Il taser è l'ennesima arma che risponde al dolore con la violenza - Lucy
articolo

Valeria Verdolini

Il taser è l’ennesima arma che risponde al dolore con la violenza

15 Luglio 2024

Definita l'arma meno letale al mondo, il taser è in realtà l’ennesimo strumento che permette alle istituzioni di rispondere in modo violento alle richieste di aiuto dei suoi cittadini. Carlo Lattanzio, morto qualche giorno fa dopo un malore seguito alla scarica elettrica degli agenti che aveva chiamato per aiutarlo, ne è la prova.

Il taser è stato definito “l’arma meno letale al mondo” dai suoi produttori, eppure la notte del 9 luglio 2024, allo Sporthotel di Colle Isarco, Carlo Lattanzio, operaio pugliese di 42 anni, è deceduto per un malore causato dalla scarica elettrica di un taser. Era stato Lattanzio  stesso a chiamare gli agenti di polizia in stato di agitazione. Dopo qualche tentativo di rassicurazione da parte della centrale operativa, i carabinieri sono arrivati accompagnati dal personale sanitario. Il comunicato recita: “L’uomo, in evidente stato confusionario dovuto presumibilmente all’uso di alcool e stupefacenti, si rifiutava di aprire urlando frasi sconnesse e lanciando i mobili all’interno della stanza. L’uomo si è prima lanciato da una finestra da un’altezza di circa 2 metri e mezzo. Rialzatosi dopo la caduta, ha tentato di aggredire i carabinieri, che hanno utilizzato il taser per fermarlo. Immobilizzato, sono intervenuti quindi i sanitari per procedere alle cure. In quel momento però l’uomo ha accusato il malore, e dopo svariati tentativi di rianimazione è deceduto dopo circa un’ora per arresto cardio-circolatorio”. 

Questo caso non è il primo, e ricorda una vicenda dell’estate scorsa, quando un trentacinquenne che girava nudo per strada a San Giovanni Teatino, in provincia di Chieti, in evidente stato di agitazione (già seguito da una struttura sanitaria per problemi psichici) è stato fermato dai carabinieri. Anche in quell’occasione le forze dell’ordine erano ricorse al taser. L’uomo in un primo momento aveva resistito alle scariche e preso a testate un’auto. Una volta immobilizzato, era stato sedato dai sanitari chiamati in soccorso. Era poi morto sull’ambulanza diretta all’ospedale. 

Ci sono varie ragioni per cui queste storie ci interrogano, e non tutte riguardano direttamente la scelta e l’utilizzo di una nuova e discutibile arma in dotazione. In Italia, le sperimentazioni sul taser sono iniziate nel 2014, seguendo il modello statunitense e francese, e si sono intensificate con il decreto sicurezza di Salvini nel 2018, per poi approdare nel 2020, ad un regolamento per il suo utilizzo. Già in quell’occasione, il Consiglio Superiore di Sanità aveva evidenziato come il taser potesse comportare arresti cardiaci, anche a fronte dei molteplici decessi raccontati sia dall’agenzia Reuters sia da Amnesty International

“Quello che colpisce, dei recenti casi, è la similarità del contesto in cui è stata utilizzata l’arma, proprio quel medesimo contesto in cui sarebbe necessaria una maggior cautela: la gestione securitaria di un problema sanitario”.

Nei contesti in cui questo tipo di strumentazione è utilizzata da più  tempo, sono stati evidenziati gli “effetti collaterali” che queste scariche elettriche producono, soprattutto legati all’impossibilità diagnostica delle condizioni cardiache, neurologiche o ginecologiche di chi le riceve. 

In un comunicato stampa del 2022 – oggi profetico – il Garante Nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, aveva affermato che il taser era un’arma e proprio per questo il suo utilizzo andava riservato a situazioni eccezionali e come extrema ratio, e raccomandava “speciale cautela nel suo utilizzo nei confronti di persone di particolare vulnerabilità psichica o comportamentale”.

Per questo, quello che mi ha colpita nel caso di Colle Isarco, così come nel caso di San Giovanni Teatino, è la similarità del contesto in cui è stata utilizzata l’arma, proprio quel medesimo contesto in cui sarebbe necessaria una maggior cautela. Se le ricostruzioni saranno confermate, si è trattato di due casi di gestione securitaria di un problema sanitario. Nel caso altoatesino, peraltro, la persona che è deceduta era la stessa che aveva chiamato gli agenti, in un momento di estrema fragilità psichica.

