Graziano Graziani
In collaborazione con
05 Dicembre 2024
Da Rafael Spregelburd a Ivan Vyrypaev, un racconto delle Giornate d’Autore al Reggio Parma Festival.
Rafael Spregelburg, drammaturgo e regista argentino le cui opere sono tradotte e allestite in mezzo mondo, è un autore straordinario. Per intenderci: se esistesse un Premio Nobel dedicato in via esclusiva alla letteratura teatrale sarebbe uno dei primi tre nomi del presente a cui avrebbe senso assegnarlo (non sono pochi i Nobel dedicati ad autori di teatro, va detto, ma il più delle volte sono anche scrittori di prosa, con l’eccezione in epoca recente di Fo e Pinter, figure integralmente teatrali; tuttavia lo sguardo dell’Accademia di Svezia su questo settore della letteratura è stato finora integralmente eurocentrico, con l’eccezione-non-eccezione di O’Neil, statunitense, e soprattutto di Xingjian, che è comunque naturalizzato francese). È proprio dall’America Latina che negli ultimi due decenni sono giunte alcune delle scritture teatrali più sorprendenti e innovative, sintomo non solo di quella vitalità di sguardo che spesso sono in grado di esprimere soltanto i paesi apparentemente “periferici” – rispetto a cosa? alla pretesa e oramai vacillante centralità europea –; ma anche di una convinta valorizzazione della parola teatrale. E non è un caso che questo incrocio di fattori avvenga soprattutto in quell’Argentina segnata periodiche e devastanti crisi economiche, dove sarebbe impossibile immaginare i grandi allestimenti registici che caratterizzano la scena europea. Cos’altro fare, allora, soprattutto quando ci si affaccia a una professione instabile e spesso scarsamente finanziata come quella teatrale?
Rafael Spregelburd è stato il nome centrale delle “Giornate d’Autore” che si sono svolte a novembre al Teatro Due di Parma, una delle iniziative realizzate da Reggio Parma Festival all’interno del progetto Arcipelaghi; una settimana di incontri, approfondimenti e spettacoli dedicati alla drammaturgia contemporanea. La programmazione spettacolare era infatti dedicata all’autore argentino, in scena con tre lavori, ma nell’articolato calendario della manifestazione c’è stato spazio per incontrare alcuni dei nomi più interessanti della drammaturgia contemporanea, da Ivan Vyrypaev, autore russo naturalizzato polacco, alla francese Tiphaine Raffier, dal tedesco Marius von Mayenburg all’italiano Fausto Paravidino. Letture di testi e riflessioni sulla scrittura per il teatro si sono alternati a sessioni altrettanto interessanti – curate da Florian Borchmeyer, che dirige il Find festival alla Schaubühne di Berlino – sul rapporto della drammaturgia con la critica (al quale ha preso parte anche chi scrive) e con i sistemi produttivi. In questa breve relazione, tuttavia, vorrei soffermarmi sulla scrittura, sulle storie e sulle riflessioni che la innervano, perché è quello il nocciolo vivo, la scintilla da cui scaturiscono gli spettacoli basati sulla drammaturgia. Anche perché, attraversandola, si può scorgere, tra linguaggi diversissimi e approcci distanti tra loro, una comune ossessione per il tempo: quello presente e quello eterno.
“Rafael Spregelburd è stato il nome centrale delle ‘Giornate d’Autore’ che si sono svolte a novembre al Teatro Due di Parma, una delle iniziative realizzate da Reggio Parma Festival all’interno del progetto Arcipelaghi”.
Ivan Vyrypaev è considerato da molti studiosi che si occupano di letteratura russa (come Fausto Malcovati) come il più importante autore di teatro in lingua russa di questo secolo. Anni fa, in Russia, i suoi lavori erano persino inseriti nei programmi scolastici, mentre oggi sono stati cancellati: Vyrypaev è stato infatti colpito da un provvedimento penale, condannato a sette anni e mezzo di carcere, per aver diffuso “falsità” sull’esercito russo, fattispecie di reato introdotta subito dopo l’invasione in Ucraina. L’autore, che oggi risiede a Varsavia, è riuscito a scampare all’arresto grazie al fatto di aver ottenuto la cittadinanza polacca, ma questo ha comportato una messa al bando delle sue opere. I suoi testi corrosivi, visionari e giocati spesso su una lingua che riesce ad essere allo stesso tempo profondamente teatrale e intimamente letteraria, sono arrivati in Italia grazie al lavoro di traduzione di Teodoro Bonci del Bene, che li ha spesso anche interpretati e messi in scena (e troppo poco ci ricordiamo, nel mondo del teatro, del ponte culturale importantissimo costruito dai traduttori nel farci conoscere mondi teatrali che utilizzano lingue diverse dalla nostra). Bonci del Bene, anziché dedicarsi a un singolo testo, sceglie di presentare un collage di testi noti e meno noti – come Ufo, Illusioni, Genesi n°2, Agitazione. Ne esce un percorso affilato e doloroso, divertente ed efferato, che attraversa l’inclinazione alla violenza degli esseri umani e la distruzione dell’ecosistema, il bisogno d’amore dei singoli e la necessità di contrastare la morte. Ma soprattutto i tanti fili del discorso sembrano annodarsi attorno a una singolare concezione di Dio che non è persona, ma relazione tra le cose e gli esseri viventi, anzi per l’esattezza “contatto”, poiché tutto è collegato – riuscendo in questo modo a materializzare una vertigine che tiene assieme le teorie più avanzate della fisica e un umanesimo doloroso, forse intento a leccarsi le ferite, ma non per questo relegato nella soffitta della Storia.
