Valerio Magrelli
07 Novembre 2024
Roma è un museo a cielo aperto, ma gli ultimi interventi artistici nelle vie e nelle piazze della città mostrano quanto sia difficile accostare in modo convincente antico e moderno.
Questo articolo parte da una premessa indispensabile: non sono un critico d’arte, né un urbanista, né un architetto, né uno storico dell’arte, nemmeno uno studioso di estetica. Con quali competenze posso allora affrontare un argomento tanto spinoso come quello della convivenza in ambito artistico tra antico e moderno a Roma? Semplicemente in quanto suo abitante. Da tempo, infatti, qualsiasi cittadino si va imbattendo in un fenomeno piuttosto allarmante, rappresentato dalla presenza sempre più invasiva di manufatti contemporanei posti accanto a celebri monumenti del passato.
Di per sé, l’idea di accostare vecchio e nuovo mettendoli a contrasto non è certo negativa, e lo dimostrano due esempi fra tutti: da un lato la realizzazione del Grand Louvre a Parigi, con la piramide costruita verso il 1989 da Ieoh Ming Pei, dall’altro l’Ara Pacis di Richard Meier a Roma, inaugurata nel 2006. E dunque cos’è che non va, invece, nei più recenti interventi effettuati nella nostra capitale
Possiamo cominciare da cinque monumentali colonne d’arte contemporanea di 14 e 6 metri, esposte per i 140 anni delle relazioni Italia-Corea dall’artista sud-coreano Park Eun Sun. Con il titolo Colonne infinite, tutte queste opere sono state collocate nell’area archeologica di Roma, al fine di “arricchire” (cito da un comunicato stampa) il panorama della città, stringendo in un ideale connubio Occidente e Oriente.
Ho visto soltanto una di queste installazioni, situata giusto accanto al Tempio di Vesta. L’impressione che ne ho ricevuta è di profondo imbarazzo, un imbarazzo dovuto soprattutto all’arbitrio di un simile innesto. Fortunatamente (il giudizio è personale) l’iniziativa è temporanea, e tra qualche tempo si concluderà. Ma perché inserire un corpo estraneo di modesto valore artistico e di grande impatto visivo, proprio nel corpo vivo dell’antichità latina? Stavo recandomi rassegnato all’Anagrafe (rassegnato alle solite attese, infinite proprio come le colonne), quando mi si para davanti un obelisco tortile, fatto di scaglie incastrate una sull’altra, bianche con bande grigie.
Già il colore strideva con il rosato, direi quasi l’incarnato del Tempio di Vesta. Il resto lo faceva l’altezza, quasi doppia rispetto alle dimensioni del monumento romano. Perché, perché inserire quello stuzzicadenti accanto a un reperto bimillenario? Mi ero ripromesso di non dileggiare le opere moderne, tuttavia, davanti a una tale mancanza di sensibilità, è veramente difficile trattenersi. Lo scopo di certi atteggiamenti sembra consistere nella caparbia volontà di introdursi nell’antico, invadendo l’esistente. Eppure anche in Italia abbiamo enormi altopiani desertici: perché non sistemare lì colonne, sculture, statue contemporanee e, già che ci siamo, maratone cittadine? Perché non terminare una volta per tutte l’accanimento terapeutico sul grande corpo della nostra città?
In ogni caso, non voglio divagare, e proseguo la mia denuncia con Botero a Roma, otto enormi statue dell’artista colombiano “in mostra per la prima volta in alcune delle piazze più affascinanti della città”. Hai voglia a seguire i titoli: Terrazza del Pincio, Reclining Woman e Venus Dormida; Piazza del Popolo, Standing Man (Adamo) e Standing Woman (Eva); Largo San Carlo al Corso, Horse with Bridle; Piazza San Lorenzo in Lucina, Gatto; Piazza San Silvestro, Seated Woman; Piazza Mignanelli, Seated Woman. Se i soggetti variano, il risultato è sempre lo stesso, ossia una serie di immensi profitterol di bronzo che sembrano sancire la morte definitiva del figurativo. E sì che mi ricordo ancora, oltre mezzo secolo dopo, l’impatto sovrano delle sculture di Henry Moore nel Belvedere di Firenze…
Non basta. Leggo infatti che “Urban Vision Group, creative-tech media company e partner dell’iniziativa, amplificherà la visibilità della mostra trasmettendo sui maxi led, posizionati in zone centrali della città in prossimità delle sculture, la mappa dei luoghi in cui sono esposte le 8 opere”.