Le persone con vulnerabilità psichiatriche assistite dai servizi specialistici nel corso del 2022 ammontano a 776.829 unità, circa 154 ogni 10000 abitanti. I due casi raccontati finora rappresentano degli eventi estremi, ma non così rari. Perfino nelle parole che si usano per descrivere i momenti di agitazione e sofferenza di queste persone si annida un’ambiguità. Chiamiamo questi episodi di dolore estremo usando il termine “violenza”, descritta come “sorda” o “cieca”, due aggettivi che rendono meno capaci coloro che se li trovano affibbiati. Sono aggettivi che tolgono i soggetti dalla relazione, dallo scambio con il mondo e con chi li circonda. Sono aggettivi che li rendono “pericolosi” e quindi destinati a forme di disciplinamento e controllo. Le parole stesse evidenziano l’anormalità della violenza, e implicitamente evocano una risposta straordinaria. Lo scambio tra il dolore e la violenza è lo scivolamento dal sanitario al penale. 

Sono la prima ad essere consapevole che stiamo attraversando  una fase in cui spesso gli abissi di dolore altrui che ci si spalancano davanti sono difficili da sondare sia per le famiglie sia per le istituzioni chiamate a svolgere funzioni di cura o controllo. In carcere quotidianamente si incontrano persone all’apparenza “inagganciabili”, che distruggono sé stesse e tutto ciò che le circonda. Sono coloro che arrivano alla detenzione dopo episodi come quelli di queste cronache, ma dagli esiti meno tragici. Eppure, in questo genere di situazioni emergenziali, quando c’è bisogno di levare le persone dai contesti domestici, ci sono poche destinazioni possibili: l’ospedale, prima il pronto soccorso e poi gli SPDC, le sovraffollate comunità e il carcere. Persone che in carcere non dovrebbero stare, ma che arrivano lì quando vengono esaurite le alternative possibili. Ed è lì che ho imparato, mio malgrado, a confrontarmi con l’impotenza di fronte a tanta sofferenza.

“C’è una continuità sempre meno distinguibile tra la diagnosi, la cura, il controllo e l’incapacitazione. In che modo cura e custodia sono in relazione? Perché abbiamo iniziato a chiedere alle agenzie di controllo di gestire anche la salute e la sofferenza?”.

Solo negli ultimi mesi, ho visto un giovane adulto in una cella di isolamento. A mani nude aveva demolito completamente i muri che delimitavano lo spazio del bagno. Si vedeva chiaramente solo il perimetro di quello spazio privato, intimo, fatto di un lavabo e di un water. Quest’ultimo, privo di scarico funzionante, era colmo di urina. Il nostro avvicinarci come osservatori, in quell’occasione, è stato sufficiente per “agitare” il detenuto, che ha dato un calcio secco alla ceramica del sanitario. Il water si è rovesciato, la stanza si è riempita rapidamente di un velo lucido di urina. Tanto l’uomo, quanto gli agenti, hanno continuato la frammentaria conversazione come se nulla fosse. 

Nella stessa visita, in un altro blocco, c’era un uomo di mezza età di fronte alle sbarre chiuse con la maglia bruciata. Lo sguardo era vivido, le pupille sfuggivano al contatto. Parlava accelerato. Diceva di essere minacciato di morte dai compagni di reparto. La maglia arsa cadeva larga sulle scarpe. L’uomo diceva , concitato: “Mi sono cagato e pisciato addosso. Ho paura”. 

Una decina di giorni dopo, in un altro istituto penitenziario, in uno spazio chiamato “infermeria”, c’era una cella doppia devastata. La rete del letto era stata utilizzata per distruggere tutto ciò che arredava la stanza da bagno: il lavandino, il bidet, il water, oggetti intuibili solo dai frammenti e dalle schegge sparpagliati nel bagno. La rete era abbandonata tra la stanza di pernottamento e il bagno, appoggiata sul fianco, quasi a ponte tra le due stanze. Il ragazzo nella cella giaceva addormentato sul materasso a terra. Il lenzuolo era zuppo di sangue. Nelle ore precedenti, dopo aver divelto i suppellettili sanitari, si era tagliato e aveva inghiottito pezzi di ceramica. Nella concitazione, affermava di aver anche ingerito pezzi di mattone. Era stato ricoverato d’urgenza e dimesso. All’ecografia, per fortuna, non c’era riscontro degli scarti laterizi che aveva forse ingurgitato. Era stato riportato nella cella rotta. 

Negli ultimi anni questi episodi si confondono nella memoria. Qualcuno potrebbe contestare che lo spazio del penitenziario e lo spazio pubblico o il domicilio in cui è stato utilizzato il taser, sono spazi molto diversi, abitati da persone e relazioni differenti. Questo è vero, ma c’è una matrice comune della sofferenza che li attraversa, e la domanda che viene posta alle forze dell’ordine e alle istituzioni di sicurezza per trovare una soluzione che si armonizzi con le istituzioni sanitarie è la medesima. Spesso le strutture penali rappresentano una continuazione dei falliti percorsi sanitari. 

