Nicola Lagioia
Dopo quelli su Lady D e Jacqueline Kennedy, Larraín completa la trilogia con un film dedicato a Maria Callas. Ma nonostante il talento del regista, il film è una sfida riuscita a metà: troppo stereotipato per essere alto, troppo raffinato per diventare pop.
Come Teresa d’Avila, la Maria Callas di Pablo Larraín interpretata da Angelina Jolie sente le voci. Negli ultimi giorni della sua vita si aggira come un’anima in pena per una Parigi infestata dai fantasmi. Rivede gli ectoplasmi di sua madre, di sua sorella, l’ex marito Giovanni Battista Meneghini, l’amore della vita Aristotele Onassis, se stessa all’apice della carriera. Si rivede trionfare a New York, a Venezia, alla Scala di Milano, alla Royal Opera House di Londra, a Covent Garden. Rincorre i morti, ma soprattutto insegue la sua voce di un tempo. Da quattro anni ha smesso di esibirsi. Vive in una grande casa piena di magnifiche anticaglie, dove è assistita da un maggiordomo devoto (Pierfrancesco Favino) e da un’umile domestica (Alba Rohrwacher). Il primo sposta pianoforti e cerca di evitare che il naufragio dentro se stessa della diva sia totale. La seconda le assicura che canta ancora magnificamente, anche se non è vero. La produzione del film batte anche bandiera italiana (c’è di mezzo Rai Cinema e The Apartment), da qui la presenza nel cast di diversi attori del nostro paese, con anche Valeria Golino che ben interpreta la sorella del soprano.
Maria tornerà a essere La Callas? La vediamo impasticcarsi di Mandrax, un potente ipnotico che le consente di girare strafatta per le strade di Parigi immaginando che per una volta sia la folla anonima a esibirsi per lei sulla scena. Ovviamente è impossibile. Maria entra in un teatro vuoto, si esercita assistita da un maestro che le dice la verità: la sua voce non è magnifica, potrà tornare a esserlo forse se lavorerà, se terrà duro. Peccato che un medico chiamato dal solerte maggiordomo dica a Maria una verità uguale e contraria: considerando il suo stato di salute, se continuerà a esercitarsi nel tentativo di cantare come un tempo (“la sua voce è ormai in paradiso, e su un milione di dischi”) il già debilitato fisico cederà, e per lei sarà la fine.
Dopo il film dedicato a Lady D (Spencer) e a Jacqueline Lee Kennedy Onassis nata Bouvier (Jackie; possiamo immaginare l’armatore greco come Caronte tra due storie), Larraín completa con Maria la sua ideale trilogia di grandi-donne-del-Ventesimo-secolo-chiuse-in-gabbia, e continua con la biopic d’autore (non dimenticherei il suo bellissimo Neruda), il genere che calca da anni in parallelo con la rielaborazione della dittatura di Pinochet in Cile, cui pure ha dedicato diversi film.
“Forse il mestiere è ormai talmente solido (e questo tipo di genere così calcato) da cedere alla prevedibilità, per quanto di pregio”.
Rispetto a Spencer e a Jackie (e a Neruda) qui la maestria del regista si alterna alla stanchezza. Forse il mestiere è ormai talmente solido (e questo tipo di genere così calcato) da cedere alla prevedibilità, per quanto di pregio. Eppure la sceneggiatura è di Steven Knight, autore di un film originale come Locke. La sensazione è di trovarsi su un territorio troppo raffinato per diventare pop, ma troppo stereotipato per crescere in altezza. Faccio un esempio. C’è un momento (onirico e insieme reale, come molti altri del film) in cui Callas siede di fronte a John Fitzgerald Kennedy. Qualche scena prima abbiamo visto il modo in cui Onassis ha sedotto Maria: l’ha portata nella stanza segreta del suo yacht e le ha mostrato un’antica statua greca raffigurante Ermes che ha fatto rubare da un museo di Atene. “Non la mostro mai a nessuno, solo a te”. Bene. Poche scene dopo JFK confida a Maria Callas che Onassis ha invitato lui e sua moglie sullo yacht per mostrare a Jacqueline un dipinto di El Greco. Una telefonata dell’autore a noi spettatori per informarci didascalicamente di ciò che già sappiamo: Onassis ci proverà con Jackie.
Ho insomma a un certo punto avuto il sospetto che ci fossero altri due spettri a vagare per questo film, e a contendersi l’ispirazione del suo autore. Uno è un fantasma benefico (il Billy Wilder di Viale del tramonto), l’altro maligno (il Baz Luhrmann di Elvis). Ho pensato con nostalgia a Tony Manero, in cui Larraín raccontava la Storia attraverso i comprimari, ma capisco il senso di questa sfida, e lo rispetto.
Alla fine della proiezione molti spettatori discutevano su Angelina Jolie: troppo bella e circoscritta negli attuali canoni di Hollywood per incarnare il fascino sfuggente della vera Callas (e forse mostrare quest’ultima nei titoli di coda è un’arma a doppio taglio).
Il principio attivo del Mandrax con cui si impasticca Maria Callas è il metaqualone, il quaalude di Wolf of Wall Street, una droga che ha effetti diversissimi a seconda del regista che ne mette in scena chi la assume.
Verso la fine del film Favino e Rohrwacher spostano mobili nella grande casa parigina. Maria Callas muore. Elvis has left the building.
Nicola Lagioia
Nicola Lagioia è scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico e direttore editoriale di Lucy. Il suo ultimo libro è La città dei vivi (Einaudi, 2020).
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