Durante l’incontro che segue la lettura Vyrypaev spiega che per lui il presente è una condizione “orrenda”, descritta dalle dinamiche che chiamiamo “postmoderno”, che per lui è peggio del periodo dell’inquisizione, poiché la gente ha smesso di credere nel senso delle cose. Tutto il discorso sulla falsificazione, sulle possibilità di azione delle fake news e sulla mistificazione operata dai governi come dai singoli nasce da questa condizione, che è la crepa da cui filtra uno dei grandi mali della contemporaneità: il narcisismo. Il narcisismo infetta anche quello che di partenza potrebbe avere una finalità positiva – una posizione politica, una postura etica, un’operazione artistica – e finisce per essere un punto di non ritorno delle relazioni umani. È probabilmente da questa consapevolezza che scaturisce il senso di estraneità (quello che prima ho definito un “umanesi doloroso”) che traspare, ora con disperazione, ora con sferzante ironia, dalla scrittura di Vyrypaev.
Nella vicenda di una donna impegnata ad alti livelli nelle organizzazioni umanitarie e nel programma alimentare mondiale, che non riesce a prendersi cura del figlio appena nato, preferendo che ad accudirlo siano ostetriche e tirocinanti, fino a maturare la scelta di darlo in adozione, alberga la contraddizione paradigmatica tra l’etica che professiamo come società e l’empatia che siamo in grado di provare. È solo una delle storie che si intrecciano nel testo La réponse des Hommes di Tiphaine Raffier, tradotto da Giovanni Maria Rossi e messo in lettura da un gruppo di attori con la cura di Nicoletta Robello. Ma non è il gusto del paradosso ad animare la scrittura di Raffier, che pure porta all’estremo certi intrecci affinché si possano cogliere al meglio le contraddizioni che li abitano. Tutto invece parte da un’indagine sul concetto di “misericordia” così come lo definisce l’Occidente di matrice cristiana – accogliere lo stranieri, assistere il malato, etc… – per indagarne le frizioni con la nostra realtà. Ma la misericordia non è un progetto umano – spiega l’autrice nell’incontro che segue la lettura – piuttosto è un progetto divino: nella realtà dei fatti gli individui, più che scegliere di essere “buoni”, vorrebbero “pensarsi” come brave persone, essere considerate come tali. Raffier mette a fuoco lo iato tra l’apparire e l’essere, tra il volere e il desiderare, illuminando un’altra faglia irrisolta della contemporaneità (in modo non dissimile da Vyrypaev, ma con linguaggi molto differenti).
Con Fausto Paravidino ci addentriamo invece nei territori della commedia, anche se si tratta di una commedia che, attraverso la comicità, cerca di operare un disvelamento della natura umana. Non a caso il drammaturgo italiano – che legge assieme ai sodali Iris Fusetti e Daniele Natali il proprio testo – la definisce una “commedia intima”, dove ciò che accade non sono “fatti” ma piccole epifanie, momenti di consapevolezza. “Temporale” comincia con due amici che parlano delle rispettive storie sentimentali, uno è sposato mentre l’altro attraversa molteplici relazioni, ma subito la questione si complica quando il primo confessa di avere un problema: sua moglie è innamorata di un fantasma. O meglio, di un uomo che è morto ma che rimane come presenza, della quale la donna non è in grado di fare a meno. La vicenda, apparentemente surreale, finisce per aprire la porta a una serie di considerazioni sulla natura delle relazioni umane, portate avanti con una certa leggerezza da commedia brillante, grazie al ritmo di battute ben calibrate che però, oltre a far ridere, finiscono per aprire squarci di profondità. È un inedito per Paravidino – uno dei migliori drammaturghi in lingua italiana non solo in quanto “ispirato” (e lo è) ma in quanto in grado come pochi altri di maneggiare la materia tecnica della scrittura teatrale – è un inedito, dicevamo, questo abdicare ai fatti, al “qualcosa che succede”, per stare esclusivamente sul campo delle parole, dei dialoghi che affrontano un tema, poi svicolano e tornano come se nulla fosse a concentrarsi su ciò che di profondo (anche di indicibile) scaturisce da una conversazione. Lo mette lui stesso in evidenza, nell’incontro successivo alla lettura, raccontando questa scelta come un cosciente tentativo di “sabotaggio” di un’abitudine allo scrivere che, se troppo frequentata, può rischiare di divenire meccanismo. Meglio tentare strade meno battute – nonostante lo stesso Paravidino confessi di “aborrire” le commedie di sola conversazione – perché se c’è una cosa che il teatro non deve fare è finire per trasformarsi in un oggetto magari perfetto ma senza relazione con il presente. “Ciò che può fare un autore vivente, in quanto vivente, è essere presente al proprio tempo e sfruttare questa posizione di osservazione per restituire alla propria epoca un’interpretazione”.
