La prima sorpresa di Venezia è che Errol Morris stavolta non ha fatto un grande film - Lucy
articolo

Lorenzo Gramatica

La prima sorpresa di Venezia è che Errol Morris stavolta non ha fatto un grande film

30 Agosto 2024

In Separated, Errol Morris, uno dei maestri del cinema documentario, racconta della politica di “tolleranza zero” dell’amministrazione Trump, che ha diviso migliaia di bambini dalle loro famiglie. Il film, che è lodevole nelle intenzioni, lo è meno nella forma.

Tra le cose sorprendenti che possono capitare alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, c’è la cordialità di una battelliera che, sorridente e con una genuinità priva di enfasi, si complimenta per lo stile di una ragazzina agghindata di pizzo nero e graziosamente truccata in stile goth, pronta a mettersi in prima fila sotto al sole nell’attesa che Tim Burton passi sul tappeto rosso. La ragazzina ringrazia, con voce incerta e come presa alla sprovvista; forse è anche lei poco abituata ai modi gentili di chi lavora per il trasporto pubblico veneziano, di solito riottosi come gabbiani – c’è da capirli, vista la quantità di turisti che devono scorrazzare in giro ogni giorno. 

Ancora più inaspettata però è la delusione che provoca l’ultimo documentario di Errol Morris, presentato fuori concorso a Venezia 81. 

Si credeva di andare a colpo sicuro, essendo Morris uno dei maestri riconosciuti del genere, capace nell’arco di quasi cinquant’anni di carriera (l’esordio, Gates of Heaven, documentario su due cimiteri di animali in California, è del 1978), di imprimere al cinema documentario un’impronta distintiva e uno stile nelle interviste replicato – spesso vanamente – da molti. 

(L’esordio di Morris ci ha anche regalato il documentario Werner Herzog Eats His Shoe: infatti Werner Herzog aveva promesso che, se Morris fosse riuscito a finire il suo Gates of Heaven, si sarebbe mangiato le scarpe, come Charlie Chaplin, evento immortalato dal regista Les Blank in un film che si trova su YouTube). 

Un vero peccato, perché questo suo ultimo film, Separated, aveva tutti i presupposti per piacere, a partire dal tema molto d’attualità: la politica della tolleranza zero voluta dall’amministrazione Trump che, dal 2017, ha generato migliaia di bambini orfani, separati dalle proprie famiglie una volta superato il confine con il Messico. 

Prima, chi entrava illegalmente in territorio statunitense con i propri figli o cugini o nipoti minorenni, veniva, nel peggiore dei casi, detenuto in centri speciali assieme a loro. 

L’obiettivo alla base di queste misure disgraziate, inumane, poi dichiarate anti-costituzionali, che per uno degli intervistati nel film sono mosse più da genuina cattiveria che da pragmatismo e lungimiranza politica, è quello di scoraggiare gli ingressi illegali, come se i minorenni fossero cavalli di Troia utilizzati dagli adulti per penetrare agevolmente nel Paese. 

“‘Separated’ racconta l’ideazione, la promozione, i sotterfugi, la comunicazione delle misure volte a dividere le famiglie di immigrati, con una precisione indiscutibile che sfiora però la pignoleria”.

Il film è tratto dal libro omonimo del giornalista della NBC – che del film è co-produttore – Jacob Soboroff, personaggio centrale anche nel documentario, che ha avuto il merito di raccontare questa storia con dovizia di particolari, favorito da un colpo di fortuna: aver visitato, con pochi colleghi, i campi di detenzione dove i bambini venivano ammassati, in celle troppo piccole, dietro sbarre dove ci si immagina di trovare pericolosi criminali. Il libro desta subito l’interesse di Morris. I due entrano in contatto e decidono di lavorare assieme al film.

Separated di Morris racconta l’ideazione, la promozione, i sotterfugi, la comunicazione delle misure volte a dividere le famiglie di immigrati, con una precisione indiscutibile che sfiora però la pignoleria.

La vicenda, che è dolorosa – per la coscienza emotiva e per la coscienza politica – e istruttiva, soffre infatti, nella sua esposizione, di un eccesso di pedanteria, che risulta frastornante: i personaggi sono molti, dicono cose tutto sommato simili, e si è incoraggiati ad andare avanti nella visione più per desiderio di giustizia che per reale interesse nel racconto, come se nella forma limitata di un film si potesse correggere una stortura della realtà fino a dichiararla estinta. 

Il metodo di intervista che Morris ha perfezionato con gli anni, nelle sue stesse parole, è quello del pugile: “È come essere sul ring: quanti pugni hai tirato? Quanti ne hai presi? Quando hai preso un pugno, ne hai tirato subito uno a tua volta? L’intervista è una forma di spettacolo”. 