Inutile accanirsi in modo ingeneroso. Anche questa esposizione, se non altro, avrà fortunatamente una durata limitata. Così non è, purtroppo, per la Fontana della Dea Roma in Piazza Monte Grappa, in asse con il Ponte del Risorgimento, nel Quartiere della Vittoria. Realizzata nel 2003 dallo scultore polacco Igor Mitoraj, l’opera in travertino costituisce un dono permanente della società Finmeccanica. In questo caso, ahimè, non può valere il famoso proverbio “a caval donato non si guarda in bocca”. Secondo i dizionari, la frase sta a significare che tutto quanto viene regalato rappresenta qualcosa di guadagnato, e sarebbe cattiva educazione fare commenti sulla sua qualità. Ebbene, anche a rischio di sembrare sgarbati, non si capisce il motivo per cui la città dovrebbe accettare qualsiasi dono, e, soprattutto esporlo in pubblico.
“Da tempo, qualsiasi cittadino di Roma si va imbattendo in un fenomeno piuttosto allarmante, rappresentato dalla presenza sempre più invasiva di manufatti contemporanei posti accanto a celebri monumenti del passato”.
Certo, l’intenzione è benemerita, ma avrebbe potuto tradursi in altre forme di offerta: che so, una nuova fornitura di bus o di vagoni per la metropolitana. Continuiamo a dimenticarci che, se Roma ha ancora un pregio, esso consiste nella sua “grande bellezza”. Dunque, perché voler pensare di arricchirla ulteriormente? Tanto più se l’opera scelta appare una via di mezzo tra un falso, un plagio o quello che qualche negozio di mobilia definirebbe un prodotto in legno anticato. Indubbiamente su questo tema la questione si fa ardua, perché non è possibile stabilire in via definitiva le qualità di uno scultore. Ad ogni modo esiste un orientamento collettivo che rende di fatto evidente e condivisa (almeno all’interno di quella comunità intellettuale di cui parlava Stanley Fish) la statura di uno artista. In breve, non credo sia facile trovare qualche critico che osi mettere Botero o Mitoraj sullo stesso piano di Henry Moore, con tutto ciò che ne consegue. Se questo è vero, allora, perché esporre come monumento permanente, a Roma, l’opera di un artista di secondo ordine?
Diverso è il problema rappresentato dalle due statue in bronzo di Sandro Chia inaugurate nel 2015, ossia Enea ed Europa. La coppia, appaiata, si trova all’esterno di Palazzo Valentini, sede della Provincia e della Prefettura di Roma, tra Piazza Venezia e l’Altare della Patria. Apprezzato pittore all’interno del movimento della Transavanguardia, Chia scultore sembra perdere quel segno che lo aveva contraddistinto. Ancora una volta, insomma, ci troviamo davanti a un monumento permanente il cui valore non giustifica l’importanza e la solennità della collocazione.
Arriviamo così all’ultima testimonianza di attrito fra antico e nuovo. È stato l’architetto francese Jean Nouvel a progettare la Fondazione Alda Fendi Esperimenti: uno spazio accessibile gratuitamente a Palazzo Velabro, dedicato alla cultura e all’arte. Tutto bene, se non fosse che, giusto davanti all’Arco di Giano, è stata piazzata la statua di un rinoceronte in vetroresina a grandezza naturale a firma Raffaele Curi, direttore artistico della fondazione “Alda Fendi”. Ancora una volta si staglia contro il cielo di Roma una parola straziante: perché?
Fortunatamente (e la dea Fortuna era una tra le più amate dell’Urbe) l’artefatto è stato rimosso. Resta però profondo lo sgomento di chi lo ha visto presidiare un’area tra le più ricche della capitale. Do la parola a Giorgio Manganelli: “Quel che si salva, […] che è antico e delicato, è appartato, anche quasi clandestino; come il mitreo di San Clemente, e il vicolo romano, pochi metri, su cui dà adito; o il mitreo dell’Aventino: o la strana, notturna compagnia dell’arco di Giano a Bocca della Verità, con l’Arco degli Argentari e la chiesetta di San Giorgio in Velabro Sono sempre affascinato dall’esile tempietto sillano nella stessa piazza, e talora un cornicione, un pezzo di colonna catturato e domato in un edificio può far trasalire”.
Il dépliant della Fondazione Alda Fendi Esperimenti recita: “Un safari dell’anima per la savana romana”. Non so nulla di anima, ma che Roma sia ormai diventata una savana non c’è alcun dubbio, una savana africana e insieme un altopiano asiatico, aggiungerei, visto che, nel giro di un centinaio di metri, troviamo prima il rinoceronte, poi la colonna sudcoreana di cui si è detto.
“Anche a rischio di sembrare sgarbati, non si capisce il motivo per cui la città dovrebbe accettare qualsiasi dono, e, soprattutto esporlo in pubblico”.
Anche in questa occasione siamo costretti a rigettare l’adagio secondo cui “a rinoceronte donato non si guarda in bocca”. La capitale del nostro paese deve guardare, eccome, in bocca ai regali che riceve. Immaginate cosa accadrebbe altrimenti, se qualsiasi cittadino si mettesse in testa di offrire le sue creazioni, pretendendo di vederle esposte in pubblico nei luoghi più prestigiosi –cioè più delicati – dell’Urbe: “Vorrei attaccare dei miei quadri a Fontana di Trevi” – “E io sistemare alcune mie statue nelle nicchie del Colosseo” – “Ah no, quello spazio è stato già occupato da una serie di busti in ceramica del mio vicino”.
