Giulio Pecci
Dalle esternazioni antisemite all’appoggio a Trump, l'esposizione pubblica di Kanye West si è evoluta in una spirale grottesca che gli ha fatto perdere sponsor e fan. Eppure, ogni volta che esce un suo lavoro – l'ultimo, appena pubblicato, è "VULTURES 1" – è difficile non restare ammirati dal talento con cui Ye intercetta la contemporaneità. E se i suoi comportamenti discutibili fossero il prezzo da pagare per avere musica innovativa?
Si preme play, con prudenza, un po’ come se ci aspettassimo di prendere la scossa. Invece passa il primo brano, poi un altro, e al terzo si sorride e ci si inizia a rilassare. Nel nuovo album di Kanye c’è tutto quello per cui lo abbiamo amato. Synth graffianti come lame, cori gospel che portano in cielo, batterie mutaforma, sample creativi e esilaranti.
C’è, anche, però la sua nuova – ennesima – auto-narrazione: quella del villain del mondo musicale, l’unico “libero pensatore” senza riguardi, fuori da un mercato di benpensanti che è spaventato dalla sua imprevedibilità.
L’ultimo album di Kanye West – o meglio Ye, dal 2018 suo nome all’anagrafe – è arrivato senza troppi ritardi, dopo che il precedente, Donda del 2021, era stato annunciato e rimandato innumerevoli volte. VULTURES 1, scritto in collaborazione con il cantante Ty Dolla Sign, dovrebbe essere il primo episodio di una trilogia.
“Nel nuovo album di Kanye c’è tutto quello per cui lo abbiamo amato. Synth graffianti come lame, cori gospel che portano in cielo, batterie mutaforma, sample creativi e esilaranti, testi deliziosamente esagerati”.
In copertina, su uno sfondo grigio scuro, il musicista è vestito di nero fino al volto, coperto poi da una maschera da hockey simile a quella dell’assassino della saga horror di Venerdì 13. Davanti a lui, ma di spalle, la silhouette irreale di Bianca Censori, designer di Yeezy, l’impero di abbigliamento di West, e sua seconda moglie dopo la separazione nel 2021 dall’influencer Kim Kardashian. Censori è nuda, fatta eccezione per delle calze nere (o sono stivali lunghissimi?) e un comico, striminzito, rettangolo di tessuto trasparente posato sulla zona lombo-sacrale che le copre solo parte del sedere.
Kanye West ha sempre cercato la polemica. In un brano dell’album, “KING”, si riassume così: “crazy, bipolar, antisemite”; “pazzo, bipolare, antisemita”: è quello che l’hanno accusato di essere o sono le incarnazioni che rivendica? In effetti West venne considerato “pazzo” già nei primi anni Duemila, quando – dopo essere emerso nelle retrovie come producer per grandi nomi del calibro di Jay-Z – iniziò a rappare e comporre musica: brani con un’estetica nuova, distante da quella del rap dell’epoca. E del resto un rapper che incentra la narrazione del suo debutto sull’aver abbandonato il college e che decide di mettere in copertina un uomo con un costume da orsetto non si era mai visto.
La voce forse non era indimenticabile ma, complice di un talento enorme nelle liriche, Kanye – con indosso inusuali polo rosa Ralph Lauren – si impose all’epoca come modello per quelle nuove generazioni solitamente escluse dal rap. Gli stessi ascoltatori che oggi idolatrano altri rapper non canonici come Tyler, The Creator: “I put nerds on the map” canta fiero in “BACK TO ME“.
Sei album ognuno a suo modo fondamentale: tra le punte The College Dropout, che è l’introduzione al suo chipmunk soul (mix tra R&B e soul dalle tonalità stravolte); Yeezus che segna una nuova aggressività più “club”, con synth massicci e batterie secche come schiaffi; My Beautiful Dark Twisted Fantasy, il poema epico dei rapper degli anni Dieci, compendio insuperato di tutte le influenze di quegli anni. Poi le prime polemiche, e nel 2016 inizia per West una nuova fase.