E il tempo sembra essere il rovello più incalzante delle drammaturgie di Rafael Spregelburg, a cui torniamo in conclusione di questa breve relazione sulle Giornate d’Autore (che, va detto, hanno messo insieme alcuni dei nomi più rappresentativi della drammaturgia di oggi). Sincronia, ritorno, copresenza sono alcune delle strategie che l’autore argentino utilizza per creare dei veri e propri labirinti di senso attraverso le sue storie, sorrette da un senso della commedia così forte da permettere alla sua scrittura di non cedere mai, in termini di ritmo, nemmeno quando convoca in scena teorie complicate, congegni narrativi ipercomplessi, abissi di dramma che si schiudono nelle backrooms delle sue drammaturgie.
Alcuni anni fa a Buenos Aires ebbi modo di vedere lo spettacolo “La cocciutaggine” – l’ultimo dei sette testi che compone l’Eptalogia di Hieronimus Bosch – in cui Spregelburg mette in scena una serie di avvenimenti che si verificano all’interno della stessa casa, la residenza dell’ufficiale franchista Planc, nella Valencia del 1939. Il primo atto si svolgeva in salotto, dove ha luogo un ritrovo di fascisti e autorità locali; il secondo accadeva in contemporanea, ma nella camera di Alfonsina, la figlia malata di Planc; il terzo, infine, si svolgeva all’esterno della casa, ancora una volta lungo la medesima linea temporale. In pratica ogni atto rappresentava lo stesso tempo in un angolo diverso della casa – casa che ruotava, letteralmente, sul palco, di atto in atto, per consentire una diversa angolatura di visione – tanto che dall’esterno della scena si potevano ascoltare suoni, parole, rumori, già sentiti nell’atto precedente, che venivano così risignificati, visti in una luce diversa. Questa semplice ma geniale disposizione della drammaturgia permetteva non solo di fare esperienza della simultaneità, e con essa della complessità di ciò che chiamiamo “fatto”, ma anche di far combaciare man mano i pezzi del racconto in una forma tridimensionale, più che lineare.
“Con Fausto Paravidino ci addentriamo invece nei territori della commedia, anche se si tratta di una commedia che, attraverso la comicità, cerca di operare un disvelamento della natura umana”.
Il tempo torna ad essere la questione centrale anche dei lavori presentati a Parma. Il più recente, “Diciassette cavallini”, tradotto da Manuela Cherubini (è grazie al suo lavoro quasi ventennale di traduzione che le opere di Spregelburd sono giunte in Italia). Allestito con una compagnia di attori italiani e realizzato appositamente per il Teatro Due, lo spettacolo è composto da due atti indipendenti tra loro ma in realtà profondamente legati. Nel primo, intitolato l’Oracolo invertito, il dispositivo di una seduta psicanalitica ci porta nell’intreccio ben noto della guerra di Troia, dove Cassandra è condannata a vedere il futuro (soltanto se funesto) e a non essere creduta. Il futuro è un concetto che può rivelarsi spaventoso, soprattutto oggi, in epoca di disastri climatici e di difficoltà di comprendere la complessità del presente, e il ricorso al mito paradossalmente finisce per rivelarsi tutt’altro che nostalgico. L’apparizione di Robert Graves, l’autore della “Dea bianca” e sostenitore di una teoria secondo la quale i miti arcaici non sono semplici metafore, ma visioni contenute nel cervello in grado di sprigionarsi nel momento in cui si viene sollecitati dalle giuste sostanze, come i funghi allucenogeni, pone il racconto – che interseca presente e passato mitico – su un ulteriore piano di realtà. E se ciò che vediamo fosse tutto frutto dell’immaginazione (o meglio, dell’archetipo mitico contenuto nel nostro cervello)? Se stessimo assistendo a una distorsione della realtà dovuta a una sostanza versata nel bicchere? Spregelburg spinge l’acceleratore dei possibili rovesciamenti fino a farci piombare in una realtà invertita, dove lo psicologo si risveglia paziente, condizionato dall’iponosi, e quella che credeva essere la sua paziente si rivela la vera psicologa.