“Possiamo rispondere al dolore con un’arma? Un’arma non guarisce, aumenta la sofferenza. Un’arma che punisce, come se il tormento fosse colpevole. Un’arma i cui usi impropri possono avere conseguenze mortali”.

Genitori esasperati che denunciano i figli per maltrattamenti. Fermi di polizia che scatenano agitazioni e successivi ricoveri. C’è una continuità sempre meno distinguibile tra la diagnosi, la cura, il controllo e l’incapacitazione. Di cosa parliamo quando parliamo di cura? In che modo cura e custodia sono in relazione? Perché abbiamo iniziato a chiedere alle agenzie di controllo di gestire anche la salute e la sofferenza? Perché la presa in carico viene gestita spesso solo in chiave disciplinare? 

Come siamo arrivati a questo punto, nel paese che è stato avanguardia mondiale sulla salute mentale con la legge 180? Il controllo costa meno della cura in termini temporali e di risorse investite sul breve periodo, ma non risolve il problema, e spesso lo aggrava. Lasciare alle agenzie di controllo l’onere di gestire la sofferenza sociale significa ignorarne tanto le cause quanto le conseguenze. 

Diceva Basaglia: “Se ricevo una persona che non ha un rapporto con me perché io non capisco cosa dice, e che quindi io considero al di fuori della logica, cioè folle, ho due possibilità: o mi metto nella posizione […] di etichettare, di rispondere all’aggressione che ti fa il malato con la sua follia – oppure, devo considerare che cosa vuole questa persona”. 

In questo contesto in cui gli investimenti sociali sono pochi e sono cambiate le funzioni dei presidi di controllo, la dotazione di nuove armi sembra – nelle intenzioni del governo – l’antidoto a tali problemi. Il taser, di fatto, rappresenta l’ennesima opzione che attutisce le responsabilità individuali – è l’opzione meno pericolosa –, normalizza la paura e l’incapacitazione fisica nella gestione della sofferenza psichica; codifica un uso della forza, preserva l’integrità fisica degli agenti, ed è un alibi utile a spostare la gestione degli agitati dallo spazio di cura a quello di controllo. L’arma permette di aggirare la fondamentale risposta richiesta da questo tipo di sofferenza, ossia la capacità dialogica e una competenza relazionale che possono fare la differenza in questi casi. Il taser, grazie alla sua capacità paralizzante, permette di non chiedersi “che cosa vuole questa persona”. Il taser opera “a distanza”,  impedisce la relazione dialogica, e riafferma quella di potere e forza. Ma soprattutto, è un’altra arma in un contesto in cui l’impotenza spesso si mescola alla paura. Possiamo rispondere al dolore con un’arma? Un’arma non guarisce, aumenta la sofferenza. Un’arma che punisce, come se il tormento fosse colpevole. Un’arma i cui usi impropri possono avere conseguenze mortali. 

“Esiste una forte connessione tra sofferenza individuale e violenza strutturale. La domanda e la risposta devono essere collettive, e non lasciate ai singoli o agli agenti, che confondono il dolore con la violenza e agiscono di conseguenza.”

Oggi, dopo questi due decessi, sarebbe importante non solo mettere in discussione l’opportunità di aumentare le armi in dotazione, ma soprattutto ascoltare ciò che certe persone stanno dicendo, capire a chi si rivolge la loro sofferenza e perché non dobbiamo immediatamente bollarla come pericolosa. Non solo per capire e aiutarli, ma anche per comprendere come le nostre vite quotidiane producono e alimentano questi episodi. Perché esiste una forte connessione tra sofferenza individuale e violenza strutturale. La domanda e la risposta devono essere collettive, e non lasciate ai singoli o agli agenti, spesso non formati per queste situazioni, che confondono il dolore con la violenza e agiscono di conseguenza. Solo prendendo sul serio l’ascolto, possiamo fare quello che Basaglia chiamava il “mettere tra parentesi la malattia” e procedere verso la cura. La risposta positiva arriva dalla costruzione di una relazione con l’altro, dal far tornare umana ai nostri occhi la persona che è stata deumanizzata dalla malattia. È un passaggio necessario per uscire dall’eccezionalità, vedere colui o colei che soffre e agire di conseguenza. 

Questi fatti di cronaca dovrebbero farci riflettere su quali sono le armi efficaci che possediamo per la crescente sofferenza sociale e psichica. Di certo non si tratta di armi di ordinanza, ma di parole e tempo, armi poco esplorate e sempre più carenti non solo negli spazi del controllo, ma anche in quelli dedicati alla cura.  

Valeria Verdolini

Valeria Verdolini è ricercatrice universitaria, sociologa, attivista e presidente di “Antigone Lombardia”.

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