Qui però, a differenza ad esempio di The Unknown Known (lunga intervista all’ex Segretario della Difesa degli Stati Uniti d’America Donald Rumsfeld) e del meno riuscito American Dharma (con un ineffabile e astuto Steve Bannon) manca a Morris l’avversario attorno a cui muoversi con la sua implacabile grazia, fintando, testandone la tenuta, studiandone i punti deboli e le incertezze prima di affondare il colpo. 

La responsabilità non è solo sua: i personaggi chiave dell’amministrazione Trump, dicono i titoli di coda, si sono rifiutati di prendere parte al film e quindi sono presenze che aleggiano sullo schermo senza possibilità di replica. Essendo un film a tesi, che vede il regista molto coinvolto, le voci sono tutte ragionevoli, eroiche, dalla parte giusta. 

I protagonisti qui sono i buoni, quelli che pur lavorando all’interno della macchina burocratica statunitense hanno voluto opporsi a questa aberrazione e ingiustizia; sono personaggi quindi con un grado di ambiguità basso per gli standard del regista, il cui cinema trova nell’opacità dei caratteri umani la sua più nitida compiutezza. 

L’amministrazione Trump era piena di utili idioti, una galleria di volgari mestieranti, di vecchi e giovani insopportabili, invasati e retrogradi (Thomas Homan spicca su tutti, tanto che Trump dice di averlo scelto per la sua malvagità), di mediocri messi in ruoli chiave proprio in virtù della loro incapacità, di donne tinte di biondo fasciate in tailleur troppo stretti e di pessima fattura. 

Scott Lloyd, ai tempi Responsabile dello smistamento dei migranti, ottiene il posto, apparentemente, solo per le sue posizioni a dir poco controverse in materia di aborto, ed è anche uno dei pochi a farsi intervistare, con un’espressione da cocomero e le capacità dialettiche di una piastrella, da Morris. 

Tra gli assenti, il personaggio più interessante è quello di Kjrstien Nielsen, una Karen eletta a capo della Sicurezza Nazionale e costretta dalla sua ambizione – “La cosa peggiore che possa accadere a una persona” dice nel film una donna che ha rifiutato di ricoprire quel ruolo ingrato – a sostenere in pubblico la volontà dell’amministrazione. Finirà poi sconfessata dallo stesso Trump in diretta televisiva; la sua espressione di sconforto e sbigottimento quando accade è tra le cose più belle del film, anche perché regala un eccitante senso di rivalsa – ma ci si rende conto, subito dopo, che lei, povera scema, è vittima del suo carrierismo, un burattino mosso da chi ha davvero il potere.

Se i cattivi compaiono nel documentario solo come presenze evocate di continuo, mancano anche le vittime: gli immigrati, gli adulti e i bambini. 

“Il tentativo di raccontare i retroscena del potere, il funzionamento della politica, l’arroganza dell’amministrazione Trump si esprime attraverso una forma didascalica, priva di originalità”.

Le parti di finzione che – come già in passato – Morris utilizza per illustrare la vicenda – la storia di una madre che passa il confine col figlio, dal quale finirà poi per essere separata – sembrano tese a colmare questa lacuna.

Qui però sono effettacci televisivi, inserti di fiction privi di sottigliezza. In una scena la camera si sofferma su un orsacchiotto di peluche, che ritroveremo poi nelle acque di un fiume con ambizioni evidentemente drammatiche.

Anche l’uso del sonoro, pieno di pathos, come sottofondo delle interviste indispone non poco e sottolinea l’ovvio, come a richiedere allo spettatore un’adesione ancora più decisa. 

Ma non è l’adesione, teorica, sentimentale e ideologica, che manca qui. Il tentativo di raccontare i retroscena del potere, il funzionamento della politica, l’arroganza dell’amministrazione Trump si esprime attraverso una forma didascalica, priva di originalità, ricchezza narrativa e della volontà di scavare più a fondo nei personaggi che questa vicenda l’hanno vissuta da carnefici e da vittime. 

Nel finale, si esplicita come molte delle misure integrate da Trump siano rimaste pressoché inalterate anche nel corso della presidenza Biden. Ad oggi, poi, sono più di mille i bambini che aspettano di essere ricongiunti alle loro famiglie. Questo è il momento più angosciante del film, ed è solo una didascalia che compare su schermo nero, senza bisogno di effetti o drammatizzazioni.

Lorenzo Gramatica

Lorenzo Gramatica è Responsabile editoriale e autore di Lucy.

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