanere in silenzio, fare ciò che facciamo, e basta. Tanto accade comunque ciò che accade, mentre per quanto riguarda la nostra salvezza, la forza della nostra immaginazione è enorme. Da molto, ma molto, ma davvero moltissimo tempo non aspettiamo più dei profeti, perché ciò di cui abbiamo bisogno sono i falsi profeti. Abbiamo bisogno che ci mentano dicendo che abbiamo motivo di sperare. Di questo abbiamo bisogno. Tanto lo sappiamo benissimo di non avere alcun motivo di speranza. Che ci mentano e ci dicano che andrà meglio, che sarà tutto più luminoso, che sarà più lungo ciò che è breve, che sarà più lento ciò che è veloce. Preghiamo Dio e temiamo il Male. Non ci lasciamo mai alle spalle l’infanzia. Oltre tutto, da adulti, non siamo altro che bambini malvagi, depravati, miserabili, perdenti, o amaramente vittoriosi”.
Siamo davvero bambini malvagi o miserabili che coltivano, ingannandosi, una fioca speranza di salvezza? Siamo quindi pronti a credere al primo imbonitore che ci arringa suadentemente aggressivo? Parrebbe di sì. Ma leggere oggi uno scrittore come Krasznahorkai non significa, forse, cercare in esso una conferma delle più tetre visioni apocalittiche, ma una possibilità di articolare con altre parole – con una voce insinuante, che ha il ritmo di una melodia di terrorizzante bellezza – la consapevolezza che la Storia non è un percorso lineare. Accettarlo significa accettare anche l’assurdo delle nostre vite.
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