Mentre è in giro per presentare The Life of Pablo qualcosa si rompe. Kanye annulla qualche show senza addurre motivazione, si imbarca in sconclusionati sfoghi dal palco, cancella l’intero tour. Viene quindi ricoverato nel reparto psichiatria di un ospedale di Los Angeles dove gli viene diagnosticato un disordine bipolare, diagnosi da allora più volte smentita e poi riconfermata. “I Hate Being Bipolar Is Awesome” è la scritta che compare sulla copertina del primo album dopo il crollo psichico: Ye, del 2018. Un lavoro intriso di dolore e di un precario senso di vulnerabilità.
Ma Kanye era ancora all’apice del suo impero. Nel 2014 aveva sposato Kardashian formando una coppia dal potere mediatico difficilmente replicabile. Nel 2015 aveva debuttato con numeri da record la sua linea di abbigliamento in collaborazione con Adidas. Poi il suo equilibrio aveva iniziato a vacillare: paranoie, offese, provocazioni. È in quel periodo che West incontra e dà il suo appoggio all’allora presidente Donald Trump, facendo imbestialire la comunità afroamericana; peggiora le cose dicendo che, per come la vede lui, quattrocento anni di schiavitù afroamericana suonavano “come una scelta”.
Allo stesso tempo, però, partecipa alle marce per George Floyd e si offre di pagare le spese legali della famiglia. A distanza di due anni dirà invece che Floyd è morto per un’overdose di fentanyl. Ogni polemica, insomma, si fa più tortuosa e grottesca della precedente – le contraddizioni non si contano. In questa fase chi continua a seguire Ye sembra spinto dallo stesso istinto morboso di chi prolunga lo sguardo su un grave incidente in autostrada.
Nel 2022 arriviamo alla terza fase, quella dell’antisemitismo. È l’esplosione finale: in una serie di uscite social e spezzoni di interviste Ye si lascia andare a commenti violenti contro la comunità ebraica, difficilmente comprensibili anche da chi gli è più vicino. Arrivano le scuse, ma sono sempre seguite da nuove provocazioni. Nel singolo “Vultures”, che ha anticipato il nuovo album, Kanye si difende dalle accuse, ma lo fa a modo suo: “How I’m antisemitic? / I just fucked a Jewish bitch”. Ormai tutti sembrano aver rinunciato a capirlo. La critica musicale perde interesse. Vogue, Universal Music Group, Balenciaga, Gap, e Adidas interrompono le loro partnership commerciali con l’artista: una perdita stimata in quasi due miliardi di dollari.
È in questi ultimi mesi che Kanye raggiunge anche il grande pubblico italiano, forse per la prima volta, scegliendo il nostro Paese come buen ritiro dell’impopolarità che si stava guadagnando in patria. Nei settimanali di gossip finiscono le sue bizzarre sfilate estive in diversi centri storici, a piedi nudi e volto coperto; accompagnato da Censori, pericolosamente somigliante a Kardashian, seminuda e con lo sguardo assente (e anche sulla insalubrità della loro relazione si è scritto molto negli ultimi mesi).
“Un artista capace di comporre come nessuno inni generazionali, innovare il tessuto musicale del genere mentre ne abbatteva i confini, e promuovere, album dopo album, l’ascesa di nuove leve”.
Puoi anche essere nell’olimpo dell’hip-hop e della musica contemporanea, o una delle personalità culturalmente più influenti degli ultimi vent’anni, ma non c’è nulla che possa colpire l’immaginario degli italiani come un’accusa (mai smentita) di fellatio pubblica a bordo di una barca nel Canal Grande. Ye ha poi rinsaldato il rapporto con il nostro Paese inserendo nei crediti di “STARS” e “CARNIVAL” la Curva Nord interista (di cui ha campionato i cori) e affidando ai fratelli D’Innocenzo la regia del videoclip di “Talking/Once Again“.
Nonostante le grottesche vicissitudini in cui praticamente ogni giorno è implicato, Ye è ancora qui. E la sua musica fortunatamente non sembra aver subito lo stesso deterioramento della sua immagine pubblica. VULTURES I è forse il suo migliore album dai tempi di quel capolavoro schizoide che è The Life Of Pablo, in cui ogni singolo brano sembrava un insieme di tanti demo diversi, tracce cubiste che esplodevano come fuochi d’artificio.