Purtroppo la nostra dimestichezza con l’antichità ci porta spesso a una sorta di accecamento. Ecco perché il tema degli inserti contemporanei nei tessuti urbani antichi risulta estremamente complesso da affrontare. Accordo o disaccordo, non importa. Come ha osservato Federico Giannini, direttore della rivista online “Finestre sull’arte”, “la presenza in dissonanza con l’arte antica è un’altra forma d’accostamento altrettanto valida, magari per mettere in discussione un argomento posto dall’antico. Quel che conta è che l’avvicinamento, anche discorde, di antico e contemporaneo finisca per lasciare qualcosa in più, per produrre nuovi significati e nuove letture”.
Eccoci al punto: negli esempi finora citati, viene appunto a mancare questa produzione di nuovi significati. Viceversa, ogni forma d’arte dovrebbe includere, in maniera più o meno intenzionale, una qualche forma di reazione, la quale, ha proseguito Giannini citando Salvatore Settis, “può manifestarsi anche capovolgendo di segno gli echi dell’arte antica, nascondendone le tracce, provando a ignorarne l’esistenza o a denigrarne qualità ed esiti, o perfino propugnandone la distruzione come facevano i futuristi”. Insomma, occorre tenere presente come il rapporto tra antico e contemporaneo sia animato da una tensione che “continuamente si riarticola nel fluire dei linguaggi critici e del gusto, nei meccanismi del mercato, nel funzionamento delle istituzioni, nella ‘cultura popolare’”.
Come attivare allora una compresenza d’antico e contemporaneo che non sia pretestuosa? Giannini fa risalire la storia del contemporaneo che s’intromette nell’antico, alle Sculture nella città, “la manifestazione che, nel 1962, riempì il centro storico di Spoleto di opere d’artisti contemporanei (sollevando già allora le perplessità di Giovanni Urbani), parte delle quali rimaste ancor oggi nelle vie e nelle piazze della città umbra”. Naturalmente sono molte anche le occasioni di incontro riuscite, ma esiste forse un motivo specifico che sembra rendere Roma particolarmente inadatta a simili esperimenti: l’estrema densità delle testimonianze storiche. Non per niente, a suo tempo, molti visitatori raccontarono del loro stupore nell’imbattersi in un vero e proprio “popolo di statue”.
Si tratta di una secolare espressione, che risale addirittura al 1510, quando venne formulato da Francesco degli Albertini (lo apprendo da uno studio di Pascal Griener). Quasi duecentocinquant’anni dopo, la stessa immagine torna in Ottaviano di Guasco: “Il numero di statue antiche è così grande, che se si facesse il censimento dei cittadini, come nell’antica Roma, forse se ne troverebbero in quantità minore rispetto a questo popolo inanimato”. Ancora pochi mesi, e l’abate Jean-Jacques Barthélemy racconterà: “Salgo spesso sul Campidoglio […] La prima volta che ci sono entrato, ho sentito una scossa elettrica: non vi saprei descrivere l’impressione che mi fecero tante ricchezze riunite. Non è più un museo [cabinet]: è il soggiorno degli dèi dell’antica Roma, è il liceo dei filosofi, è un senato composto dai re dell’Oriente: che cosa posso dirvi? Un popolo di statue abita il Campidoglio”.
A Roma, quindi, le vestigia artistiche appaiono tanto numerose da generare una specie di universo parallelo, da suggerire il sogno di una sterminata stirpe marmorea. Potrebbe essere questo il motivo per cui ogni ulteriore forma di ingerenza rischia di stonare. In altre parole, solo opere capaci di sostenere un urto tanto violento, potrebbero dialogare con un passato così massicciamente ingombrante. Il che equivale a dire che solo grandissimi artisti dovrebbero sostenere una prova del genere. E quelli presenti nella capitale in questo periodo, non sembrano davvero fare parte di tale esigua famiglia.
Per questo, concludendo, vorrei ricordare un’espressione proverbiale greca: “Portare vasi a Samo e nottole ad Atene”. Il senso è presto detto, e indica l’inutilità di recare oggetti o doni là dove se ne trovano già in abbondanza (l’isola delle Sporadi era un grande centro di lavorazione dell’argilla, mentre la città dell’Attica era infestata dai pipistrelli). Dunque, per quanto ci riguarda, sarebbe bene tenere a mente un detto che suonasse più o meno così: “Portare opere d’arte a Roma”.
Valerio Magrelli
Valerio Magrelli è poeta, scrittore, francesista, traduttore e critico letterario. Il suo ultimo libro Exfanzia (Einaudi, 2022).
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