Tutto quello che credevamo lineare si rivela dunque duplice, ambiguo, spezzato. Ma nel secondo atto la battaglia con Cronos diventa ancora più radicale: i personaggi (gli attori) compiono gesti che sembrano l’effetto di un tasto rewind, con un riavvolgimento e una riproduzione delle sequenze che suggeriscono un continuo avanti e indietro nel tempo. “Cronos, già a pezzi dall’inizio, non è in nessun luogo e quindi sta dappertutto” dice Cassandra, aprendo a una concezione non lineare del tempo che connette istintivamente il mito alla fisica quantistica, la narrazione alla relatività, il tempo percepito con il tempo dissipato, entropico, della termodinamica.
Anche “Inferno”, spettacolo portato in scena dalla compagnia argentina di Spregelburd, racconta a suo modo una dilatazione: un uomo viene svegliato nel mezzo della notte da due donne vestite da hostess di un’improbabile compagnia aerea e da un uomo (oltre che da un’infernale session man che esegue dal vivo concerti indemoniati). Le due donne sono in realtà due catechiste, che hanno il compito di accompagnarlo in un viaggio attraverso le sette virtù, unico modo di sfuggire a un inferno che si trova in ogni dove: poiché il Vaticano ha “abolito” l’inferno, esso è diventato metafora e si trova ovunque, meglio, in ogni parola. Ma le stesse virtù si rivelano dei “gironi” di un percorso piuttosto infestato: dentro questa trama concentrica c’è la storia di Filipe, giornalista che si occupa di articoli di turismo, e quella di uno scrittore che ha plagiato la storia che racconta e si trova a cercare di sopravvivere alla causa per plagio che gli viene intentata. Una storia si specchia nell’altra, forse una è il plagio dell’altra, e così si alternano le vicende di persone sequestrate come effetto di una finta delazione, fatta per salvarsi la vita a discapito degli altri (un rimando alle sparizioni argentine) e il tentativo di parlare del fiume Mapocho che taglia Santiago del Cile come una forma archetipica della pianta di una città. Il turismo, estrema falsificazione dei nostri tempi, forse non è un’evocazione casuale, né estranea, alle implicazioni plagiarie dell’altra linea di racconto. Solo apparentemente il teatro di Spregelburd sembra distaccarsi dalle questioni del presente, agganciandosi a racconti archetipici e questioni filosofiche, perché la sua “poetica del caos” non fa che evocare tali questioni sulla scena, per poi lasciarle deflagrare.
La trama di “Inferno” è intricata, concentrica, e soprattutto comincia come finisce, rivelandosi (forse) come la dilatazione di un unico infernale momento. D’altronde, per ammissione del suo stesso autore, questo spettacolo è il tentativo di tradurre in scena un’intuizione strana: l’idea che anche il tempo può essere plagiato.
“Il teatro che facciamo nasce come risposta intuitiva al nostro terrore della dispersione. La dispersione delle nostre prese di coscienza, delle nostre scelte, delle nostre affettività”, scrive Spregelburd in uno dei suoi scritto “Sul mio teatro” editi in italiano da Cue Press. Nasce cioè dalla sfida prometeica che il tempo effimero dello spettacolo ingaggia con il tempo eterno che lo stesso spettacolo è in grado di evocare sulla scena. Si può affrontare il presente restando connessi con il mito, attraversare il caos della contemporaneità sperando di ricavarne un ordine per quanto precario, solo a patto di saper connettere i due estremi del tempo teatrale. Che sono sempre un’evocazione dell’esperienza umana nella sua interezza se è vero che a teatro, come afferma Spregelburd, ogni respiro che precede il buio finale della messa in scena è un’allegoria dell’ultimo respiro.
“Si può nascere e morire migliaia di volte? No. Solo in teatro. Per questo lo continuiamo a fare. È l’unica forma di dominio sul tempo che ci hanno regalato gli dèi prima dell’uscita di scena”.
Questo articolo è realizzato in collaborazione con Reggio Parma Festival.
Graziano Graziani
Graziano Graziani è scrittore e critico teatrale. Collabora con Radio3, come conduttore per la trasmissione “Fahrenheit”.
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