D’altronde, è difficile criticare il West produttore, che al netto di album più deboli (la pomposità di Watch the Throne, la confusione di Donda, l’electro pop di 808 & Heartbreak: a loro modo comunque tutti album che hanno lasciato il segno) è rimasto sempre un artista con l’abilità di intercettare, anno dopo anno, le tendenze d’avanguardia elaborandole per un pubblico mainstream. Un artista capace di comporre come nessuno inni generazionali, innovare il tessuto musicale del genere mentre ne abbatteva i confini, e promuovere, album dopo album, l’ascesa di nuove leve – è significativa, in questo senso, la sua incoronazione al Circo Massimo durante il live di Travis Scott.
Oggi Kanye sembra aver sintetizzato in provetta la propria arte. Ye è quel tipo di artista in cui “estetica e vittoria vanno di pari passo”, per riprendere ciò che Geoff Dyer scrive di Roger Federer. Ascoltare West è in effetti un po’ come osservare il rovescio a una mano del tennista svizzero: un gesto perfetto compiuto apparentemente senza sforzo, tanto a vent’anni così come a quaranta.
VULTURES I sembra contenere tutti gli album che lo hanno anticipato: una sorta di effetto delay, come nelle foto a lunghissima esposizione che catturano il movimento dei corpi a una festa, sotto forma di fantasmi colorati. Flashback nei testi e sampling per autocitarsi nei suoni: i rimandi al passato di West sono molteplici, ma non c’è traccia di nostalgia. Due esempi significativi: la citazione dell’intro schiacciasassi di “BOUND 2” del futuristico Yeezus che ritorna ora in “PROBLEMATIC”, e il campione di “Iron Man” dei Black Sabbath nella traccia “CARNIVAL”, pochi secondi resi iconici quattordici anni prima dal brano “Hell of a Life” di My Beautiful Dark Twisted Fantasy (ma anche questa citazione si è trasformata in una nuova polemica: Ozzy Osborne ha chiesto la rimozione del sample perché, ha detto, Kanye “è un antisemita che ha causato indicibili sofferenze a molti”).
Altri momenti da ricordare: il baile funk distorto di “PAPERWORK”; gli irresistibili echi house di “PAID”; l’epica “BACK TO ME” impreziosita dal featuring esplosivo di Freddie Gibbs; il sorprendente beat switch e le linee vocali diaboliche di “BEG FORGIVENESS”; la hit “GOOD (DON’T DIE)” con la citazione di “I Feel Love” di Donna Summer (la canzone, però, è stata rimossa dalle piattaforme dopo le accuse di violazione di copyright mosse dagli eredi di Summer). Il suono di tutto il disco è un bacio stampato sulla fronte dell’ascoltatore, ha una qualità digitale immacolata, algida, ma anche un certo senso di “sporcizia” analogica. Un’ora che scorre sorprendentemente senza sforzo, al netto di qualche pezzo riempitivo – una freschezza opacizzata solo dagli autotune sfoggiati dai vari ospiti del disco: Quavo, Playboi Carti, Lil Durk.
“Cancel Culture couldn’t Cancel the Vulture” è uno dei commenti più comuni sotto i video e i post dedicati all’album. Ogni volta che Ye torna alla musica ricorda a tutti il perché è così amato, anche oggi che continua a fare di tutto per ostacolare quell’amore. Capire il caos che è Kanye West (al di fuori della triade pazzo/bipolare/antisemita) è sempre di più un’impresa impossibile.
“‘VULTURES I’ sembra contenere tutti gli album che lo hanno anticipato: una sorta di effetto delay, come nelle foto a lunghissima esposizione che catturano il movimento dei corpi a una festa, sotto forma di fantasmi colorati”.
Al netto della sua condotta da trickster, ormai usurata e sofferta, Kanye rimane però, ancora oggi, una delle figure più in grado di condizionare l’immaginario estetico e musicale delle ultime generazioni.
L’ultimo album è un ulteriore segnale: sotto alla confusione e al polverone mediatico, si nasconde un artista vivo. Ascoltandolo, a tratti, la tentazione è allora quella di scendere a patti con le parole pronunciate dallo stesso West durante un’intervista con David Letterman: “Sapete, se tutti quanti volete queste idee pazze, questi palcoscenici pazzi, questa musica pazza e questo modo di pensare pazzesco, c’è la possibilità che provengano da una persona pazza”.
Giulio Pecci
Giulio Pecci è editor e giornalista freelance. Collabora a diverse riviste dove scrive soprattutto di musica.
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